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L’invocazione a Odisseo: le sirene come ostacolo del nostos

Capitolo II. Il canto, la tentazione e la morte dell’eroe

2. L’invocazione a Odisseo: le sirene come ostacolo del nostos

Il concetto generale emerso dal paragrafo 1 è che le sirene rappresentino un arresto al viaggio di ritorno dell’eroe: esse tentano di fermarne il percorso che da Troia troverebbe la sua naturale conclusione alla reggia di Itaca promettendogli un premio che in realtà, come anticipato da Circe, non esiste. Le sirene sono da considerare un ostacolo non soltanto perché impediscono la realizzazione nell’attimo presente dell’eroe, ma anche e soprattutto perché arrestano il suo compimento nel futuro come re, tentandolo con delle promesse che solo a livello superficiale permettono un arricchimento del personaggio, precipitandolo invece in una dimensione passata che il protagonista ha già superato con l’inizio del poema. Prendiamo in esame l’invocazione che le sirene rivolgono a Odisseo all’inizio del canto (Od. XII 184):

δεῦρ᾽ ἄγ᾽ ἰών, πολύαιν᾽ Ὀδυσεῦ, μέγα κῦδος Ἀχαιῶν (…)

Suvvia, vieni qui, tu molto lodato, famoso Ulisse, onore tu degli Achei (…)

L’invocazione segue lo schema abbastanza classico dell’invito a presentarsi, δεῦρ᾽ ἄγ᾽ ἰών, seguito dal nome dell’evocato e da un suo epiteto, in questo caso πολύαινος, traducibile con «celebre, famoso»;6 infine un ulteriore ampliamento

delle qualità per le quali Odisseo dovrebbe essere famoso, vale a dire μέγα κῦδος Ἀχαιῶν, «il grande vanto degli Achei». La formula che va a comporre il verso non è dissimile da un qualsiasi attributo con cui l’eroe viene menzionato nel

6 Nella forma più usata, πολυαίνετος, composto di πολύς, «molto», e αἰνέω, «celebrare». Pucci

propone come traduzione colui che usa le storie per la sua sopravvivenza, in linea con

l’interpretazione più generale di un Odisseo più capace di affrontare i pericoli con le parole che con la spada.

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corso del poema,7 non fosse che la variante riportata non compare mai

nell’Odissea, ma solamente nell’Iliade, nei libri IX, X e XI: nel primo caso viene chiamato con l’epiteto πολύαινος da Agamennone, una volta tornato

dall’ambasceria presso la tenda di Achille e dopo aver tentato di convincere l’eroe a tornare sul campo (v. 673); nel secondo è Nestore che usa tutta quanta la formula del verso 184, πολύαιν᾽ Ὀδυσεῦ, μέγα κῦδος Ἀχαιῶν, per salutare Odisseo che torna insieme a Diomede dopo la sortita notturna

nell’accampamento di Creso e il furto dei cavalli (v. 544); per ultimo ritorna l’epiteto πολύαινος, rivoltogli da Soco, figlio di Ippaso, guerriero troiano che si appresta ad affrontarlo dopo che Odisseo ha sostenuto da solo l’urto di molti avversari per coprire la ritirata degli achei (v. 430). L’epiteto è usato in tutte e tre le sue attestazioni per sottolineare la virtù del guerriero: nel primo caso per richiamare alla guerra il miglior combattente degli Achei, sottolineando la capacità oratoria che permette di convincere gli altri a muovere guerra, nel secondo si merita l’appellativo per le sue abilità militari, nel terzo riceve

complimenti da un diretto avversario; possiamo considerare la possibilità che «il molto onore» derivi ad Odisseo soprattutto da meriti che lo vedono direttamente impiegato sul campo di battaglia, una pratica che nella trama dell’Odissea il protagonista ha abbandonato da tempo.8 Aurelio Privitera, ne Il ritorno del

guerriero, puntualizza come l’intero agire di Odisseo nel corso dei poemi omerici

sia equiparabile a quello di un uomo che si comporta da soldato, e che invece la caratterizzazione del personaggio come abile nella menzogna, fraudolento e più incline allo scontro verbale che all’azione sia propria di riletture successive; in origine, in realtà, Odisseo è definito sia nell’Iliade che nell’Odissea dall’essere

