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Per un utilizzo umano della parola divina: verità come fedeltà

7.3 “Prolegomeni ad una filosofia della religione”, religione come presenza

Capitolo 8: Comprensione: percorso di avvicinamento al linguaggio divino

8.2 Per un utilizzo umano della parola divina: verità come fedeltà

“A voi e a noi, a ciascuno, conviene la propria fede nella verità, ossia: tenere fermo in modo inviolabile il proprio rapporto reale con la verità; e a voi e a noi, a ciascuno, conviene il profondo rispetto credente dinanzi alla fede nella verità dell'altro. Ciò non è quello che si chiama tolleranza: non vi è in esso il sopportare l'errore dell'altro, ma il riconoscere il reale rapporto di verità. Non appena noi (cristiani ed ebrei) abbiamo a che fare realmente con Dio stesso e non semplicemente con le nostre immagini di Dio, noi, (ebrei e cristiani), siamo legati nel presentire che la casa del nostro Padre è fatta diversamente da come intendono i nostri schemi umani”230

Nella realtà che abbiamo delineato si deve ora cercare di individuare cosa s'intenda, in riferimento ad essa, per “verità”, bisogna ora definire la verità quale portato di questa realtà qualificata come relazionale per essenza.

La verità è quel qualcosa che sta a fondamento, è la struttura di un certo essere, dunque se riconosciamo che la qualità della realtà in cui viviamo è quella della relazione, dobbiamo di conseguenza collegare la verità con la relazione (intesa come essenza della realtà). Se verità e relazione vengono a coincidere, ma non nel senso che la verità si dà in modo relazionale (secondo il principio di corrispondenza) bensì che la verità è la relazione stessa, essa viene a coincidere con il farsi della relazione: ci poniamo di fronte ad un tipo di verità che non si trova, bensì si fa, si attua.

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“(Buber si sta riferendo alla celebrazione della festa di Pessach in cui si celebra la liberazione dall'Egitto) Siamo noi gli schiavi di Faraone, e ora veniamo portati fuori dal Paese della servitù. Siamo noi che fra i fulmini e sulla terra che trema riceviamo la dottrina di Dio. Ciò che è accaduto un tempo, accade ora e sempre. (…) I prodigi che in quei giorni Dio operò sui nostri padri non sono diversi da quelli che opera su di noi. (…) E al meraviglioso detto antico ebraico: Dio rinnova eternamente l'opera della creazione, non possiamo accompagnare l'altro: Dio rinnova eternamente l'opera della liberazione?” In M. Buber, Rinascimento ebraico, op. cit. , p. 102

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La verità per Buber non è l'adeguazione di un qualcosa di reale ad un concetto, bensì parola che evoca realtà, che pronunciandosi crea realtà in quanto essa stessa è relazione231. L'affermarsi della verità per Buber non è da intendersi come svelamento (aletheia greca) bensì come accadere, non come scoprimento di un senso, ma come donazione e produzione di senso232. La verità è da intendersi nel senso di fedeltà alla struttura relazionale dell'Essere, verità è partecipazione alla creazione divina: “Il nesso che lega l'uomo e il mondo poggia sulla parola la quale non è vuota verbalità, mero flatus vocis, ma realtà che fonda e sostiene l'Essere”233.

La verità non ha un contenuto, ma essa stessa è il connettivo che rende possibile, reale, il fondamento stesso dell'Essere che è la relazione. In questo senso la verità è intesa come fedeltà: solo se ogni uomo crede in modo assoluto all'altro, si affida in modo assoluto all'altro, è possibile che il fondamento della realtà in cui esistiamo, ossia l'essere-in-legame, si inveri. La verità è in questo senso l'aderenza al fondamento dell'Essere su cui siamo fondati, si vive in verità quando si rispetta tale fondamento. Perciò la verità per il filosofo, non ha a che fare meramente con il semplice ambito gnoseologico- riflessivo bensì occupa uno spazio ontico: essa è luogo del dialogo possibile e quindi condizione di inveramento della relazione fra uomo e uomo234.

