• Non ci sono risultati.

Contenuto e parole chiave del canto

Capitolo II. Il canto, la tentazione e la morte dell’eroe

1. Contenuto e parole chiave del canto

Per cominciare riprendiamo il testo già riportato a pp. 15-16 del capitolo I riguardante l’incontro di Odisseo con le sirene e l’intonazione del canto che ammalia i viandanti:

‘ἀλλ᾽ ὅτε τόσσον ἀπῆμεν ὅσον τε γέγωνε βοήσας, ῥίμφα διώκοντες, τὰς δ᾽ οὐ λάθεν ὠκύαλος νηῦς ἐγγύθεν ὀρνυμένη, λιγυρὴν δ᾽ ἔντυνον ἀοιδήν:

55 νῆα κατάστησον, ἵνα νωιτέρην ὄπ’ ἀκούσῃς. οὐ γάρ πώ τις τῇδε παρήλασε νηὶ μελαίνῃ, πρίν γ᾽ ἡμέων μελίγηρυν ἀπὸ στομάτων ὄπ᾽ ἀκοῦσαι, ἀλλ᾽ ὅ γε τερψάμενος νεῖται καὶ πλείονα εἰδώς. ἴδμεν γάρ τοι πάνθ᾽ ὅσ᾽ ἐνὶ Τροίῃ εὐρείῃ Ἀργεῖοι Τρῶές τε θεῶν ἰότητι μόγησαν, ἴδμεν δ’ ὅσσα γένηται ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ.’ ὣς φάσαν ἱεῖσαι ὄπα κάλλιμον: αὐτὰρ ἐμὸν κῆρ ἤθελ᾽ ἀκουέμεναι (…)’

‘Vieni qui, nobile Odisseo, grande glora degli Achei, ferma la nave per ascoltare la nostra voce.

Nessuno passa di qua con la nave nera

prima di aver sentito il dolce canto dalle nostre bocche; poi riparte lietamente, sapendo più cose.

Sappiamo tutto quello che nella vasta Troade avete patito, Argivi e Troiani, per volontà degli dei;

sappiamo quello che avviene sulla terra feconda’ (trad. ita. di Guido Paduano)

Omero riporta alcune informazioni relative al contenuto del canto: le sirene si rivolgono direttamente all’eroe chiamandolo per nome, e lo invitano a fermarsi nella loro isola per ascoltare ancora meglio la loro voce; rimarcano come nessuno le ascolti senza essere preso dalla tentazione di venire presso di loro, dato che poi riparte felice di avere appreso molte cose; e rivelano che il loro vero dono è quello di conoscere ogni cosa che accade sulla terra. Una tentazione la loro che fa leva su un aspetto ben codificato nella psicologia del personaggio, presente sin dal v. 3 del proemio, πολλῶν δ᾽ ἀνθρώπων ἴδεν ἄστεα καὶ νόον ἔγνω, e che aveva già segnato alcuni episodi rinomati;1 inoltre il passaggio sembra vertere su un

approccio che va dal particolare all’universale, prima indugiando

1 Nell’episodio del ciclope, Odisseo viene esortato dai compagni a raccogliere le poche cose

presenti nella grotta e fuggire prima che si palesi il suo abitante; l’eroe decide però di restare per conoscerlo, provocando così la morte di molti partecipanti alla spedizione (IX 172-175; 224- 229).

Questo il caso più conclamato del pericolo che spesso nella storia deriva dalla smisurata sete di conoscenza; occorre citare anche quello che interessa la sosta presso i Lestrigoni, che porta all’annientamento di tutta la flotta, fatta eccezione per la nave di Odisseo (X 100-102), e l’incitamento ai compagni per andare in avanscoperta nell’entroterra di Eea (vv. 189-197), che porterà poi all’incontro con Circe. Così anche nel passo in cui Circe mette in guardia

sull’attraversamento presso lo stretto di Scilla e Cariddi, Odisseo tenta di sapere sempre qualcosa in più rispetto agli ammonimenti di Circe; nel momento in cui chiede, Circe lo rimprovera per l’indole caparbia, così come più avanti nel corso della narrazione Odisseo non riuscirà a mantenersi attinenti ai consigli della maga (XII 111-126, 226-230)

