Parte Terza: Il pre-etico, al di là del bene e del male verso una prospettiva non nichilistica Il problema politico.
Capitolo 7: Rivelazione: la ricoperta di Dio nella realtà sociale 7.1 L'incontro con il Tu eterno
Martin Buber, in apertura alla terza parte di Io e Tu, presenta Dio in questi termini:
“Le linee delle relazioni, nei loro prolungamenti, si intersecano nel Tu eterno. Ogni singolo tu è una breccia aperta sul Tu eterno. ”155
In questa “definizione” Dio è presentato come quel punto in cui tutte le relazioni umane si intersecano, quindi come una sorta di meta. Ma ciò che è fondamentale in queste righe è la seconda parte, ossia il fatto che Dio sia posto essenzialmente come condizione di apertura di ogni singolo uomo. Si afferma che ogni singolo uomo è questa apertura a Dio e, di conseguenza, si presuppone che Dio (in quanto relazionalità e dunque relazione base di tutte le altre relazioni possibili) sia la condizione d'origine di ogni agire possibile da parte dell'uomo.
Dio viene a coincidere con il presupposto e la meta dell'agire umano, il luogo nel mondo cui sono destinati a giungere gli effetti di ogni nostra azione.
Se Dio è presupposto del fra, dell'essere-in relazione, che trascende i singoli individui stessi che vi prendono parte, allora è sulla base di questo fenomeno primo che è Dio che possiamo chiederci chi è l'uomo e cos'è il mondo. Punto di partenza non è il soggetto, ma la relazione, l'accadere dell'incontro e ciò che in esso si manifesta156.
Da qui il confronto fra Buber e la psicologia, la quale si caratterizza in maniera opposta rispetto ai presupposti buberiani: lo psicologo non considera primariamente l'accadere della relazione, ma il soggetto che ne è il protagonista e ne fa esperienza.
155
M. Buber, Io e tu, op. cit., p. 111
156
“Nel parlare di Dio come di una persona che entra in dialogo con l'uomo, Buber sottolinea che non sta affermando uno statuto metafisico, ma che sta soltanto offrendo una descrizione fenomenologica ed una descrizione concettuale dell'esperienza dell'essere inerente alla relazione esistenziale reciproca fra un io e un Tu. Inoltre, Buber afferma che egli non parli di Dio ma circa l'evento di incontro con Dio, nel quale Dio è incontrato come l'eterno Tu”. In P. Mendes-Flohr, M. Buber's Conception of God, in Teologia filosofica e filosofia della religione, Benucci, Perugia 1986-87, Vol. I, pp. 182
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Buber si confronta con Jung, contestando l'affermazione dello psicologo, secondo cui “Dio non può esistere separato dall'uomo”. La contestazione riposa sulla constatazione, da parte del filosofo, che con tale affermazione, lo psicologo era uscito dal proprio ambito di competenza, andando a toccare il terreno del trascendente, al di là dell'ambito della psiche umana. Con ciò Jung- a parere del filosofo- aveva interpretato “Dio unicamente come un “concetto intrapsichico ”, negando quindi una sua trascendenza”157
.
Jung aveva risposto all'accusa, ribattendo che, all'interno di una prospettiva unicamente psicologica, le realtà che in essa si scorgono non possono essere dette vere o false, ma solamente affermate come esistenti o meno nella realtà psichica. Da questo punto di vista, anche di “qualsiasi affermazione metafisica si può dire che la sua realtà consista nell'essere sostenuta; nessuna invece può essere dimostrata come vera o meno.”158
Di conseguenza, secondo lo psicologo la sua affermazione “Dio non può esistere separato dall'uomo” non può essere considerata come la negazione della trascendenza di Dio159, perché qui la questione metafisica della trascendenza di Dio non è considerata da un punto di vista reale, ma esclusivamente come contenuto di una riflessione160, di una rappresentazione della psiche umana.
Per Jung “il modo in cui Dio veniva rappresentato nella psiche umana non poteva pregiudicare (l'eventuale) realtà di Dio. Ogni uomo,- sostiene lo psicologo- ha una propria rappresentazione di Dio […]. Qualsiasi affermazione di fede, […] (è) un oggetto di studio della psicologia; si tratta di opinioni umane soggettive riguardo a esperienze la cui vera natura non può comunque essere indagata dall'uomo. Esse contengono un vero e proprio mistero”161
.
