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ESCLUSIONE DAI LIMITI QUANTITAT

TIPOLOGIE CONTRATTUALI DI LAVORO SUBORDINATO

2.1. IL CONTRATTO DI LAVORO A TEMPO DETERMINATO

2.1.7. CONFRONTO TRA RIFORME FORNERO E GIOVANNIN

2.1.8.3. ESCLUSIONE DAI LIMITI QUANTITAT

Quanto detto in merito al limite di contingentamento (di origine sia legale che contrattuale), per espressa previsione ex art. 10 c. 7 d. lgs. 368/2011, non si applica ai contratti di lavoro a tempo determinato conclusi: a) nella fase di avvio di nuove attività, per i periodi che saranno definiti dai contratti collettivi nazionali di lavoro anche in misura non uniforme con riferimento ad aree geografiche e/o comparti merceologici; b) per ragioni sostitutivo o di stagionalità; c) per specifici spettacoli ovvero specifici programmi radiofonici o televisivi; d) con lavoratori di età superiore a 55 anni. Contratti

91 La l. 78/2014, all’art. 1 comma 2 bis, ha precisato che la sanzione amministrativa “non si applica per i rapporti di lavoro instaurati precedentemente alla data di entrata in vigore del presente decreto” (21 marzo 2014), “che comportino il superamento del limite percentuale”.

a termine così caratterizzati sono in ogni caso esenti da limitazioni quantitative, come anche lo sono quelli stipulati tra istituti pubblici di ricerca o enti privati di ricerca e lavoratori chiamati a svolgere in via esclusiva attività di ricerca scientifica o tecnologica, di assistenza tecnica alla stessa o di coordinamento e direzione della stessa. Tanto dispone il comma 5 bis introdotto all’art. 10 del d. lgs. 368/2001 dalla legge 78/2014 (art. 4 b-octies) in sede di conversione, modificando l’originario testo del decreto Poletti. Tale previsione derogatoria della disciplina ordinaria palesa il trattamento di favore che il legislatore ha voluto riservare al settore della ricerca scientifica, preferendo evitare di comprometterne lo sviluppo, cosa che sarebbe stata probabile se fosse stato compresso nel rispetto del vincolo massimo di contingentamento, anche in considerazione del modus operandi di tale settore, che spesso si muove in seguito all’ottenimento di finanziamenti, anch’essi a termine: alla luce di ciò si rivela poco funzionale ed ancor meno sostenibile approntare un organico in pianta stabile a fronte di commesse a termine. Unico requisito per fruire della esenzione dal rispetto dei limiti quantitativi è che l’attività di ricerca scientifica per lo svolgimento della quale i lavoratori vengono assunti a termine (prescindendo da ogni limite quantitativo), deve essere l’oggetto esclusivo del contratto di lavoro (deve essere svolta in via esclusiva).

Il secondo periodo dello stesso articolo estende ulteriormente il trattamento di favore, disponendo una seconda deroga, questa volta alla durata massima del contratto a termine (che, ordinariamente, è di 36 mesi, sia come unico contratto, sia come sommatoria di più contratti a termine in successione tra loro). In forza di tale disposizione, quei contratti di ricerca che hanno ad oggetto in via esclusiva lo svolgimento di attività di ricerca scientifica possono avere una durata “pari a quella della progetto di ricerca cui si riferiscono”. A differenza delle disposizione di cui al periodo precedente, in questo caso l’esenzione dal vincolo non è legata alla natura di “istituto o ente di ricerca” pubblico o privato del soggetto che voglia assumere a termine in deroga al limite massimo di contingentamento, ma da essa prescinde, bastando che ad essere oggetto del contratto sia esclusivamente la ricerca scientifica. Un ampliamento di tale portata per quanto riguarda i soggetti che possono assumere a tempo determinato fruendo della disciplina derogatoria, si accompagna al contenimento dell’attività oggetto del contratto entro

rigidi confini della ricerca scientifica propriamente detta, in cui non rientrano le attività di supporto, né le attività di assistenza tecnica, né quelle di coordinamento e direzione che pure nel primo periodo dello stesso articolo vengono ricomprese tra quelle per le quali è consentito derogare al limite del contingentamento. La relazione introduttiva al disegno di legge di conversione del decreto “Poletti” ha esplicitato la ratio a fondamento di tali scelte: prendendo atto che nel settore della ricerca l’assunzione a termine, e per una durata pari al progetto di ricerca, è una prassi consolidata e praticata specie in ambito internazionale, si è ritenuto opportuno uniformare ad essa anche la disciplina italiana, anche in considerazione del fatto che una diversa, più limitativa, previsione di legge avrebbe prodotto il negativo effetto di precludere alle imprese soggette alla legislazione italiana la possibilità di partecipare a quei bandi di finanziamento (come ad esempio quelli dell’Unione Europea) che già prevedono un durata superiore a quella dei 36 mesi.