56

sull’invocazione all’eroe (vv. 184-185), quindi descrivendo la condizione generale degli uomini che ascoltano il canto (vv. 186-187), poi ritornando sui fatti che interessano il passato dell’eroe (vv. 188-189), e infine chiosando sulla conoscenza totale dei fatti del mondo. E’ ragionevole pensare che le sirene utilizzino particolari riguardanti la sua vicenda, tali da permettere un coinvolgimento personale dell’eroe, uniti a considerazioni più generali

riguardanti il loro potere per rimarcare la validità delle loro parole e convincere il singolo viandante a fermarsi per ascoltarle. Rimane ovviamente l’incognita riguardo l’autenticità delle loro parole, anche se il fato già prospettato da Circe nel caso di un transito privo di protezioni presso la loro isola indica che il premio offerto dalle sirene sia solamente un inganno: riteniamo dunque che nel caso proposto nell’Odissea le sirene conoscano gli eventi del mondo, ed allo stesso tempo tentino la vittima con la prospettiva di condividere il loro dono.

Dobbiamo considerare, dunque, che i due temi principali intorno ai quali ruota l’episodio possono essere identificati nel sentire e nel conoscere: il sentire,

ovviamente indicato dalla presenza del canto, e il conoscere, dall’idea che l’udire il canto porti come conseguenza una maturazione dell’ascoltatore; già da questa prima constatazione riguardo le tematiche di base possiamo notare che l’idea del conoscere, solitamente legata all’area semantica del verbo οἶδα, perfetto

indicativo del verbo ὁράω, vedere, nel passo sia invece legata in un costante dittico con il verbo ἀκούω, udire, ἀκούσῃς… ἀκοῦσαι… εἰδώς… ἴδμεν… ἴδμεν… ἀκουέμεναι.

Tenendo conto di questi punti fermi, andiamo ad esaminare quelle che sono le parole chiave del testo, esaminando il passo parallelamente ai due momenti precedenti, (vv. 37-54; 154-164), in cui le sirene venivano menzionate:

- θέλγειν, con il significato di «incantare, trasformare (nell’aspetto) o paralizzare tramite il fascino, oppure “ingannare”; si collega come metafora al sonno e all’amore». Tra i suoi derivati vi è «θελκτήριον, fascino, riferito

nell’Iliade alla cintura di Afrodite, θελκτήριος, colui che incanta o incantevole, e θέλκτωρ, epiteto anche della divinità Πειθω, laddove il suffisso -τωρ indica

57

l’autore, non l’agente di una funzione». Dà origine anche a «θέλκτρον, fascino, e θέλγητρον incanto, fascino, a volte in senso figurato».2 Compare

nell’ammonimento di Circe ai versi 40 e 44 del libro XII, ma il verbo è attestato in vari passi dei poemi omerici; nell’Iliade è detto di Zeus che «stravolge la mente dei greci» (XII 255), di Poseidone che «ammalia gli occhi e incatena le membra» (XIII 435), Apollo che «incanta il cuore degli Achei scuotendo l’egida» (XV 322), di nuovo Zeus che «ammalia il cuore dei greci» (XV 594), delle bugie che Teti avrebbe rivolto al figlio, durante il lamento di Achille mentre lotta col fiume Scamandro (XXI 276), Apollo che inganna Achille prendendo le

sembianze di Agenore (XXI 604), ed è anche l’effetto prodotto dalla verga di Hermes sugli uomini (XXIV 343). Nell’Odissea la forma è molto più frequente: è propria di Calipso che «con dolci discorsi tenta di avvincere Odisseo» (I 57), di Egisto che adesca Clitemnestra mentre gli Achei sono impegnati sulla piana di Troia (III 264), nuovamente della verga che Hermes usa per addormentare i mortali (V 47; XXIV 3), dell’azione dei φάρμακα di Circe (X 291,318); compare nella preghiera che Eumeo rivolge ad Odisseo, «non incantarmi con menzogne piacevoli» (XIV 387), viene riferito da Telemaco alle possibili azioni di un

demone dopo che Odisseo gli si è rivelato (XVI 195), è propria dei poteri di Zeus ed Atena che possono incantare i proci (XVI 298); attribuita agli effetti delle parole di Penelope (XVII 514), e ai racconti che Odisseo ha fatto ad Eumeo mentre era ospite nella sua capanna (XVII 521), al θύμος che stringe i proci (XVIII 212), alle parole con cui Penelope «blandisce i proci» (XVIII 282). Nei due poemi compare anche la forma θελκτήριος, riferita agli incanti che stanno nella cintura di Afrodite (Il. XIV 215), ai canti di Femio che allettano gli uomini (Od. I 337), e al cavallo di legno, che i troiani pensano di lasciare come dono incantevole per gli dei (VIII, 509). Vi è quindi un uso unitario del verbo θέλγειν nell’Iliade, in cui designa sempre un’azione di raggiro e depistaggio da parte delle divinità, mentre nell’Odissea si estende anche a connotazione dell’agire di personaggi umani, mantenendo però sempre la connotazione relativa alla

