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LA CLAUSOLA (CONTRATTUALE) DI STABILIZZAZIONE

TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO SUBORDINATO

2.3 IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO

2.3.1. IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO NELLA RIFORMA FORNERO

2.3.1.5. LA CLAUSOLA (CONTRATTUALE) DI STABILIZZAZIONE

In materia di stabilizzazione, la norma di legge non è l’unica fonte di disciplina. Difatti come, secondo l’art. 2 del T.U., la disciplina in generale dell’apprendistato è rimessa alla contrattazione collettiva (accordi interconfederali o contratto collettivi di lavoro stipulati a livello nazionale da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale), così lo stesso articolo alla lettera i) del comma 1, in particolare prevede che la contrattazione collettiva possa “individuare forme e modalità per la conferma in servizio al fine di ulteriori assunzioni”. Essendo previsto fin dal d. lgs 167/2011 che la contrattazione collettiva potesse prevedere e disciplinare un tale vincolo di stabilizzazione, come di fatto è accaduto nella pratica ancor prima dell’entrata in vigore della l. 92/2012, il vincolo “legale” di stabilizzazione introdotto con la legge di riforma non è quindi una novità in assoluto, essendo nuova solo la fonte che lo origina (una norma di legge ordinaria).

Come coesistono allora il vincolo di fonte legale ed il vincolo di fonte contrattuale? Con l’emanazione della circolare n. 18/2012, il Ministero del Lavoro ha chiarito quali siano i campi di applicazione di ciascuna delle due clausole: contrariamente a quanto avvenuto, in genere, con le disposizioni dei contrati collettivi che non hanno individuato soglie minime di applicazione della clausola di stabilizzazione, per espressa previsione di legge, la clausola “legale” di stabilizzazione vincola invece, come detto, i soli datori di lavoro di dimensioni maggiori (ovvero con almeno dieci dipendenti), e limitatamente a tale fattispecie essa troverà applicazione. Il discrimine nell’applicazione del vincolo legale o di quello contrattuale di stabilizzazione è dato dunque dalla dimensione aziendale: fino a nove dipendenti o oltre nove dipendenti. In quest’ultimo caso si dovrà applicare, in quanto fonte sopravvenuta, la clausola “legale” di stabilizzazione, pur in presenza di una diversa disciplina della stabilizzazione di origine contrattuale; invece, nel caso in cui l’organico si componga fino ad un massimo di nove dipendenti, la clausola di stabilizzazione avrà i contenuti individuati dalla contrattazione collettiva, in quanto troverà disponibile un campo residuale di applicazione lasciato sgombro dalla norma di legge che ha circoscritto la propria applicazione alle sole imprese di dimensioni maggiori. Così come si differenziano nei campi di applicazione, le previsioni di fonte legale o di fonte contrattuale in materia di clausola di stabilizzazione si differenziano anche negli aspetti sanzionatori connessi alla loro violazione, o meglio nei presupposti da cui consegue la violazione. Come sopra accennato, la legge di riforma ha introdotto un limite alle nuove assunzioni in apprendistato imponendo il rispetto di un vincolo, legale, di stabilizzazione che ha individuato nella conferma in servizio al termine del periodo di formazione del 30% degli apprendisti assunti nei 36 mesi precedenti l’assunzione che lo stesso datore intende fare (o il 50%, a regime, a partire dal 17 luglio 2015). Per espressa previsione di legge tale parametro si applica solo alle imprese di maggiori dimensioni. Ne consegue che le imprese di minori dimensioni resteranno assoggettate alla sola disciplina di fonte contrattuale. E tale suddivisione varrà anche per il vaglio del rispetto del requisito di clausola di stabilizzazione, con conseguente sanzionabilità delle une o delle altre al superamento del requisito legale o contrattuale di stabilizzazione, a seconda della maggiore o minore dimensione dell’impresa. Per completezza si segnala come le previsioni contrattuali possano essere

anche maggiormente restrittive rispetto a quanto stabilito dalla clausole legale di stabilizzazione.

A fronte della differenza nei presupposti sanzionatori, uguale rimane la sanzione sia nel caso di violazione della clausole di stabilizzazione di fonte legale, sia nel caso di violazione di quella contrattuale, e cioè la conversione del contratto di apprendistato stipulato iin violazione in contratto a tempo indeterminato, nell’accezione, come visto sopra, di “ordinario” contratto a tempo indeterminato.

