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Femio, Demodoco, le muse: la performance del canto epico

Capitolo II. Il canto, la tentazione e la morte dell’eroe

4. Sirene e cantori nell’Odissea: affinità e differenze

4.1 Femio, Demodoco, le muse: la performance del canto epico

Dai proemi epici di Odissea e Iliade sappiamo che gli aedi non sanno di per sé ciò che stanno narrando all’audience, ma ricevono da una divinità, in particolare la musa, l’ispirazione per il canto e il suo contenuto; così nel corso della trama dell’Odissea compaiono, in parallelo con l’Omero narratore, una coppia di figure di cantori che per caratteristiche possono essere idealmente messi a raffronto le sirene: parleremo di Femio, aedo della reggia di Itaca, e Demodoco, che svolge la medesima funzione a Scheria.

Del primo, già presente nel libro I dell’Odissea, colpisce il fatto che venga costretto a cantare dai Proci (vv. 153-155), intenti a dilapidare le sostanze dell’eroe assente; quando poi canta, la sua performance si rivolge al passato, a narrare della caduta di Troia e di eventi che coinvolgono direttamente Odisseo (vv. 325 ss). Quando Penelope giunge nella sala, redarguisce Femio affinché non canti più riguardo questo argomento che le provoca soltanto dolore (vv. 345 ss.), ed in seguito è a sua volta rimproverata da Telemaco, che sentenzia che i racconti riguardo i fatti che vedono Femio come portavoce non sono prodotto

direttamente da lui, ma sono Zeus e gli dei che hanno voluto che accadessero, e che Odisseo non è l’unico ad aver ricevuto dolore dagli eventi di dieci anni prima (vv. 345 ss). Particolare interessante per Femio è nella sua ricomparsa nel libro XXII, dopo la strage dei pretendenti e dopo che Odisseo ha ucciso Leode,

l’aruspice del palazzo che lo supplicava di salvarlo;41 decide di prostrarsi ai piedi

dell’eroe e chiedergli la grazia in qualità di cantore, e perché «l’arte l’aveva appresa da solo, mentre i canti glieli aveva messi nel cuore il dio; (…) e che i Proci lo traevano a forza nella casa» (vv. 347-348; 351-353). Femio si proclama pertanto solo un tramite attraverso cui la performance artistica passa nel mondo dei mortali, ispirata da un dio; laddove il canto, come tecnica di modulazione della voce e di creazione del metro poetico, viene imparato tramite tecniche

41XII 310-325; Odisseo lo uccide perché, se aruspice, deduce che probabilmente ha profetizzato

che non sarebbe tornato in patria per poter prendere in sposa Penelope; Leode si difende dicendo che aveva sempre tentato di frenare gli altri Proci.

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mortali, ma è solo tramite l’azione degli dei che l’uomo sa cosa deve cantare e come lo deve cantare. Ad ulteriore discolpa di Femio, l’aedo non canta mai per propria volontà, ma sempre perché vi è un incitamento dalla platea, una prima spinta che lo porta ad esibirsi.

Medesima condizione è quella del cantore Demodoco. Chiamato da Alcinoo affinché allieti i presenti, Demodoco si presenta come un cantore cieco, il cui dono deriva dagli dei, e che canta «per dare piacere ai mortali, a seconda che il cuore gli detta» (VIII 43-45). Una volta arrivato nel convito, Demodoco viene invitato a suonare tramite l’offerta di cibo e vino, e solo allora la Musa lo muove nel canto, e il contenuto di questo canto è il litigio tra Odisseo ed Achille durante la guerra di Troia;42 l’episodio non può che portare Odisseo stesso alle lacrime,

per i ricordi suscitati dalla nostalgia dei tempi passati. Demodoco viene allontanato e in seguito torna nuovamente per esibirsi durante il banchetto, e Odisseo stesso dà un pezzo di carne all’araldo, perché in qualità del suo statuto di artista va riverito; la Musa infatti «insegna loro il canto, li ama e ne eleva la stirpe»; lo prega poi di cantare ancora degli avvenimenti della guerra di Troia, in particolare della presa della città tramite l’inganno del cavallo, ideato da Odisseo e costruito da Epeo (vv. 477-498). A questo punto Odisseo piange per i ricordi suscitati dal canto, e nuovamente Alcinoo interrompe il cantore e invita l’ospite a raccontare le sue disavventure.