2 Vedi P. Chantraine, Dictionnaire Etymologique de la Langue Grecque, Paris, Editions

58

menzogna: Egisto riesce a distorcere la mente di Clitemnestra, così come

Odisseo inganna pro tempore il porcaio (inganno perpetrato con una falsa storia, ma comunque propiziato dall’azione divina di Atena che aveva mutato l’aspetto dell’eroe); ed allo stesso modo Penelope inganna i proci con le parole mentre la sua mente tende ad altre azioni (perché si presenta ai pretendenti ed agli altri abitanti del palazzo dopo che il suo aspetto è stato mutato dalla dea Atena, azione che evidentemente lascia traccia di sé anche nella sfera orale3), oppure le sue

parole riescono a smuovere gli animi proprio perché nascono «dal suo cuore», (v. 514); e il θύμος, in quanto sentimento che invade il corpo dell’uomo privandolo di razionalità, può anch’esso raggirare l’uomo. Ci si dovrà riferire al θέλγειν come una forma di inganno vocale perpetrata soprattutto da dei o esseri sovrannaturali, ma anche da uomini, nel caso in cui le loro parole vengano ispirate da divinità o sentimenti che li rendono capaci di raggirare.

- φθόγγος derivato da φθέγγομαι «“emettere un suono, un rumore, essere ascoltato”; se riferito agli uomini sussurrare, “mormorare”, o al contrario “dar voce, gridare”; riferito a qualsiasi animale od oggetto emetta un suono; in Omero lo si ritrova al participio aoristo, “prendere la parola”» (Il. XI 603, XXIV 170;

Od. XIV 492, XXI 192). «Per derivazione dal vocalismo -e- può dare origine

anche a φθέγμα, “rumore” o “suono”». Presente nell’ammonimento di Circe, ripreso poi al v. 198, anche in questo caso la forma è utilizzata da Omero

nell’Iliade e nell’Odissea: nell’Iliade compare solo come definizione della voce di Enea che deve guidare il cocchio contro Diomede in battaglia (V 234), mentre nell’Odissea è più presente, riferito alla voce di Polifemo (IX 257), per tre volte alla voce delle sirene, prima nell’ammonimento di Circe, nell’esortazione ai compagni e quindi dopo il passaggio di fronte all’isola; compare poi come sostantivo per la voce delle ancelle di Penelope che irrompono nella camera da letto della padrona, svegliandola dopo che Atena l’aveva addormentata (XVIII 199), e nuovamente viene riferito alle sirene per quanto riguarda il racconto epitomato che Odisseo fa a Penelope nella camera da letto, dopo essersi fatto

59

riconoscere (XXIII 326). Il verbo da cui deriva il sostantivo, φθέγγομαι, è più frequente in entrambe i poemi: nel canto X dell’Iliade è detto del grido degli Atridi (vv. 67, 85), di Nestore (v. 139), e di Dolone, subito prima della sua morte per mano di Diomede (v. 457); nel libro XI è riferito al grido di Achille (v. 603); nel libro XVIII è detto del grido di Atena (v. 218); nel libro XXI è proprio del fiume Scamandro (v. 213), e del grido di Era, (v. 341); nel XXIV di Iride, che parla sottovoce a Priamo (v. 170). Nell’Odissea il verbo è riferito al grido di Odisseo rivolto da lontano al cieco Polifemo (IX 497), alla voce dei compagni di Odisseo mandati in avanscoperta verso il palazzo di Circe (X 228-229, 255), al grido dei sei marinari ghermiti da Scilla (XII 249), alla voce dell’Odisseo

protagonista del falso racconto presso la capanna di Eumeo (XIV 492), alla voce di Antinoo (XI 192), alla voce dell’aruspice Leode, decapitato da Odisseo