Lo psicologo fa notare a Buber che anche la sua propria concezione di Dio non è che una rappresentazione psicologica legata alla propria anima, alla propria psiche, rispetto a cui non può essere in gioco la domanda attorno alla sua verità.
Inoltre Jung afferma che il pensare Dio in un modo o in un altro non pregiudichi la sua realtà. Ogni rappresentazione assume la realtà in quanto contenuto, e di conseguenza, ogni nostra rappresentazione
157
In M. Buber, Colpa e sensi di colpa, op. cit., p. 50
158
M. Buber, Colpa e sensi di colpa, op. cit., p. 50
159 “Contro le mie obiezioni jung potrà addurre ciò che una volta formula nel modo seguente “Le affermazioni metafisiche sono
asserzioni dell'anima e perciò sono psicologiche”. Poiché tutte le asserzioni in generale, quando non vengono considerate secondo il sensi e l'intenzione del loro contenuto, ma secondo il processo della loro origine psichica, sono da definire come “asserzioni dell'anima”, se viene presa sul serio quella frase i confini della psicologia vengono eliminati, quegli stessi riguardo ai quali jung dice altrove che la psicologia deve stare attenta a “non superarli mediante affermazioni metafisiche o altre professioni di fede”. In contraddizione con ciò la psicologia diventa qui l'unica metafisica ammissibile; allo stesso tempo dovrebbe però rimanere una scienza empirica; unire le due cose è davvero impossibile.” In M. Buber, Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op. cit., p. 78
160
“(jung pensa a Dio stesso) non (come) un essere o un'essenza cui corrisponda un contenuto psichico, ma proprio questo contenuto; se non è così, egli aggiunge, “allora anche Dio non è reale, perché non interviene mai nella nostra vita”. Secondo questa ipotesi tutto ciò che non è esso stesso un contenuto psichico autonomo, ma genera o provoca o concorre a causare in noi un contenuto psichico, non va considerati cine qualcosa che interviene nella nostra vita e quindi nemmeno come reale. ” Ibid., p. 77
161
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non incide e non si ripercuote sulla realtà. In questa prospettiva non c'è contatto fra pensiero e realtà perché ogni rappresentazione ha in sé la realtà ma solo in quanto contenuto psichico162.
In questa prospettiva si assume, come abbiamo visto, il pensiero, come primo intermediario fra noi ed il mondo, e questo fa sì che noi siamo privati della nostra capacità di incidere sul mondo, di esercitarvi la nostra effettività e di viverla. Nella relazione interumana (secondo la psicologia) avviene un assimilazione da ambo le parti, in modo che la realtà si fa contenuto di una rappresentazione. Se questo è il modo primo attraverso cui avviene il nostro incontro con il mondo, noi ci troviamo incapaci di esercitare un intervento reale nel mondo.
Nella prospettiva di Buber l'incontro è fatto primo da cui deriva la rappresentazione. Nel rapporto conoscitivo non è il soggetto (la struttura del suo intelletto) a predisporre il modo e le condizioni per cui è possibile conoscere un oggetto. La condizione per cui avviene questa conoscenza non è predisposto da nessuno: esiste nella realtà, è l'incontro stesso, l'insieme delle possibilità, la storia: Dio. La relazione è condizione la cui esistenza precede quella del soggetto. Per cui non è nella conformazione della mente umana che dobbiamo cercare risposte riguardo alle sue possibilità, alla sua umanità ma nella conformazione, nell'essere stesso della relazione che ci fonda:
“L'ordinamento dei fenomeni a noi conosciuti, che chiamiamo mondo, è certo l'opera comune di mille generazioni umane; ma esso è nato dal fatto che l'esistente molteplice, che non è opera nostra, incontra noi, che, compresa la nostra soggettività, non siamo opera nostra; anche l'incontro, da cui scaturisce l'insieme dei fenomeni che noi ordiniamo in un mondo, non è opera nostra”163
.