7 Ricordiamo tra i più frequenti il già citato πολύτροπος, πολυμήτις, traducibile con «dai molti

inganni», πολυμήχανος, « ingegnoso», oppure πτολίπορθος, «colui che saccheggia le città», in relazione alla tradizione che lo vede come ideatore dell’inganno del cavallo; due epiteti più generici sono il patronimico Λαερτιάδης, «figlio di Laerte», oppure δῖος, «divino», quest’ultimo però proprio di molti eroi di Iliade e Odissea.

8 Solamente la prima tappa del viaggio, la sosta presso Ismaro, città dei Ciconi, comporta una

battaglia, seguita da una fuga precipitosa; le tappe successive invece sono sempre

contraddistinte dall’evitare un pericolo, oppure dal tentativo di affrontare un pericolo che si rivela poi insormontabile, vedi il caso in cui tenta di armarsi contro Scilla che gli ghermisce comunque sei compagni.

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un personaggio che cerca di risolvere gli ostacoli sulla sua strada con la forza delle armi, contrapposto alla figura di Achille soltanto perché quest’ultimo ricerca la gloria personale, mentre le parole e le azioni di Odisseo sono rivolte ad un vantaggio per tutto il suo gruppo di appartenenza. Così, secondo Privitera, la vera astuzia di Odisseo si palesa soltanto nella seconda parte del poema, quando tornato ad Itaca inventa storie prima con Eumeo, poi con Penelope ed i proci, e nel farlo viene comunque aiutato da Atena che ne cambia l’aspetto: nella prima parte invece l’astuzia è presente soprattutto nel racconto della prigionia presso il ciclope, mentre nelle altre situazioni il suo approccio al pericolo è simile a quello di un eroe iliadico: o il pericolo viene abbattuto con la forza delle armi, oppure è un dio che con il suo consiglio salva il protagonista della vicenda.9

Sempre Privitera nota come tutte le tappe che da Troia portano ad Itaca presentino uno schema fisso, in cui ogni ostacolo rappresenta una situazione di pericolo interna od esterna: le soste sono in tutto dieci, alternate tra ospitalità e morte, laddove però ognuna comporta comunque una situazione in cui l’eroe viene annullato nella sua evoluzione coerente con la fine del nostos, vale a dire il ritorno a casa.10 Così i viaggi dispari comportano la morte (Ciconi, ciclope,

Lestrigoni, nekya, Scilla e Cariddi), mentre quelli pari presuppongono una seduzione che comporta un arrestarsi del viaggio (Lotofagi, Eolo, Circe, sirene, vacche del Sole). Tenendo dunque presente quanto detto in precedenza, che le sirene utilizzano un epiteto che viene riferito ad Odisseo solamente nell’Iliade, che tutta l’Odissea può essere interpretata con il ritorno a casa di un guerriero che muta parzialmente il proprio agire a seconda della situazione (e solo nella seconda parte della storia diventa veramente un mentitore provetto), e che le

9 G.A.Privitera, Il ritorno del guerriero, Torino, Einaudi, 2005, pp. 28-32; Odisseo espugna

Ismaro, manda araldi a esplorare l’interno di territori sconosciuti, si presenta ad Eolo come un guerriero, minaccia Circe con la spada, e sempre la spada viene usata come strumento per fermare le anime dei morti, si mette in coperta per combattere contro Scilla; solo nell’ultima tappa, presso la Trinacria, Odisseo è impotente, dato che il pericolo si presenta come una forma di astinenza, e quindi l’unico modo per superarlo è non agire.