Nei casi di Femio e Demodoco è chiaro il ruolo che il cantore ha all’interno del gruppo sociale: se chiamato a cantare non può esimersi, e come membro del gruppo toccato dal dio viene servito e riverito; in lui si palesa la presenza del dio stesso, e solo tramite uno specifico sistema rituale lo si convince a cantare; il suo

42 VIII, 63-82; il racconto fa riferimento ad un episodio del ciclo troiano; interrogato l’oracolo di

Delfi, Agamennone apprende che Troia sarebbe caduta soltanto dopo che i migliori guerrieri dell’esercito avessero litigato; durante un banchetto si accende la contesa tra Achille ed Odisseo sul metodo da utilizzare per conquistare Troia, o l’astuzia o la forza; una volta visto l’alterco, Agamennone sorride perché sa che l’oracolo si è compiuto, Cetrangolo, p. 761.

In seguito Demodoco canta anche degli amori di Ares e Afrodite (vv. 266-366); in questo caso Odisseo prova piacere ascoltando il canto dell’aedo, perché gli eventi non lo riguardano direttamente. Privitera ravvede comunque nell’esecuzione e nel contenuto un richiamo alla possibile infedeltà della moglie ad Itaca; così come Afrodite tradisce Efesto, anche Odisseo potrebbe essere stato tradito dalla moglie, Privitera, p. 130.

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canto, infine, allieta le persone, e solamente nel caso richiami alla memoria un fatto spiacevole per i presenti può provocare tristezza e frustrazione (nel caso di Penelope il rifiuto del canto di Femio riguardante Troia è provocato dal ricordo del marito, per Odisseo invece il canto rievoca soltanto il ricordo di eroi amici ormai defunti). Nel caso di Femio, dunque, è logico pensare ad un personaggio svilito del suo ruolo e non stigmatizzabile per l’aver messo a disposizione la sua arte ai proci: l’aedo canta se invitato a farlo, canta per un gruppo sociale, e se anche i suoi ascoltatori sono moralmente detestabili non è a lui che si deve imputare il danno, ma al dio; il cantore è un tramite del dio, e come tale manifestazione stessa del dio.43

La funzione del canto è quella di allietare i mortali, e il suo statuto di verità viene dagli dei; è un dato assodato per coloro che si preparano ad ascoltare la performance di un aedo, e nessuno mette in dubbio che vi possa essere qualcosa di falso in ciò che deriva direttamente da un dio. Anche nel caso di Odisseo, che narra delle sue gesta e delle sue peripezie nella reggia dei Feaci, nessuno mette mai in dubbio la natura veridica dei fatti trattati, perché l’eroe è degno di fiducia una volta che il suo status è stato certificato. In The varieties of enchantment:

Early Greek views of the nature and function of poetry, Walsh ribadisce come per

i Feaci il canto non possa che portare gioia e letizia a coloro che lo ascoltano, e che questa gioia sia data soprattutto dal fatto che il canto dica la verità: nel momento in cui il canto è ben formato e le parole usate lo abbelliscono, ecco che

43 L’idea generale è che le muse ispirino in tutto e per tutto il canto ai poeti, che si fanno solo

tramite terreno per questo canto; in realtà i doni degli dei, nel mito, non implicano che gli uomini siano soltanto canali per l’azione divina, ma mantengono anche un loro specifico nella creazione: l’esempio stesso viene dal libro VIII, in cui Demodoco è ispirato dagli dei, ma ha anche abilità nell’indirizzare il canto, vedi L. H. PRATT Lying and Poetry from Homer to

Pindar: Falsehood and Deception in Archaic Greek Poetics, Michigan State, Ann Arbor: The

University of Michigan Press, 1993, pp. 50-52.

Per il lettore moderno è complicato distinguere tra l’azione ispiratrice della dea e l’autonomia del poeta, e viceversa per l’audience degli antichi doveva essere invece normale che a volte il poeta rivendicasse per proprie alcune intuizioni e successivamente invocasse la musa per dare uno statuto di verità ai suoi versi; così non è detto che nel mondo antico ciò che nel viene cantato sia legato inscindibilmente alla verità. La musa quindi non è essenziale per il poeta, ma viene spesso utilizzata solo per conferire maggiore autorità alle proprie parole: un esempio è l’uso che si fa del richiamo all’ispirazione della musa nel corso della storia dell’Iliade, in cui Omero invoca la dea per rammentargli i particolari di un’azione specifica dei guerrieri troiani e achei.

