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IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE NELLA RIFORMA GIOVANNINI (o LETTA o DECRETO LAVORO)

TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO SUBORDINATO

2.2 IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE

2.2.4. IL CONTRATTO DI LAVORO INTERMITTENTE NELLA RIFORMA GIOVANNINI (o LETTA o DECRETO LAVORO)

Anche le modifiche apportate al contratto di lavoro intermittente dalla riforma “Giovannini” si pongono nel solco del maggior rigore nell’utilizzabilità di tale tipologia contrattuale, già segnato dalla precedente riforma Fornero.

Esse attengono alla proroga del termine ultimo di vigenza dei contratti di lavoro a chiamata stipulati prima dell’entrata in vigore della riforma Fornero e che per effetto di questa e delle modifiche ai requisiti di fattibilità da essa apportati non risultino più compatibili con la disciplina di legge; e all’introduzione di un ulteriore requisito di fattibilità di tale contratto.

1) Il primo intervento di modifica ha provveduto a prorogare al 31 /12/2013 il termine ultimo di vigenza (originariamente fissato dalla riforma Fornero al 18/07/2013) dei contratti di lavoro intermittente che, in seguito e per effetto all’entrata in vigore della l.92/2012 non fossero più compatibili con la disciplina vigente.

2) Il cosiddetto “Decreto Lavoro”, d.l. n. 76/2013 come convertito dalla legge n. 99/2013, ha portato un’importante modifica alla disciplina del contratto intermittente. Ha difatti introdotto un nuovo vincolo, il cui rispetto consente la stipulazione di un contratto a termine. Si tratta di un vincolo temporale, che individua il limite massimo nel numero delle giornate lavorabili in forza di un contratto a chiamata. L’art. 7, comma 2 lettera a) del decreto lavoro, ha introdotto un nuovo comma, il 2 bis, all’art. 34 del d. lgs. 276/2003: “in ogni caso, fermi restando i presupposti di instaurazione del rapporto e con l’eccezione dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore alle 400 giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento del predetto periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a tempo pieno e indeterminato”. Quindi, fermi i, sia pur alternativi tra loro, presupposti di fattibilità di carattere oggettivo (attività, periodi come individuati dalla contrattazione collettiva) e quello di carattere soggettivo (età), presupposti dei quali uno almeno deve necessariamente ricorrere perché possa essere stipulato un contratto di lavoro intermittente, il decreto lavoro aggiunge un ulteriore vincolo, e cioè il contingentamento nel numero massimo di

giornate in cui la prestazione può essere resa in forza di un contratto intermittente, e lo individua in 400 giornate nell’arco di un triennio solare, limite che però non vige per i settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, che sono poi i settori in cui maggiormente è utilizzato il contratto chiamata. La prassi amministrativa (circolare del Ministero del Lavoro n. 35/2013) ha specificato poi che “il conteggio delle” giornate in cui la prestazione viene resa andrà effettuato a ritroso di tre anni e dovrà tenere conto solo delle giornate di effettivo lavoro prestate successivamente al 28 giugno 2013, data di entrata in vigore della disposizione. Vanno sommate tutte le giornate in cui il lavoratore abbia effettivamente lavorato in forza di un contratto di lavoro intermittente, non conteggiando invece eventuali altre prestazioni di lavoro rese tra le stesse parti in forza, però, di contratti di lavoro non a chiamata (ad esempio, lavoro accessorio). L’utilizzo del contratto intermittente, già regimato dal necessario ricorrere di almeno uno dei presupposti di fattibilità, è stato ulteriormente calmierato. Non risulta dunque più possibile ricorrere a questo tipo di contratto, almeno tra parti uno stesso datore e lo stesso lavoratore, in modo massiccio e reiterato. Se l’esigenza di manodopera si presenta continua nel tempo, sarebbe corretto che venisse soddisfatta ricorrendo ad altri paradigmi contrattuali, e non con il contratto a chiamata, nato per consentire di far fronte ad esigenze di lavoro discontinue. Questo intervento di riforma persegue il fine di riconoscere la fattibilità, tra le stesse parti, di questo contratto per esigenze di lavoro che siano intermittenti e di riservarla ad esigenze siffatte. Infatti, se da un lato, il contratto di lavoro intermittente presenta notevolissimi vantaggi in capo al datore (in termini di reperimento della forza lavoro, di relativamente bassissimi costi, di totale affrancamento dalla disciplina dei licenziamenti, almeno per la tipologia senza obbligo di risposta), dall’altro lato sostanzia una condizione di sicuro svantaggio in capo al lavoratore che, pur nella costanza del rapporto di lavoro, non gode né matura alcun diritto, con l’eccezione della sola indennità di disponibilità nel caso il contratto sia stato stipulato prevedendo in capo al lavoratore l’obbligo di risposta alla chiamata. Proprio in considerazione di tale svantaggiosa condizione del lavoratore, che pur “assunto” potrebbe non essere chiamato mai e quindi mai potrebbe effettivamente eseguire alcuna prestazione e conseguentemente conseguire la relativa retribuzione, il legislatore ha calmierato, imponendo il rispetto dei suesposti requisiti e vincoli, la pratica fattibilità di