10 Le tappe del viaggio possono sempre essere riorganizzate secondo schemi diversi: uno di

questi, già anticipato nel primo capitolo, è quello che vede le sirene far parte di un blocco narrativo in cui il pericolo sono anticipati, e quindi l’eroe ha già a disposizione le contromisure per affrontarli; fanno parte di questo blocco la nekya, le sirene, Scilla e Cariddi e le vacche del Sole, vedi cap. I, p. 8; vedi anche Privitera, pp. 191-192

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sirene rappresentano delle tappe della storia in cui il pericolo arriva dalla

staticità, possiamo elaborare la teoria per cui le sirene propongono ad Odisseo di

restare ciò che è, di non evolvere mai oltre una condizione già in mutamento.

Questo presuppone che la loro tentazione si indirizzi solo ed esclusivamente al passato, al ritorno in una dimensione conosciuta e affascinante per l’eroe, in cui davanti a lui non ci sono più soltanto le privazioni e i pericoli del ritorno (di cui ormai è consapevole, essendogli stati rivelati da Tiresia nel canto XI). In questo dunque consiste il pericolo del canto delle sirene: nel provocare una stasi tanto nel corpo del viandante, che probabilmente si getta a mare per poi consumarsi completamente fino a morire, quanto nella sua mente, che viene avvinta dall’idea di un ritorno ad una condizione passata, opportunamente mascherata da offerta di onniscienza.

Quel che sappiamo dal testo, però, è che le sirene millantano la conoscenza di tutti «sappiamo quello che avviene sulla terra feconda», salvo poi dare prova di ciò elencando esclusivamente cose accadute nel passato, «sappiamo tutto quello che nella vasta Troade avete patito, Argivi e Troiani per volontà degli dei». La prova di Odisseo è duplice, quindi: resistere al canto delle sirene, ma anche resistere alla tentazione di essere qualcosa che è già stato, non riuscendo a completare la sua maturazione verso ciò che dovrà essere ad Itaca.11 Parte del

pericolo qui evidenziato, riguardante l’abbandono del viaggio per approdare ad una dimensione di puro piacere, il τερψάμενος del verso 188, può essere messa in parallelo con una delle prime tappe del nostos, la sosta presso i lotofagi; giunto in quella terra, Odisseo sbarca e manda nell’interno due dei compagni ed un araldo per incontrare le genti del luogo, ma una volta che per ospitalità quest’ultimi gli offrono il frutto del loto, sono presi a tal punto dal piacere che vogliono rimanere tra loro e devono essere condotti via legati. Anche in quel caso la consumazione del frutto del loto permetteva un oblio totale per il consumatore, che dimenticava patria e famiglia, per approdare ad una condizione di puro piacere in cui perdersi per sempre: i due passi, se pure simili, presentano anche differenze, a cominciare

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dal fatto che, come indicato dallo stesso Privitera, nel caso delle sirene la dimenticanza che prende il cuore del viandante è generata dal senso del gusto, mentre nel caso delle sirene è l’udito a condannarlo.12

A parlarci dell’epiteto con cui le sirene chiamano Odisseo è anche Pietro Pucci nel suo saggio The song of the sirens, in cui viene ribadito come tutto l’episodio sia profondamente legato da Omero con la storia precedente dell’Iliade tramite i termini e le formule usate nel testo. Così il già citato epiteto guarda al passato dell’eroe, così come altre formule del passo richiamano una stretta connessione con i trascorsi di Odisseo: il premio che le sirene dicono di voler conferire al viandante è la conoscenza, e πλείονα εἰδώς (v. 188), compare soltanto una volta nell’Odissea, mentre nell’Iliade è riferito alla superiorità conoscitiva di un dio rispetto ad un altro, prima di Zeus su Poseidone (che si aggira per il campo di battaglia incitando gli achei, mentre Zeus aveva scelto di favorire i troiani, XIII 355), quindi di Poseidone su Apollo, (durante lo scontro tra gli dei che anticipa il duello tra Achille e Ettore, XXI 440); la formula è solitamente accompagnata da un πρότερος γέγονα, che implica una superiorità derivata dal fatto di essere nato