durante lo sterminio dei proci (XX 329). La variante φθογγή compare nell’Iliade, libro II, per indicare la voce di Iride, messaggera degli dei che imita la voce del figlio di Priamo Polite (v. 791), per la voce di Poseidone che imita quella di Toante, guerriero acheo, e per la voce di Sarpedonte che invoca Glauco, morente, dopo essere stato ucciso da Patroclo (XVI 508); e nell’Odissea per designare la voce dei ciclopi (IX 167). La parola φθόγγος quindi indica un grido di guerra nell’Iliade, mentre nell’Odissea designa un gruppo più disparato di personaggi, mostri ed umani: indica comunque un grido inumano, tale da poter essere

pronunciato anche per svegliare da una condizione imposta da una divinità, così come nel caso delle ancelle di Penelope. Nel caso del verbo φθέγγομαι nella maggioranza delle attestazioni riportate il verbo tende a designare la voce di un dio, o un grido proprio di eroi, uomini che sperimentano la morte o vanno incontro al pericolo, oppure un grido tanto forte da potersi udire da lontano: caratteristiche che interessano anche la natura delle sirene nel libro XII.

- λιγύς- εία- ύ, «detto di suono chiaro e penetrante, acuto; in Omero riguarda le sirene, le muse, Nestore e la lira; è applicato anche al vento; in tragedia invece è riferito o ai vagiti dei neonati oppure all’usignolo. I suoi composti sono

λιγύφθογγος, detto in Omero riguardo l’usignolo e gli araldi; λιγύφωνος, applicato al suono degli uccelli, λιγυσφάραγος, detto della lira, “dalla voce

60

sonora”; i suoi derivati sono λιγυρός, usato specialmente in poesia e raramente in prosa, “chiaro”, “acuto”, detto del vento, della voce, del canto delle sirene». Concentrandosi sulla sola forma λιγυρός, essa compare nei poemi omerici raramente: nell’Iliade è riferito ai «soffi acuti di Borea» (V 526), alla «frusta sonora», XI 532, al «soffio sonoro del vento» (XIII 590), all’uccello che gli dei chiamano «calcide» e i mortali «ciminide» (XIV 290), al soffio stridente che si estende sul mare per azione di Zefiro e Borea (XXIII 215). Nell’Odissea invece le uniche attestazioni sono quelle riportate nel canto XII, ai vv. 44 e 183, prima nelle parole di Circe e poi in quelle di Odisseo narratore alla corte di Scheria: in entrambi i casi l’aggettivo è declinato insieme al sostantivo ἀοιδή, λιγυρήν ἀοιδήν… λιγυρῇ ἀοιδῇ; in tutti e due i casi il sintagma è spezzato dal verbo, nel primo caso è traducibile con stregano mentre nel secondo con un più generico intonavano. Possiamo avanzare l’ipotesi che λιγυρός, derivato da λιγύς, indichi in buona parte la natura ibrida delle sirene, essendo un attributo che spesso viene associato al canto degli uccelli; è proprio anche di suoni non umani, o prodotti da oggetti o da fenomeni atmosferici.

- ἀείδω, «che per contrazione dà ᾂδω, propriamente “cantare”, usato insieme al sostantivo che evidenzia il tema del canto o il personaggio che viene celebrato; ἀοιδός indica “cantante”, e forma alcuni composti importanti, ἐπῳδός, ῥαψοδός, τραγῳδός; il nome derivato è ἀοιδή, che legandosi a preposizioni dà a sua volta origine ad alcuni composti importanti, come ἐπῳδή, “incantamento”; i termini derivati della famiglia di ἀείδω significano in generale “cantare”, usati per un coro, un cantore o una performance, sia essa di un poeta lirico o epico; i composti del tema con ἐπί- solitamente indicano il valore magico del canto». La parola ἀοιδή ricorre in Iliade e Odissea; nel catalogo delle navi del libro II viene citata la terra di Doro, città da cui proviene il cantore Tamiri, che lodandosi per il suo

canto viene punito dalle muse (vv. 595 e 599); viene citato come dono degli dei,

insieme all’abilità nel suonare la cetra, nel libro XIII 731; indica il compianto dei cantori una volta che il cadavere di Ettore viene riportato all’interno delle mura di Troia (XXIV 721). Nell’Odissea invece il termine è molto più frequente, e compare nel libro I come connotazione del canto di Femio, mentre questi esegue