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anche il canto dice il vero. Odisseo che diventa cantore delle sue storie è nella medesima condizione di Femio e Demodoco: presentandosi come eroe di Troia e raccontando all’audience in modo preciso e bello le sue avventure non può non essere creduto.44 La visione che si pone non può che essere incredibilmente

unitaria, il canto non può che portare gioia, e se rallegra l’ascoltatore non può che dire la verità: tale dogma sembra però perdurare solo nell’ambito della corte dei Feaci, e nel momento in cui un elemento estraneo (Odisseo) vi si insinua e reagisce in modo contradditorio ad un canto che aveva allietato i presenti, a quel punto la folla si chiede il perché di tale reazione; il valore veridico del canto decade in parte perché legato alla sola fiducia da riporre in colui che canta, e in particolare riguardo l’idea che possa non portare necessariamente gioia. Così, dobbiamo immaginare un canto che è necessariamente piacevole, e quindi vero, solo presso il mondo dei Feaci: d’altro canto invece le sirene cantano, e

apparentemente il loro canto provoca gioia, ma in realtà provoca la morte; così come sono delle dee, ma ciò non toglie che possano dire menzogne nel canto.

In realtà il canto è molto più ambiguo nella sua natura: il cantore partecipa di uno statuto di superiorità per la sua vicinanza al dio, ma non è detto che dica la verità; così il canto può portare a reazioni emotive di diverso tipo, senza che in esso si ritrovi necessariamente il puro piacere dell’ascolto. Data l’ispirazione del canto che giunge direttamente dalle muse, e dati alcuni tratti fondamentali che le legano e le differenziano dalle sirene, è d’uopo cercare di tracciare un parziale

identikit di tali divinità.

Le muse compaiono nei poemi omerici e ovviamente nella Teogonia di Esiodo. Nell’Iliade accompagnano il banchetto degli dei (I 604), quindi il poeta si rivolge direttamente alle muse, invocandole per avere un elenco degli eroi impiegati in battaglia (II 484, 491, 761), e puniscono Tamiri per il suo ardire nel

44G.B. Walsh, The varieties of enchantment: Early Greek views of the nature and function of

poetry, Chapel Hill: London, University of North Carolina Press, 1988, pp. 3-21; la natura della

parola come strumento di attestazione sociale viene ribadita dallo stesso Odisseo nel dialogo con Euribolo (VIII 166-177); denota come l'apparenza pur bella dell'antagonista si oppone ad una sua mancanza di grazia nella parola, il che lo porta a intendere che sia privo di cervello: intelletto ed eloquenza sono profondamente connessi, e lo stesso eroe non pensa che un uomo possa pensare bene ed esprimersi male.

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considerarsi loro pari (II 594-598); durante il combattimento il poeta le invoca per conoscere gli avversari di Agamennone (XI 218), oppure per sapere chi tra i greci per primo si lancia in battaglia, o come vengono infuocate le navi dei greci (XVI 112). Nell’Odissea viene invocata nel proemio, viene citato il dono che la musa ha fatto a Demodoco e come ne indirizzi il canto (VIII 63, 73, 481, 488), e si citano le muse come partecipanti durante i funerali di Achille (XXIV 60, 62). Nella Teogonia sono citate nel proemio, per quanto concerne il loro incontro con Esiodo e la sua investitura sull’Elicona, la loro genesi e i loro nomi, e soprattutto il rapporto che hanno con i mortali. I tratti generali delle muse sono che abitano l’Elicona, e da lì si muovono per la notte celebrando la gloria degli dei olimpici (vv. 1-21); investono Esiodo come loro portavoce, presentandosi come «dee che sanno dire il vero ma anche il falso», e gli impongono di cantare della stirpe degli dei beati (vv. 22-35); segue la genealogia delle muse, che vengono dette figlie di Zeus e Mnemosine, unitisi per nove mesi per procreare le nove dee, e l’elenco dei loro nomi45 (vv. 35-79); le muse sono coloro che pongono la bocca dei re

nella condizione di dire ciò che è giusto, e così essere il migliore nel suo gruppo sociale (vv. 80-93); così sono beati coloro che fanno da portavoce alle muse, perché narrando delle gesta degli dei risollevani gli animi di coloro che sono affannati (vv. 94-103); infine Esiodo chiede alle muse il canto, l’argomento di ciò che è stato riguardo gli dei che sono nati prima dell’uomo (vv. 104-115).46