Assodato che il settore della ricerca scientifica è stato dotato di una disciplina di favore, derogatoria sia in materia di contingentamento sia di durata massima triennale), rimane il dubbio se tali contratti possano essere prorogati o rinnovati, nel caso in cui venga rinnovato o prorogato il progetto di ricerca in funzione del quale sono stati originati. La risposta positiva si fonda su criteri di logica, mancando una qualche previsione normativa al riguardo.

2.1.8.4. LE DISCIPLINE DEI LIMITI DI DURATA, DEI RINNOVI, DELLE

PROROGHE

Innovando, il primo atto del Jobs Act, introduce il limite di durata massima del contratto a tempo determinato, inteso quale singolo unico contratto, e non come durata complessiva di più contratti a termine in successione tra loro. La durata massima ordinariamente prevista per un contratto a tempo determinato, con uno stesso lavoratore e per le stesse mansioni, è di 36 mesi, comprensiva di eventuali proroghe (in numero massimo di cinque), e salva la possibilità di stipulare un ulteriore contratto a termine previa convalida presso la DTL (la cui durata massima viene definita dagli accordi interconfederali). Tale durata massima può essere modificata dai contratti collettivi.

In seguito all’abolizione di ogni riferimento alle ragioni giustificatrici, il termine e la sua indicazione hanno assunto maggiore rilevanza, in quanto sono i parametri che, unitamente al limite dato dal contingentamento, consentono di vagliare la legittimità della stipulazione di un contratto a tempo determinato. A questo fine rimane essenziale la previsione normativa che dispone che l’apposizione del termine deve risultare da atto scritto, prevedendo, in caso di inadempimento, che in mancanza di forma scritta si produca la nullità della clausola del termine, conseguentemente alla quale il contratto si considera stipulato a tempo indeterminato. Rimane possibile definire il termine in modo indiretto, facendolo derivare dal verificarsi di uno specifico evento: in questo caso, tuttavia, è opportuno porre particolare attenzione poiché se l’evento dovesse verificarsi oltre i 36 mesi dalla stipula del contratto, darebbe anch’esso luogo alla nullità della clausola del termine ed alla conseguenza della conversione del contratto in contratto a tempo indeterminato.

Non è stata invece oggetto di modifica la disciplina dei rinnovi. Per quanto attiene a questa materia, nulla cambia rispetto al passato: permangono i periodi c.d. di “stop and go”, e con essi la previsione per cui alla cessazione di un contratto a termine, un successivo potrà essere stipulato tra le stesse parti e per le stesse mansioni solo dopo che siano trascorsi intervalli di tempo pari a 10 giorni o a 20 giorni, a seconda che il contratto precedente terminato avesse una durata inferiore o superiore a sei mesi (fatte salve le diverse previsioni dei contratti collettivi,anche aziendali), e fino al raggiungimento del limite di durata massima di 36 mesi, al cui raggiungimento però non contribuiscono i periodi non lavorati. Nel computo dei 36 mesi si tiene conto dei contratti a termine che abbiano avuto ad oggetto mansioni equivalenti e vi si ricomprendono anche i periodi di missione per mansioni equivalenti svolte tra il datore di lavoro/utilizzatore ed il medesimo prestatore. La circolare della Fondazione Studi dei Consulenti del lavoro n. 13/14 sottolinea che “la novità che si registra nel testo del d.l. 34/2014, introdotto in sede di conversione è rappresentato dalla circostanza per cui nel computo dei 36 mesi debba essere considerato un precedente periodo di missione rileva soltanto nel caso in cui si stia procedendo ad avviare un nuovo contratto a termine e non viceversa […]. Al contrario in sede di avvio di una somministrazione di lavoro non deve essere verificato se in precedenza sono stati avviati rapporti di lavoro a termine che