Buber afferma che “tutto quell'esistente è dato, noi siamo dati il nostro incontro con lui è dato, e così il divenire del mondo che mediante noi accade. Questo essere-dato dell'universo, compresi noi stessi e la nostra opera, è la realtà fondamentale dell'essere a noi accessibile in quanto esistenti”164
e se noi non partiamo da questa datità, come fatto originario, partendo dall'io soggettivo, misconosciamo noi ed il mondo.
Il Dio che si rivelò a Mosè nel roveto ardente: “io sono colui che c'è e ci sarà”165
, è questa presenza, questa datità e noi l'essere che vi dimora.
162
“Anche se questa psicologia assicura di “non ” essere “una concezione del mondo, bensì una scienza”, essa non si accontenta più di interpretare la religione, ma ne annuncia una nuova, l'unica che possa essere ancora vera, la religione della pura immanenza psichica” In M. Buber, Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op. cit., p. 81
163
M. Buber, Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, p. 65
164
Ibid., p. 65
165
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7.2 Il Tu Eterno come relazionalità
Dopo aver sottratto la realtà di Dio da qualsiasi forma di riduzionismo psicologico, in questo paragrafo, cercherò di distinguere la realtà divina dalla sfera della morale e dell'etica, o meglio, di individuare la posizione di essa nella prospettiva del filosofo.
Questa precisa questione è posta da Platone nell'Eutifrone: il santo è tale perché è caro agli Dei o, al contrario, è caro agli Dei perché esso è santo ? Ossia, il santo ha una sua specifica ed autonoma realtà, oppure il suo essere tale è effetto del giudizio divino su di esso? In sostanza, in che rapporti stanno la giustizia e la santità?
Entrambe le risposte implicano la riduzione di un termine all'altro: o il giusto alla concezione di Dio, o Dio al concetto di giusto. Il dialogo socratico, dopo aver valutato diverse possibilità, si chiude in modo aporetico.
Seppure da intendersi in un modo da specificare, nella prospettiva del filosofo, è la prima formulazione ad essere corretta166; anche se -come riconosciuto da Buber in Eclissi di Dio- nei tempi moderni è la seconda posizione, -quella per cui si afferma il concetto di bene (la dimensione dell'etica ) come preminente su quello del sacro - ad esercitare il predominio.
Dal fatto che Dio è relazionalità totale, consegue che la dimensione del sacro, essendo fondamento del nostro agire possibile, sia presupposto anche del principio etico: il concetto di bene deriva dalla dimensione del divino, ma non in quanto esso sia concepito come coincidente con Dio, ma in quanto derivabile da Dio167, (questa formulazione non implica quindi alcuna forma di riduzionismo, in quanto il principio morale è derivabile e non coincidente con Dio).
È infatti nell'incontro con il divino che noi possiamo trovare l'orientamento all'interno della sfera del nostro libero agire. Ma questo rivolgersi a Dio deve essere un rivolgersi dialettico, non statico: egli non è
166
“La risposta di Buber alla questione posta nell'Eutifrone è chiara: Dio non è legato con un qualche indipendente ordine di bene; al contrario, il vero significato di bene e di qualsiasi concetto o ordine di bene che esista è derivato dalla nostra relazione con Dio e con la Sua domanda che determina la realtà delle nostre esistenze create facendoci diventare umani e dunque reali. La scelta per Buber non è tra religione e moralità, ma tra una religione e moralità che si riferiscono all'universale, e una religione e moralità collegate con la concretezza. (…) Il bene, per Buber, non è uno stato oggettivo di cose o un sentimento interiore, ma un tipo di relazione- il dialogo fra uomo e uomo e fra uomo e Dio ” In M. Friedman, op. cit., p. 62
167