61

la sua performance per allietare i proci rievocando i nostoi degli eroi achei (vv. 159, 328, 340, 351, 421); nel libro III Telemaco, ospite di Nestore, parla del canto che gli Achei tributeranno ad Oreste per l’uccisione di Egisto (v. 204); nell’VIII viene usato il termine per designare il canto dell’aedo cieco Demodoco (vv. 44, 64, 481, 498-499); infine compare proprio nel libro XII, come

indicazione del canto delle sirene, prima nelle parole di Circe e poi in quelle di Odisseo narratore a Scheria (vv. 44, 183). Possiamo identificare l’ἀοιδή come un canto che viene eseguito da esseri mortali o divini, e nel caso in cui siano uomini ad eseguirlo viene ispirato dagli dei (in quanto gli aedi da essi ricevono il canto) e riguarda sempre particolari tematiche: un lamento funebre o le gesta gloriose di eroi.

- βοή, grido, «clamore, usato sempre in modo molto diversi, specialmente in Omero; solitamente indica il “grido di guerra”; correlato al verso βοάω,

“gridare”, “chiamare a gran voce”, a volte “celebrare”».

- θεσπέσιος, «aggettivo che già in Omero ha diverse variazioni a seconda del

contesto: viene detto del canto divino (Il. XI 600), delle sirene (Od. XII 158). In

Iliade XI 367 θεσπέσιη può essere tradotto con “per volontà divina”, da cui la

generica traduzione di “divino” per θεσπέσιος; oppure anche lo si intende come “straordinario”, detto dei fenomeni naturali, delle grida, del panico. Forma

derivata da θέσπις, “ispirato dagli dei”, epiteto di ἀοῖδος (Od. XVII 385), e ἀοιδή (I 328, VIII 498). Da qui si origina anche il verbo θεσπίζω, “profetizzare, fare un oracolo”». L’aggettivo indica una definizione propria delle sirene, vista anche la loro ascendenza divina e il ruolo soprannaturale che svolgono nel racconto. Nell’Iliade viene utilizzato riferito alla reggia degli dei (I 591), al volere divino, alle armi di bronzo dell’esercito acheo ispirato da Atena, al canto di Tamiri, alle ricchezze degli abitanti di Rodi concesse da Zeus (II 367, 457, 600, 670), al clamore dei colpi dei troiani sostenuti da Zeus (VIII 159), al panico che coglie achei e troiani nottetempo (IX 2), al grido dei troiani che seguono Ettore, sostenuti da Zeus (XII, 252), al tuono di Zeus (XIII 797), alla nebbia che Atena fa calare sugli eserciti (XV 669,) al frastuono della guerra (XVI 295), al terrore che Apollo getta sui greci (XVII 118), alla nebbia portata da Poseidone sul

62

campo di battaglia (XX 342), all’impeto di Borea e Zefiro (XXIII 213). Nell’Odissea è detto della grazia divina con cui Atena riempie l’animo di

Telemaco (II 12,) dello strepito degli achei che si alzano dal concilio (III 150), di nuovo della nebbia con cui Atena cela Odisseo nella reggia dei Feaci (VII 42), dello splendore con cui Atena ricopre Odisseo (VIII 19), della furia di Zeus nella tempesta, del vino di Marone, sacerdote di Apollo (IX 69, 211), del clamore delle anime dei morti (XI 43, 633), delle sirene, della grotta delle ninfe naiadi (XIII, 363) dell’antro in cui stridono le nottole (metafora per la discesa delle anime dei proci nell’Ade) e del grido di Teti sul corpo di Achille (XIV 6, 49). Θέσπις compare nell’Odissea solamente, riferito al canto di Femio (I 328), al canto di Demodoco (VIII 498), in generale come epiteto per i grandi cantori (XVII 385). Il termine dunque mantiene un suo specifico relativo alle divinità e alle azioni derivate dalle divinità nell’Iliade, specialmente come aggettivo indicante la furia della battaglia (da considerare che nell’Iliade le sorti della battaglia e della vita/morte dei protagonisti sono perennemente influenzate dagli dei);

nell’Odissea invece lo scarto è dato da un utilizzo legato alla gloria degli dei e all’ambito funebre, con un parziale abbandono di quello militare. Θέσπις invece è attestato per indicare in generale il canto ispirato dagli dei.