concorrono al raggiungimento del tetto dei 36 mesi. In tal senso ricordiamo anche la posizione espressa dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in risposta all’interpello n. 32/2012: si ritiene dunque che un datore di lavoro, una volta esaurito il periodo massimo di 36 mesi , possa impiegare il medesimo lavoratore ricorrendo alla somministrazione di lavoro a tempo determinato”. Quanto detto, modifica quanto prevedeva in materia la l. 92/2012 che ricomprendeva nel computo dei 36 mesi anche le missioni svolte in esecuzione di un contratto di somministrazione a termine.

Fermo il limite di durata massima, non è invece posto alcun limite al numero dei rinnovi (da effettuarsi sempre nel rispetto degli intervalli temporali).

Parimenti permane invariata la disciplina della c.d. proroga di fatto, ovvero l’esecuzione di fatto del contratto tra le parti pur dopo la sua scadenza e per periodi brevi (30 giorni o 50 giorni, a seconda che il contratto scaduto avesse una durata inferiore o superiore a 6 mesi): nell’arco di tale limitato periodo, l’ordinamento tollera che il contratto a termine, pur scaduto, venga proseguito di fatto ed esclude che una prosecuzione siffatta possa costituire un illecito, prevedendo invece che venga corrisposta al lavoratore una maggiorazione retributiva.

Nel caso in cui venga violato il limite di durata massima di un contratto a tempo determinato (36 mesi di lavoro effettivo, compresi le proroghe ed i rinnovi), la sanzione applicabile continua ad essere quella della conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, con anche il risarcimento del danno in misura forfetaria).

Oggetto di attenzione e di accesso dibattito è stata invece la disciplina delle proroghe. In considerazione del carattere ormai genericamente “acausale” del contratto a tempo determinato, in base al quale esso può essere stipulato sempre, non richiedendosi più per la legittimità dell’apposizione della clausola del termine il ricorrere di una qualche causa di giustificazione, coerentemente si sono rese “acausali” anche la proroghe: con l’abrogazione del comma 2 dell’art. 4 del d. lgs. 368/2001, viene meno l’obbligo precedentemente previsto a carico del datore di lavoro di dimostrare le ragioni giustificative della proroga. Anche nel caso delle proroghe, il requisito di legittimità è fatto derivare dal rispetto dei criteri numerico-quantitativi, abbandonando ogni riferimento a ragioni giustificatrici. Una proroga è ora legittima se si riferisce alla stessa

attività lavorativa per la quale il contratto era stato stipulato e se da essa non deriva alcuno sforamento: né dei limiti di contingentamento del numero massimo di contratti a termine contemporaneamente in essere, né dei limiti di durata massima triennale del singolo contratto su cui la proroga insiste.

Il testo originario del decreto Poletti prevedeva la possibilità che un contratto potesse essere prorogato fino ad un massimo di otto volte: in sede di conversione, la disposizione si è assestata nel prevedere un numero massimo di cinque proroghe. Anche nella minor misura di 5 proroghe, si tratta comunque di una innovazione di rilievo, considerato che la disciplina precedente consentiva una sola proroga del contratto (e a condizione che fosse giustificata da “ragioni oggettive”, che andavano indicate per iscritto). Il termine del contratto a tempo determinato può essere, con il consenso del lavoratore, prorogato solo quando la durata iniziale del contratto sia inferiore a tre anni. In seguito alla novella legislativa ad opera della l. 78/2014, l’art. 4 del d. lgs. 368/2001prevede che “le proroghe sono ammesse, nell’arco dei complessivi 36 mesi, indipendentemente dal numero dei rinnovi, a condizione che si riferiscano alla stessa attività lavorativa per la quale il contratto è stato stipulato a tempo determinato”. Il riferimento dell’ultimo inciso dello stesso articolo “con esclusivo riferimento a tale ipotesi la durata complessiva del rapporto a termine non potrà essere superiore a tre anni” viene meno per abrogazione tacita, non avendo più ragion d’essere in quanto il limite massimo di tre anni è ormai previsto in via generalizzata e non soltanto in riferimento ai contratti a termine prorogati.