prima dell’altro (sempre nell’Iliade è Odisseo a ribadire la sua superiorità su

Achille proprio per motivi di anzianità, benché ne riconosca la preminenza come guerriero). Allo stesso modo la formula che implica che le sirene conoscano ogni cosa che accade sulla terra, ἐπὶ χθονὶ πουλυβοτείρῃ, compare molte volte

nell’Iliade, mentre solamente due volte nell’Odissea, a dimostrazione di come il lessico delle sirene sia direttamente improntato alla riproposizione di un contesto ormai superato dall’eroe (l’espressione, nello specifico, ricorre in Iliade III, 89, 195, 265; VI 213; VIII 73, 277; XI 619; XII 158, 194; XIV 272; XVI 418; XXI 426; XXIII 368; nella maggior parte di questi casi la formula indica

l’abbattimento al suolo di un avversario in guerra, oppure una smontare a terra balzando giù da un carro, mentre nell’Odissea è utilizzata dalle sirene e ricorre

12 Privitera, pp. 39-40; da ricordare che il loto, nello specifico, non è una droga che provoca

direttamente un obnubilamento della memoria, ma anzi è talmente gustoso da provocare in coloro che ne mangiano un grande piacere nel restare in quel paese; quindi sanno perfettamente che esiste una meta, mentre invece preferiscono rimanere.

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nella descrizione della danza di Alio e Laodamente subito dopo la prima esibizione di Demodoco (VIII 378), quando i due giovani sollevano da terra la palla; la formula muta quindi il suo ambito di utilizzo da quello militare a quello della performance artistica); e l’uso dell’espressione ἀπὸ στομάτων (v. 187), risponde al medesimo indirizzo, essendo presente come hapax nell’Odissea per evidenziare un indicatore della voce, e ricorrendo invece per tre volte nell’Iliade (II 250, XIV 91). Le conclusioni di Pucci vertono sul fatto che le sirene siano in grado di cantare della guerra di Troia, sia per proprie capacità in termini di realismo interno alla storia, sia come rimando extraletterario al fatto che questi racconti si siano ben assestati nell’immaginario dell’audience dell’VIII secolo; che le sirene vogliano riportare l’eroe ad un sentimento di profonda nostalgia, che lo leghi fino al punto di fargli dimenticare il presente e precipitarlo in

un’apparente condizione da eroe iliadico; infine che le sirene sono diventate una sorta di epigone delle muse, producendo un canto che non provoca l’ispirazione poetica, ma porta alla morte.13

Proprio questo punto sarà approfondito nel corso del capitolo II, analizzando in parallelo la differenza tra l’esibizione canora delle sirene e il ruolo delle Muse nell’ispirazione artistica di poeti ed aedi. Per quanto riguarda il canto delle sirene, possiamo dire che esso comporta, almeno nell’Odissea, un ritorno ad una dimensione passata che annulla qualsiasi caratteristica fisica, mentale, ed

emotiva; promette un piacere fasullo, blandisce con false promesse di

conoscenza, distrugge fisicamente: possiamo asserire che il canto delle sirene è un nostos nella memoria, un viaggio temporale, laddove invece l’unico orizzonte possibile per il protagonista sia un ritorno geografico, il raggiungimento della patria.

13 P. Pucci, “The song of the sirens”, in Arethusa 12, 2, 1979, pp. 121-132; Pucci sottolinea

come la descrizione delle sirene sia molto simile a quella delle muse fornita da Omero ed Esiodo in Il. II 484, Od. VIII 63, XXIV 60, Th. 97 sg.; le sirene sembrano avere gli stessi poteri delle muse, e il canto di entrambe, almeno superficialmente, sembra provocare piacere; per Pucci le sirene in definitiva sono una storpiatura delle muse, che rivolgono la loro onniveggenza solo al passato senza avere alcuna capacità di vedere il futuro.

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