- ὀψ, «sostantivo attestato al solo singolare, “voce, rumore”, può essere detto

del suono personificato, o di una voce divina, di una voce profetica; da con confondere con il termine ὀψ, “vista, sguardo”, connesso con ὄπωπα, perfetto di ὀράω, formato dalla dalla radice ὀπ-; il termine indicante “voce” è associato invece ad un verbo atematico attestato in sanscrito -vakti-, “lui dice”; altri nomi della medesima famiglia in greco sono ἔπος e ἐνοπή». Il termine ricorre nei poemi omerici con il significato di «voce»: nell’Iliade il termine viene usato per definire la voce delle muse che cantano per allietare il banchetto degli dei (I 604), la voce di Atena (II 182), il suono delle cicale nella foresta (III 152), la voce di Odisseo (III 221), la voce degli agnelli (IV 435), la voce degli dei (VII 53), la voce dei figli di Antimaco (XI 137), la voce di Poseidone (XIV 150), la voce di Agamennone (XVI 76), la voce di Achille (XVIII 222), la voce di Apollo (XX 380) nuovamente la voce di Achille (XXI 98), la voce di Ecuba (XXII 451).

63

Nell’Odissea invece la voce di Calipso (V 61), quella di Circe (X 221), la voce delle sirene, quella di Odisseo personaggio nella falsa storia che Odissea racconta ad Eumeo (XIV 492), la voce di Penelope (XX 92), quella delle muse e di Atena (XXIV 535). Il termine presenta dunque una modifica per quanto concerne gli attanti a cui viene riferito, passando dall’essere proprio di dei ed eroi ad un nuovo contesto in cui viene quasi esclusivamente riferito a divinità, in particolar modo Circe, Calipso e le sirene; compare anche come sostantivo per la voce di

Penelope, pur mentre dialoga con una divinità, pregandola.

Il lungo elenco delle parole chiave proposto serve per suggerire una prima analisi del modo in cui il passo riesce a veicolare, esplicitamente e

implicitamente, alcune informazioni chiave che ci presentano il pericolo delle sirene e la loro capacità di ammaliare colui che le ascolta; si dovrà tenere conto della tripartizione della minaccia (ammonimento di Circe, Odisseo che rivela ai compagni l’ammonimento, canto vero e proprio),4 qui coniugata alla disposizione

dei termini nel testo.

Inizialmente Circe descrive le sirene secondo caratteristiche generali,

evidenziando subito, vista la sua pregressa conoscenza del pericolo, il θέλγειν al v. 40, e riprendendolo al v. 44; nel secondo caso il verbo è accompagnato d una connotazione accompagnata da un λιγυρῇ αὀιδῇ, un canto proprio degli aedi ed ispirato dagli dei, ma che ha al suo interno un’indicazione unica nel poema: se questo canto è limpido, questa limpidezza è propria di creature non del tutto umane, ma nemmeno del tutto divine, a metà tra le due specie (abbiamo visto in precedenza come il termine λιγυρός nei suoi composti indichi anche il suono emesso dagli uccelli). Circe dice inoltre che questo canto, che è divino, è da intendersi anche come un φθόγγος, un grido che nei poemi omerici è riferito ad esseri non umani, ma anzi solo ed esclusivamente a dei e mostri; Circe, quindi, pur riconoscendo la natura soprannaturale delle sirene, sottolinea come non ci si debba fidare di questo canto, perché in realtà è il grido di un animale e non

64

assimilabile totalmente al canto divino. Solamente in seguito la maga utilizza la parola ὄψ (v. 52) per identificare il canto delle sirene, e lo spostamento di significato nella descrizione è relativo al cambiamento di contesto: non più un avviso riguardante il pericolo, bensì un ravvisare la realtà dei fatti, e cioè che nella condizione di piacere derivato dal canto, τερπόμενος, l’ascoltatore non possa che considerare la voce delle sirene come un ὄψ, un suono proprio di eroi e divinità nell’Iliade, e soprattutto dei nell’Odissea.

Il medesimo posizionamento dei termini ritorna nell’avviso del pericolo da parte di Odisseo: le sirene sono divine, θεσπεσιάων, ed allo stesso tempo il suono da loro emesso è un φθόγγος; mentre il loro canto è un ὄψ nel momento in cui