Analoga sanzione si applica per la violazione del requisito dei limiti “legali” all’assunzione di apprendisti rispetto al personale qualificato già in forze, per il quale al fine di effettuare legittimamente un’assunzione in apprendistato va rispettato il rapporto 3 a 2. Come visto, anche il limite legale del rapporto di 3 a 2 trova applicazione solo limitatamente alle imprese di maggiori dimensioni (oltre i nove dipendenti); fino a tale soglia nulla cambia con la legge di riforma.

2.3.2. IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO NEL “DECRETO LAVORO” (d.l. 76/2013, convertito in l. 99 del 9 agosto 2013)

Dopo nemmeno un anno dalla riforma Fornero, un successivo intervento normativo interviene a parziale modifica della disciplina del contratto di apprendistato, con l’intento di risolvere le criticità che di fatto continuano a gravare tale tipologia contrattuale arrivando a comprometterne l’utilizzo nella pratica, e con esso la finalità della maggior occupazione, specie dei giovani. Difatti, nonostante il cospicuo corredo di incentivi economici e normativi di cui è dotato il contratto di apprendistato, a tutto vantaggio del datore che si vede riconoscere la possibilità di sopportare costi minori qualora scelga di assumere i propri dipendenti tramite questo tipo di contratto, la pratica ha conosciuto un’esperienza deludente dell’utilizzo del contratto di apprendistato, utilizzato ampiamente al di sotto delle aspettative legittimate dalle potenzialità ad esso conferite dal sistema d incentivi che gli è proprio. La ragione di tale mancato utilizzo è stata individuata nella “frammentarietà” di disciplina legislativa che connota il contratto di apprendistato, quando emanata, e cioè nella migliore delle ipotesi, dato che nella peggiore si sono avuti casi di totale inerzia in capo al soggetto legittimato a legiferare in materia, lasciando un vuoto normativo che ha reso di fatto impraticabile il contratto di

apprendistato. In base al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni ai sensi dell’art. 117 della Costituzione, la competenze in materia di formazione spetta alle Regioni. La finalità di tale previsione non è priva di un fondamento apprezzabile: e cioè fare in modo che la formazione possa essere plasmata sulla realtà imprenditoriale in cui dovrà essere applicata, in modo da renderla quanto più possibile rispondente alle esigenze proprie di un contesto produttivo determinato, nel convincimento che, così congegnata, la formazione offerta potrà effettivamente essere strumento efficace per l’occupabilità e sostanzialmente funzionale alle richiesta della produzione. Si tratta della traduzione in norma di una concezione che vuole avvicinare il legislatore alle richieste dell’impresa.

All’atto pratico, tuttavia, il pur sensato intento di dotare la disciplina dell’apprendistato di un apparato normativo che basasse le proprie disposizioni in materia di formazione sulle esigenze dei molteplici contesti produttivi, in modo da fornire offerte formative utili in quanto effettivamente rispondenti a quanto richiesto dall’impresa in un determinato distretto produttivo e concretamente spendibili, oltre che realizzare una disciplina frammentaria, potenzialmente producendo tante discipline diverse quanti i soggetti legittimati a produrle, si è infranto a causa della inerzia dei soggetti che avrebbe dovuto produrre la disciplina e, semplicemente, sono rimasti inadempienti a tale loro onere, rendendo di fatto impraticabile il contratto di apprendistato.

Già il Testo Unico dell’apprendistato (d. lgs. 167/2011) aveva tentato di trovare una soluzione a tale situazione di stallo, andando ad individuare, e facendolo concordemente con il consenso a ciò da parte del Governo delle Regioni e delle parti sociali, come fonte unica di disciplina della formazione (per il contratto di apprendistato professionalizzante) i contratti collettivi. Nonostante la notevole semplificazione, che ha il sicuro merito di superare le contrastanti pretese di competenze legislative ed il contenzioso costituzionale che ne è conseguito, come già precedentemente verificatosi, ancora una volta l’intento di fornire alla regolamentazione dei profili formativi del contratto di apprendistato una fonte certa ed al contempo quanto più possibile vicina alle esigenze della produzione in modo da conoscerle e soddisfarle, viene vanificato dall’inerzia del soggetto legittimato a disciplinare. Le parti sociali infatti avrebbero dovuto dare attuazione entro il 25 aprile 2012, in modo da rendere praticabile il