“L'essenza del rapporto tra etica e religione non può venir stabilita confrontando gli insegnamenti etici con quelli religiosi. Bisogna invece penetrare nelle due sfere, laddove si condensano in una concreta situazione personale; ci interessa quindi da un alto l'effettiva decisione morale del singolo e dall'altro l'effettivo rapporto con l'assoluto, in entrambi i casi (è in gioco) l'uomo intero. Se consideriamo in tale concretezza il rapporto tra le due sfere dalla parte di quella religiosa, allora vediamo la sua tendenza a mandare i propri raggi in tutta la vita della persona, provocando un ampio mutamento di struttura: religiosità viva vuol generare vivo ethos. Tutt'altro se si presenta (…) il rapporto delle due sfere dalla parte di quella etica: l'uomo che aspira alla distinzione e alla decisione nella propria anima non può attingere da essa, dalla sua anima, l'assolutezza per la sua scala di valori; soltanto dal rapporto personale con l'assoluto proviene l'assolutezza delle coordinate etiche, senza le quali non può esistere vera conoscenza di sé. ” In M. Buber, Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op.cit., pp. 93-4
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l'incarnazione del bene bensì dimensione di relazionalità168 al cui interno possiamo cogliere, di volta in volta, nelle diverse situazioni di incontro con l'altro, la giusta direzione da imprimere alle nostre azioni: “La prospettiva dialogica è essa stessa una prospettiva etica. Tuttavia, è stato correttamente precisato, “la maggior parte di valori etici tradizionali è implicita di fatto nella relazione Io-Tu, ma non come un codice assoluto”. Decifrare tale codice significa a nostro avviso intendere i limiti esistenziali della libertà e della responsabilità nella dialettica uomo-Dio. Libertà e responsabilità infatti esistono soltanto dove c'è un reale rispondere, dove le condizioni formali di un'etica speciale non possono più valere, perché, secondo la precisa espressione di Buber, “il significato non lo troviamo nelle cose e nemmeno lo poniamo nelle cose, ma può risultare dal rapporto tra noi e le cose”169
Di conseguenza, si deduce che ciò che riguardi Dio primariamente, non sia la questione del bene o del male, bensì quella della nostra partecipazione alla realtà170: Egli è garante non solo della realtà prodotta dall'agire morale, ma dell'esistenza della realtà relazionale stessa, da cui dipende ogni nostra azione. È a questa consapevolezza che è subordinata la riflessione etico-morale. Dio è pre-etico171 poiché Egli è il terreno in cui l'uomo può fare esperienza del bene e del suo opposto172:
“In tutto ciò che vi è nel mondo dimorano scintille sante, nessuna cosa ne è priva. Anche nelle azioni degli uomini, quindi, persino nei peccati che un uomo commette, dimorano scintille sante della Gloria di Dio”173
.
168 “Per Buber Dio per essenza è la totalità delle relazioni ed altro ancora, in ognuna di esse è persona che incontra altra persona,
è libertà che interroga altra libertà che risponde. […] Tutto è pieno di Dio ma anche Dio è pieno di quella cangiante realtà che è l'uomo” in S. Spagnolo, Etica e metafisica nel pensiero di M. B., in «Teoresi», 1977, p. 46
169
In S. Spagnolo, art. cit., p. 49
170
“L'uomo buberiano è incluso in un contesto ontologico orientato e “naturalmente pre-disposto per un movimento fondamentale”, per una direzione che è apertura all'essere; questa direzione è la possibilità dell'uomo, alla quale egli può aderire perché gli è ontologicamente costitutiva. Il bene consiste allora nel vivere pienamente in questa direzione che è l'incontro col Tu. Il male è indisponibilità, rifiuto, lacerazione, chiusura alla relazione dialogale, assenza di direzione o, più precisamente “direzione dell'essere frantumata”, che non coinvolge mai totalmente l'essere: “Il male non può essere compiuto con tutta l'anima; il bene può essere compiuto con tutta l'anima”. ” In Giuseppe Bon, op. cit., p. 70
171
“L'amore dell'uomo per Dio non è l'amore per l'ideale morale, anche se lo include. Chi ama Dio soltanto come ideale morale può arrivare facilmente a disperare del governo di un mondo che sembra contraddire ora per ora i suoi valori morali. Giobbe si dispera perché Dio e il suo ideale morale non sembrano più collimare. Colui che gli rivolge la parola nella tempesta è superiore anche alla sfera degli ideali. Egli non è il loro archetipo, il loro archetipo è in lui. Egli dà l'ideale, ma non si esaurisce in esso.” In M. Buber, Eclissi di Dio. Considerazioni sul rapporto tra religione e filosofia, op. cit., p.57