Come Buber afferma in Io e Tu, l'uomo si rivolge al mondo in un duplice volto (tu ed esso), ma la cosa fondamentale è che il nostro rivolgersi -afferma Buber- non avviene solo nei confronti dell'uomo ma anche in quelli degli enti naturali. Da qui apprendiamo che ogni ente - anche naturale -, in quanto possibilitato ad entrare in relazione con l'uomo è presenza che si rivolge235. Possiamo quindi considerare l'essere rivolto come modo d'esistere di ogni creatura e cosa. Ciò che però caratterizza l'essere rivolto dell'essere umano, è il fatto che quest'atto esistenziale, nel caso dell'uomo implica la rivendicazione di una

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“La fuga dal Kosmos comune in una sfera separata che viene intesa come il vero essere è, in tutti i suoi stadi, dalla semplice sentenza degli antichissimi insegnamenti dell'Oriente all'arbitrarietà delle intossicazioni moderne, in definitiva, una fuga dalla rivendicazione esistenziale sulla persona, che deve dare testimonianza di sé stessa nel Noi. È una fuga dall'autentico essere parlato del linguaggio, nel cui regno è richiesta una risposta, e dare una risposta significa responsabilità. L'uomo che fugge, si comporta come se il linguaggio non fosse nient'altro che l'erramento che conduce alla menzogna e alla convenzionalità, ed infatti, esso può trasformarsi in maniera mostruosa in tale erramento; ma il linguaggio è anche il nostro grande sentiero verso la verità” In M. Buber, L'insegnamento del Tao. Scritti tra Oriente e Occidente, Genova, Il melangolo, 2013, p. 98

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“La verità della quale si tratta in tal modo non è la sublime “disvelatezza” che è propria dell'essere, la aletheia dei greci, essa è la pura e semplice concezione della verità della Bibbia ebraica, il cui etimo significa fedeltà, la fedeltà dell'uomo o la “fedeltà” di Dio. La verità della parola, che viene detta in modo veridico è allora, nella sua forma più elevata, nella poesia e, incomparabilmente di più, nella lingua del messaggio, unità inscindibile che scende dalla quiete su un mondo che va in rovina. (…) La verità umana, la verità concessa all'uomo non è pneuma, che dall'alto si riversi sulla schiera umana fattasi sovrapersonale: essa si approssima a qualcuno proprio nel suo carattere personale. Questa persona concreta risponde, nello spazio vitale che le è assegnato, per la parola che viene detta lei” In M. Buber, La parola che viene detta, op. cit., pp. 37-9

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Ibid, p. 71

234 “La “parola”, per Buber, è una realtà ontologica, identica, nella sua autenticità, alla relazione, di cui il linguaggio è solo

un'espressione fenomenica, certamente importante, ma di per sé non essenziale” In M. Buber, Il principio dialogico ed altri saggi, op. cit., (nota 5) p. 62

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“Il dialogo implica il divenire consapevole, diventare consapevole che noi siamo collegati e che tale collegamento implica una risposta. Non è necessariamente una persona colui di cui divengo consapevole; può essere un animale, una pianta, una roccia. Niente è escluso dalle cose attraverso cui di tempo in tempo qualcosa mi viene detto. “Niente e nessuno può rifiutarsi di essere il recipiente per il mondo. I limiti della possibilità del dialogo sono i limiti della consapevolezza. ” I segno di questo essere richiamato non sono qualcosa di straordinario, ma le semplici cose che accadono ancora ed ancora; niente di più è aggiunto alla chiamata stessa; essa coincide con gli eventi della nostra vita quotidiana, i grandi e i piccoli.” In Donald L. Moore, Martin Buber: Prophet of religious secularism, New York, Fordham University Press, 1996, p. 104

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risposta da parte degli altri uomini nel loro rivolgersi, questo fa sì che se ognuno di noi esige una risposta, tutti noi siamo anche consapevoli di essere noi stessi nel dovere di renderla236. Quindi il nostro essere rivolti non è semplice apertura, ma anche ascolto responsabile dell'altro che mi si rivolge237.

La mia esistenza, allo stesso modo di quella di un ente naturale, si manifesta col fatto della mia presenza, che si afferma rivolgendosi ad uno spazio e a tutte le creature che sono in quello spazio. Ciò che differenzia il mio essere rivolto da quello della creatura di natura è però il fatto che il mio essere rivolto, la mia presenza genera richieste (richieste effettive: che sono la responsabilità e la risposta) nei miei confronti, da parte delle persone presenti238, ciò è quanto caratterizza l'umano.

A questo punto, se intendiamo l'essere rivolti e l'evento del rispondere che esso implica, in questi termini effettivi (ontici), allora noi intendiamo il dialogo non semplicemente come una facoltà umana ma, al contrario, si assume l'essere rivolti -e l'evento del rispondere inteso come essere nella verità- come condizione esistenziale dell'essere umano239 (che si differenzia dagli altri enti per il fatto che la sua presenza rivendica risposte). Di conseguenza, viene meno anche il concetto di linguaggio inteso come corrispondenza: ossia nel mio dialogare non sto semplicemente esprimendomi in merito ad un certo qualcosa ma sto, in modo fondamentale, affermando la mia esistenza240. Di conseguenza la verità che io esprimo nel mio comunicare sarà una verità da ricondurre al piano ontico: non è un semplice rifermento, collegamento fra parola e oggetto referente, bensì, la verità è quel prodotto che viene all'essere nel momento in cui il mio essere rivolto rivendica dall'altro una risposta241. La verità è il potenziale