Per alcuni tratti le sirene hanno caratteristiche simili alle muse: entrambe sono creature divine, entrambe fanno del canto il loro principale strumento di

45 Varie sono le versioni della tradizione riguardo il numero e i nomi delle muse: per Esiodo

sono nove, la più importante tra loro è Calliope, e poi vi sono Clio, Euterpe, Erato, Polimnia, Urania, Talia, Tersicore e Melpomene (queste ultime due, in alcune branche della tradizione, vengono indicate come madri delle sirene). Per Cicerone, De natura deorum II 21.54, invece vi sono tre gruppi di muse: le prime, figlie del secondo Giove, cioè Etere, sono Telxinoe, Aede, Arche, Melete; il secondo gruppo invece è quello cantato da Esiodo, generate dal terzo Giove, quello cretese, e da Mnemosine; un terzo invece comprende le figlie di Pierio e Antiopa: sono dette Pieridi e hanno lo stesso numero e nomi di quelle del secondo gruppo. Vedi CICERONE,

La natura divina, intr., trad. e note di Cesare Marco Calcante, Milano, BUR, 1996.

Per approfondire la figura delle muse, vedi anche Ann L.T. Bergren, “Language and the female in early Greek thought”, in Arethusa, vol. 16 (1) Spring, 1983, pp. 69-96

46Per testo e traduzione vedi ESIODO, Teogonia, trad. e note di Graziano Arrighetti, Milano,

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definizione, ed entrambe sono capaci di ἴδμεν ψεύδεα πολλὰ λέγειν ἐτύμοισιν ὁμοῖα, ἴδμεν δ᾽, εὖτ᾽ ἐθέλωμεν, ἀληθέα γηρύσασθαι, «dire molte menzogne simili al vero, ma anche il vero cantare» (vv. 27-28). Da notare come in questi versi vi sia un’attinenza con il passo dell’Odissea, nella ripresa dell’allitterazione dei vv. 188-191 del libro XII, e come dal punto di vista della dichiarazione di intenti le muse si presentino come molto più sincere rispetto alle sirene; se nel libro XII dell’Odissea quest’ultime si presentavano come depositarie di tutto lo scibile umano, le muse non dicono mai questo, ma anzi ribadiscono come parte dell’ispirazione che forniscono al poeta possa riguardare fatti non veramente accaduti. Solo in seguito specificano che i loro poteri permettono loro e a chi da loro viene prescelto di cantare tutto ciò che è e che sarà, καί μ᾽ ἐκέλονθ᾽ ὑμνεῖν μακάρων γένος αἰὲν ἐόντων, (…) εἰρεῦσαι τά τ᾽ ἐόντα τά τ᾽ ἐσσόμενα πρό τ᾽ ἐόντα (vv. 32, 38); le muse quindi hanno conoscenza di ogni parte della storia umana e sanno anche cosa accadrà nel futuro, a differenze delle sirene, che non sanno nulla del futuro e finiscono per reiterare inutilmente il passato, in un eterno tentativo di legare per sempre il viandante in una condizione di distruzione.

Seguendo questo schema, è ovvio pensare alle sirene come a degli epigoni delle muse; come dice Pucci,47 muse che hanno perduto il loro valore di

ispiratrici del canto poetico per divenire soltanto veicoli di morte. Legate a doppio filo alle muse, le sirene sono più volte citate insieme ad esse nel corso della storia della mitologia; o come figlie di una delle muse stesse, Tersicore o Melpomene,48 oppure come dirette oppositrici: è il caso della tradizione che le

vede impegnate in una gara di canto con le stesse e quindi sconfitte,49 con

conseguente adornarsi delle muse con le penne delle sirene,50 αἱ Μοῦσαι δὲ

πτερῷ Σειρήνων ἐστεφανοῦντο. Il loro canto riecheggia nel contenuto di

47Vedi cap. II, n. 13 48Vedi cap. I, p. 33 49Paus. IX 34.3

50 Suda Μ 1293; allo stesso modo precedentemente si è parlato della gara di canto che vede

impegnate le muse con il poeta Tamiri, punito perché si riteneva a loro superiore, Il. II. Le muse si pongono, allo stesso modo di Apollo, come massimo esempio del canto poetico, e per questo motivo puniscono ogni peccato di superbia di chi voglia equiparare la propria performance alla loro.