contratto di apprendistato professionalizzante (come anche le Regioni avrebbero dovuto fornire la disciplina per le altre due tipologie di contratto di apprendistato, quelle strutturate come forma di alternanza tra scuola /università e lavoro: l’apprendistato qualificante e quello di alta formazione e ricerca). A ridosso di tale data, tuttavia, ancora si replicava le scenario di inerzia nell’attuazione, solo in liminis parzialmente sanato dalla precipitosa approvazione da parte delle parti sociali degli accordi collettivi dei settori produttivi a maggior impatto numerico (industria, commercio, artigianato), permanendo, invece, la spudorata inerzia da parte delle Regioni in materia di regolamentazione dei profili formativi per le forma di apprendistato in alternanza scuola-lavoro.

Ben si comprende come un contesto siffatto non incoraggi l’utilizzo del contratto di apprendistato.

Il decreto “Lavoro” interviene nell’intento di rivitalizzare tale tipologia contrattuale e di porre soluzione all’empasse che ne consegue. Il contratto di apprendistato rimane, nelle dichiarazioni d’intenti, il canale privilegiato di ingresso dei giovani nel mondo del lavoro.

Va meglio specificato che, sulla base del disposto dell’art. 4 comma 2 del T.U., in materia di formazione specialistica nell’apprendistato professionalizzante, agli accordi interconfederali e ai contratti collettivi è rimesso il compito di definire la durata (minima di sei mesi, tranne che per i contratti di apprendistato stagionali, e massima di tre anni, in generale, o cinque anni, nel settore dell’artigianato) e le modalità di erogazione di quella formazione specifica per l’acquisizione di competenze dette “tecnico- professionali e specialistiche”. Il successivo comma 3 specifica che tale formazione è “integrata dall’offerta formativa pubblica, interna o esterna all’azienda”, finalizzata, invece, all’acquisizione di competenze “di base e trasversali” e disciplinata dalle Regioni.

Nella consapevolezza dell’intralcio risultante della frammentazione in tante discipline regionali quante sono le regioni, il decreto lavoro, che intende “restituire all’apprendistato il ruolo di modalità tipica di entrata dei giovani nel mercato del lavoro”, dispone che la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano adotti “linee guida” volte a disciplinare il

contratto di apprendistato, anche al fine di realizzare una disciplina dell’offerta formativa pubblica “maggiormente uniforme sull’intero territorio nazionale”. Nel fare ciò, il decreto lavoro si esprime in termini perentori, individuando, da un lato, un termine temporale (30 settembre 2013), e dall’altro individuando un contenuto di massima delle linee guida in tre disposizioni derogatorie del T.U., delle quali statuisce la vigenza in via suppletiva, in caso di inadempimento, da parte della Conferenza Stato- Regioni, dell’onere di redigerle, ed entro il termine predetto.

Il legislatore ha quindi inteso ovviare: alla frammentarietà della disciplina riguardante gli aspetti formativi, statuendo la necessaria individuazione di linee guida; e all’inerzia del soggetto legittimato e alle difficoltà applicative che ne conseguono.

Il provvedimento risponde all’intento di realizzare interventi per favorire l’occupazione, in particolare giovanile.

E fornisce tre interventi di semplificazione: 1) in materia di piano formativo individuale; 2) di quale disciplina regionale si debba applicare in caso di aziende c.d multi localizzate; 3) in materia di libretto formativo del cittadino.

1) La difficoltà nella redazione del piano formativo è costituita dall’incognita della formazione pubblica, che pure va ricompresa, secondo le disposizioni generali del TU nel contenuto di tale piano.

La semplificazione apportata dal decreto Lavoro limita l’obbligatorietà della redazione del piano formativo esclusivamente alle competenze specialistiche, facendo risultare non più obbligatoria la registrazione delle competenze trasversali e con ciò ovviando alla eventuale inerzia del soggetto pubblico che avrebbe dovuto predisporla.