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“Nella misura in cui l'altro mi si rivela, io prendo coscienza di me stesso, ma non soltanto come oggetto dell'esperienza altrui, bensì come colui che è interpellato, da cui si attende una risposta e un impegno personale”. In Virgilio Fagone, art. cit., p. 42

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“La libertà dell'uomo (…) è come stimolata e sferzata dall'interiezione “Shema'”, Ascolta. Ascolta Israele. E se Israele non ascoltasse? -(…)- “E se l'uomo si tappasse le orecchie? E se l'anima umana si murasse nel suo monologo interiore e rifiutasse proprio l'approccio all'udibile?”. Lo spessore problematico di queste domande e del loro contenuto, oltre a confermare lo Shema' Jisra'el come l'atto teologicamente più importante della preghiera ebraica, rivela il carattere esistenziale dello Shema', ne fa la condizione imprescindibile del parlare, del dialogare, dell'intervenire e del trattare e lo pone come la molla essenziale dell'impegno nel mondo e per il mondo.” In Nunzio Galantino, art. cit., p 287

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“L'uomo a differenza dell'animale “che è ciò che è in modo aproblematico, ha bisogno del sì, della conferma del senso, del proprio senso, che può venirgli solo da una persona umana che a una persona umana si rivolga”. In fondo e per l'essenziale, il dialogo autentico imita il sì che il Creatore pronuncia di fronte alla propria creatura, ponendola e sostenendola nell'essere: nella parola dialogica risuona un'eco della Parola creatrice divina che sottrae le cose al nulla chiamandole per nome. Solo sulla base della vicendevole conferma di senso è possibile fondare una autentica dimensione comunitaria” In M. Buber, La parola che viene detta, op. cit., pp. 82-3

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“Il linguaggio è riconosciuto dall'ebraismo come un accadimento che si protende oltre l'esserci dell'uomo e del mondo. Di contro alla statica idea del Logos, appare qui la parola nella sua piena dinamica, come ciò che accade. L'atto creatore di Dio è linguaggio; ma lo è anche ogni attimo vissuto. Il mondo viene assegnato all'uomo che lo percepisce, e la vita dell'uomo stesso è dialogo. Ciò che gli accade sono i grandi e i piccoli segni, intraducibili ma inconfondibili, di un discorso; ciò che egli fa o tralascia, può essere rispondere i negare la risposta. E così tutta la storia del mondo, la segreta, effettiva storia universale, è un dialogo tra Dio e la sua creatura; un dialogo in cui l'uomo è reale, legittimo partner, che è reso capace e autorizzato a parlare da sé la sua propria, autonoma parola.” In M. Buber, La passione credente dell'ebreo, op. cit., pp. 54-5

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“Con il rivolgere la parola all'uomo, Dio -come ci ha insegnato soprattutto La stella della redenzione di Franz Rosenzweig- lo ha posto nel linguaggio. Non si può pensare a uno stadio precomunitario del linguaggio. L'uomo non è sorto dal coessente, prima di venire di fronte ad esso, di vivere dinanzi ad esso, e ciò significa: prima di trattare con esso. Mai vi è stato linguaggio, prima che ci fosse un discorso; ci poté essere monologo soltanto allorché il dialogo si interruppe o si dissolse. A circondare il primo parlante non sono oggetti ai quali appose il nome, né gli capitano accadimenti che egli intercetta con il nome: solo nella condizione di partner vengono per lui al linguaggio il mondo e il destino-” In M. Buber, La parola che viene detta, op. cit., p. 25

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“Il linguaggio nel suo senso ontologico è stato presente in tutti i tempi e in tutti i luoghi, laddove gli uomini trattavano l'uno con l'altro nella reciprocità dell'Io e del Tu; laddove uno mostrava all'altro qualcosa del mondo, in modo tale che l'altro potesse, per la prima volta, percepirlo veramente; laddove uno codificava un segno, in modo tale che l'altro potesse riconoscere la situazione così descritta come non era stato in grado di fare fino ad allora; laddove unno comunicava all'altro la propria esperienza, in modo tale che l'altro avrebbe potuto penetrare nella rete delle sue esperienze, ed integrarvela, per così dire,

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collegamento che lega l'uomo all'altro uomo, è il potenziale connettivo che viene evocato fra due esseri umani, la cui esistenza consiste nell'essere rivolto che rivendica risposta.

Nel momento in cui il mio concreto essere presente viene accolto dalle altre persone presenti assieme a me, io mi trovo nella verità; mi troverei nella menzogna, nella non-verità, nel caso in cui la mia presenza non destasse alcun tipo di risposta o riconoscimento.