questo tipo di contratto di lavoro, che pure offre ai datori un importante strumento di flessibilità. Il datore infatti tramite esso può reperire la manodopera esattamente necessaria in un particolare periodo o in una particolare fase della produzione, reperendola in base alle contingenti esigenze dell’impresa, e senza vincolarsi con un lavoratore in schemi contrattuali più rigidi (ad esempio un contratto a termine) che imporrebbero oneri sproporzionati a fronte di un’esigenza di manodopera solo contingente e momentanea e finanche non sempre conosciuta in anticipo con certezza, riguardo al momento stesso in cui si verificherà. Il contratto di lavoro intermittente consente ad esempio ad un datore di impiegare manodopera nel rispetto della legislazione del lavoro e delle piene tutele della sicurezza sul lavoro, e quindi non “in nero”, accordando la possibilità di assumere, e quindi reperire manodopera, senza però essere soggetto ai costi che gravano su un’assunzione, in quanto questi si attiveranno se e quando il lavoratore sarà chiamato e, accettando la chiamata, eseguirà la prestazione, che andrà remunerata con la retribuzione. Parzialmente diverso il caso in cui il contratto sia stato stipulato con obbligo alla risposta, in cui pur di avere la certezza che quel lavoratore accetterà la chiamata, il datore è disposto a sostenere un costo, dato dall’indennità di disponibilità che dovrà mensilmente corrispondere al lavoratore quale remunerazione del suo essersi obbligato a rispondere. In entrambi i casi si tratta comunque di costi nemmeno paragonabili con quelli di un’ordinaria assunzione, che porterebbe con sé anche tutti i gravami in materia di risoluzione del contratto. Argomento che potrebbe essere quasi irrilevante nel contratto intermittente: se a termine, si risolve ex lege al conseguimento del termine; ma se anche fosse stato stipulato a tempo indeterminato il datore non avrebbe alcuna necessità di esercitare il recesso per raggiungere il risultato di non utilizzare un lavoratore. Sarebbe difatti sufficiente, a questo fine, che il datore si astenga dal “chiamare” quel lavoratore, non avendo nei sui confronti, come nei confronti di tutti i lavoratori “a chiamata”, alcun obbligo in tal senso. Emerge in tutta evidenza, quindi, anche l’incertezza in cui il lavoratore assunto a chiamata è lasciato circa l’effettiva possibilità di lavoro e quindi di guadagno, condizionata alla effettiva “chiamata”. E si consideri inoltre che, pur nella costanza del contratto di lavoro intermittente, durante i periodi di inattività nei quali il lavoratore è “a disposizione” del datore, egli non è titolare di alcun diritto riconosciuto

ai lavoratori subordinati, né matura alcun trattamento economico o normativo (salvo sempre il diritto all’indennità di disponibilità nei casi, peraltro rari, in cui sia stata convenuta). [e si accenna qui solo en passant al fatto che l’aver stipulato il contratto con o senza obbligo di riposta e quindi con o senza indennità di disponibilità si riverbera anche sulle prestazioni previdenziali ed assistenziali, originando il riconoscimento o meno di dette indennità in capo al lavoratore, a titolo di malattia , maternità assegno al nucleo familiare, ASpI e infortunio sul lavoro e malattia professionale).

In considerazione di come tali incertezze possano essere fonti di sperequazioni e di disordini sociali, il legislatore, rafforzando il regime dei vincoli, ha inteso bandire o almeno limitare il più possibile ogni utilizzo “non genuino” del contratto intermittente, nel tentativo di garantire una conciliazione delle esigenze produttive dell’impresa con le aspettative di lavoro, e quindi di guadagno e di vita, dei lavoratori.

3) Infine, si segnala qui quello che è rimasto solo un tentativo di modifica della disciplina previgente, in quanto in sede di conversione nella legge 99/2013, la disposizione che prevedeva tale modifica e che era contenuta nel decreto legge n. 76/2013 è stata soppressa. Con essa si prevedeva che anche qualora il datore non avesse adempiuto all’obbligo di effettuare la comunicazione preventiva dell’effettiva chiamata al lavoro e della sua durata, non sarebbe incorso nel regime sanzionatorio nel caso avesse comunque provveduto agli adempimenti previdenziali, considerando tale comportamento di fatto come esplicativo e provante la volontà del datore di non voler occultare la effettiva prestazione lavorativa. Come accennato, in sede di conversione tale previsione è stata soppressa. Pertanto, la mancata comunicazione preventiva della chiamata continua a comportare (come previsto dalla riforma Fornero) l’applicazione della sanzione amministrativa da euro 400 a euro 2400 per ciascun lavoratore, ed indipendentemente dal versamento della contribuzione).