Specifica inoltre che il datore di lavoro non può essere ritenuto responsabile della mancata formazione, nel caso in cui non sia stato possibile avviarvi l’apprendista a causa delle inadempienze o dei ritardi in capo alla Pubblica Amministrazione, inadempienza ch precedentemente vincolava il datore ad erogare anche la formazione trasversale (cui avrebbero dovuti provvedere gli enti pubblici) qualora il contratto collettivo di riferimento avesse stabilito in tal senso, per cui il datore si ritrovava anche tale gravame a causa dell’inadempienza delle Regioni.

2) il secondo intervento riguarda le imprese cosiddette “multi-localizzate”: il decreto Lavoro prevede che quando un’impresa sia stabilita in più Regioni, possa applicare

unitariamente in tutti i siti produttivi, pur dislocati in Regioni diverse, la normativa regionale (in materia di offerta formativa pubblica) emanata dalla Regione in cui l’impresa ha la propria sede legale, quindi prescindendo dai luoghi di stabilimento di ciascuna sede o unità produttiva. Si tratta di un intervento sensato: consegue il fine di evitare che uno stesso datore debba impiegarsi nella conoscenza delle normative di ciascuna regione e, con intento di semplificare le modalità di adempimento dell’obbligo formativo, gli consente di applicare, in ciascuna sede, pur in regioni diverse, la regolamentazione dei contenuti e della durata della formazione vigente in quella regione in cui l’impresa ha la propria sede operativa. In adempimento degli obblighi stabiliti dalla regione in cui l’impresa ha la sede, l’apprendista potrà poi essere inviato ai corsi dell’offerta formativa pubblica nella regione ove svolge la propria attività lavorativa (e non nella regione in cui ha sede l’impresa).

3) Il terzo intervento attiene alla registrazione della formazione professionale effettuata dall’apprendista: sempre con intenti di semplificazione e per conseguire una qualche uniformità in materia su tutto il territorio nazionale, superando la frammentazione derivante dalle contemporanea presenza delle normative regionali, il legislatore ribadisce che la formazione svolta in apprendistato vada registrata, a partire dal 1 ottobre 2013, in un documento avente i “contenuti minimi” già stabiliti per il Libretto Formativo del Cittadino ad opera del D.M. 10 ottobre 2005, salvo, in ogni caso, l’utilizzo della modulistica eventualmente predisposta dal contratto collettivo adottato. Una seconda linea di intervento su cui ha innovato il decreto Lavoro, attiene alla nuova possibilità di convertire l’apprendistato per la qualifica e per il diploma professionale, nel momento in cui verrà a termine, in apprendistato professionalizzante, in modo che, una volta conseguita la qualifica o il diploma professionale, l’apprendista possa continuare a lavorare come tale al fine di conseguire la qualifica professionale anche ai fini contrattuali. L’art. 9 comma 3 del decreto Lavoro, introduce un nuovo comma, il 2 bis, all’art. 3 del d. lgs. 167/2011. Le uniche condizioni di fattibilità di tale conversione, da effettuarsi antecedentemente alla scadenza del primo contratto, attengono alla durata massima del cumulo delle due tipologie di apprendistato che non può eccedere quella massima individuata dalla contrattazione collettiva. Ne consegue che la previsione contrattuale collettiva è condizione di fattibilità di tale conversione, che risulta

improcedibile e quindi inattuabile qualora il contratto collettivo applicato non abbia disposto alcuna clausola in materia di durata massima nella successione delle due tipologie di apprendistato, diversamente finalizzati. Detta trasformazione non richiede la stipula di un nuovo contratto, sostanziandosi nella proroga del periodo formativo del contratto di apprendistato già in essere; necessita tuttavia, essendo mutata la finalità formativa, della redazione di un nuovo piano formativo, coerente con i nuovi scopi di formazione professionalizzante.

2.3.3. IL CONTRATTO DI APPRENDISTATO NEL JOBS ACT prima fase (d.l. 34/2014, convertito, con modificazioni, nella l. 16 maggio 2014 n. 78)

Il decreto legislativo n. 34 del 20 marzo 2014, interviene in materia di contratto di apprendistato apportando alcune novità110.