172 “Nella tradizione ebraico-cristiana, […] sembra che Dio permetta il male, facendone emergere la possibilità nel momento in
cui sollecita una decisione dell'uomo a favore o contro (lo) sfondo relazionale (si tratta di Genesi 3 in cui Adamo viene reso cosciente da Dio di un divieto: non cogliere il frutto di un determinato albero). Si poteva evitare questo esito? La risposta, […]non può essere che negativa. Dio non poteva evitarlo,- a meno se si considera il Dio che è in relazione con l'essere umano,- perché la relazione è sempre qualcosa di ambiguo. Ciò significa che il male è in qualche modo insito nell'attuarsi della relazione stessa. Il male è un portato dell'agire fra i molti che l'agire, nella sua ambiguità, mette in opera. […]Se le cose stanno così, allora il male non solo è inserito nella relazione, ma è soprattutto l'esito di un ben determinato agire. È attuazione di quel decidere mediante il quale una relazione viene rifiutata. Nel caso del racconto biblico ciò che viene rifiutato non è una relazione qualunque. È la relazione con Dio, la relazione che sta alla base di ogni altra relazione. È questa che viene tagliata via dalla decisione di Adam. Ma si tratta pur sempre di una decisione che, come abbiamo visto, riconferma e legittima proprio ciò che vuole negare. Non si può lasciare cadere l'implicazione relazionale che è insita in ogni agire, non la si può tagliare via. […] Ci si può forse liberare da un Dio che impone un comandamento specifico, ma non da Dio che esprime in questo modo lo sfondo relazionale che tutti coinvolge.” In A. Fabris, Relazione. Una filosofia performativa, Brescia, 2016 pp. 153-4
173
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Per Buber, il divino è garante della creazione continua, sostiene la realtà, ossia lo spazio relazionale totale, entro cui solo il singolo può, di volta in volta, cogliere i valori morali che sono generati dalla relazione dialogica di un Io con un Tu174.
Dati questi presupposti, ne discende che, nel momento della scelta, io devo mettere alla prova le due possibili direzioni che mi si prospettano e decidere quale delle due sia in grado di essere conciliabile con la realtà di Dio, non in quanto principio morale, ma in quanto relazionalità175. Dunque dovrò scegliere la direzione che, nel qui ed ora, sia in grado di rispettare e tutelare la relazione in cui sono implicato al momento
,
nella quale troviamo la realtà di Dio176. Di conseguenza, il bene ed il male sono riconosciuti come elementi dipendenti177 da quello che è il fatto primo che è la relazione178, la quale talvolta può essere tutelata agendo in maniera opposta a ciò che si ritiene essere comunemente il bene.In Buber la relazione è realtà in cui l'uomo di volta in volta prospetta una diversa modalità in cui possa essere realizzato il bene, il quale non è assoluto, bensì sempre relativo alla situazione relazionale179. L'uomo che si ponga nella direzione di Dio avendo come meta Dio si impegnerà quindi a prendere parte alla relazionalità, vivendo nelle relazioni con autenticità180. Solamente dal prendere parte alle relazioni
174
“La conoscenza che si produce dall'incontro, ha una funzione conoscitiva negativa: essa sospende tutte le analisi e le conoscenze che hanno il carattere di pre-giudizio. Al modo di una conoscenza olistica, o piuttosto di una consapevolezza dell'altro nella sua presenza, la conoscenza che deriva dalla relazione di un Io con un Tu è sempre fresca, è sempre generata ex novo. In più, Buber sottolinea che, siccome essa implica una risposta al Tu, all'essere dell'altro nella sua presenza in un dato momento, l'incontro Io-Tu si dà come la base dell'autentica responsabilità nei confronti dell'altro. Questa responsabilità, nata nel dialogo, è il momento meta-etico di tutti i genuini giudizi morali e politici.” In P. Mendes-Flohr, art. cit., pp. 149-208,
175
“Il piano dell'incontro personale con il Tu eterno non è quello del pensiero logico, né dell'esperienza psicologica, ma piuttosto quello dell'indivisibile responsabilità morale, dove il “singolo” deve rispondere di se stesso nel suo essenziale rapporto agli altri.