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avvenimenti che vengono ispirati anche a Femio e Demodoco (la guerra e la presa di Troia), ma nei fatti è un canto che viene imposto ad una platea invece che chiesto dalla platea; se l’aedo ha alle spalle un’auctoritas con cui schermarsi, e cioè che non da lui proviene il canto ma che egli è soltanto un canale per il canto stesso, le sirene sono in prima persona reiteratrici degli argomenti ispirati dalle muse, senza però che tali argomenti siano di reale aiuto o sostegno per nessuno: il canto di Demodoco, di contro, ha il potere di innescare una reazione emotiva in Odisseo, di modo che l’eroe, tornando con la mente al passato, innesti la sua storia usando come prologo quella dell’aedo.

Le sirene quindi non fanno che pervertire la funzione delle muse; sono in tutto e per tutto delle muse rovesciate, che invece di innalzare l’uomo con il canto usano lo stesso per ucciderlo. Va tenuto in considerazione come branche della letteratura secondaria vedano questo paragone come una forzatura: a differenza di Pucci, Pollard crede che la loro natura sia troppo distante, la loro sfera di appartenenza (da un lato le figlie di Zeus e Mnemosine, dall’altro quelle di Forco e della Terra) troppo diversa, ed anche la forma (fanciulle le muse, esseri ibridi le sirene) renda troppo difficile istituire un paragone.51 E’ pur vero però che non

sono questi i punti fondamentali su cui basare il parallelismo, ma bisogna invece tenere conto della funzione dei due gruppi nell’economia del racconto: da un lato le muse sono ispiratrici di tutta la narrazione del poema e della poesia in

generale, mentre le sirene, pur caratterizzandosi come esseri distinti, finiscono per utilizzare un linguaggio simile per frenare la narrazione del poema stesso, per

51 J.R.T. Pollard, “Muses and sirens”, in Classical Review, Jan 1, Vol.2, 1952, pp. 60-63. Il

saggio di Pollard insiste su una serie di paralleli di carattere mitico, in cui le sirene non sono raffrontabili con le muse per caratteristiche generali: le muse sono associate ad Apollo e ad Orfeo, e dato che Orfeo nella saga degli argonauti sfida le sirene Omero avrebbe dovuto riportare l’episodio in modo tale da accentuare la rivalità; il numero diverso dei due gruppi non permette di confrontarle, dato che solo Platone nel III secolo porterà il numero delle sirene da due/tre ad otto, nella Repubblica; la fortuna del mito delle sirene si va consolidando poi soprattutto tramite la raffigurazione vascolare, con le sirene protagoniste di un suicidio, come nel caso dell’Alessandra di Licofrone, mentre tale tema non è presente nella storia delle muse. In termini generali, Pollard sposa l’idea per cui le sirene omeriche sono parte di un folklore greco che precede l’irruzione della figura della sirena orientale, da lui legata esclusivamente alla sfera della morte; dato che il parallelo da instaurare tra sirene omeriche e muse pertiene al differente motivo del canto come vita e del canto come morte, a quel punto la dicotomia non è più possibile e le sirene non possono più essere considerate delle muse rovesciate.

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impedire che la vicenda giunga a conclusione; in questo le sirene divengono delle muse che invece di cantare la vita cantano la morte.

Rimane aperta la questione relativa alla capacità di inganno nel canto: tale problema è generato dal fatto che, se è vero che le sirene stregano Odisseo promettendogli qualcosa di intrinsecamente falso, anche Femio e Demodoco sono segnati dalla medesima abilità (in Odissea I le conoscenze di argomenti da cantare del primo sono dette θελκτήρια, v. 337), mentre il secondo è protetto dalle muse, che, come citato nella Teogonia, sono capaci di dire il vero e il falso e pertanto di ispirarlo anche ai mortali); la risoluzione del problema va fatta risalire alla concezione per cui l’atto stesso del cantare, e di conseguenza raccontare il falso tramite un discorso ben formato (e che, come precedentemente accennato, presso i Feaci non può che trasmettere piacere) è ricollegabile all’idea del