• Non ci sono risultati.

La questione ebraico-araba

7.3 “Prolegomeni ad una filosofia della religione”, religione come presenza

Capitolo 10: Riformulare il linguaggio politico 10.1 Il “surplus” del politico

10.3 La questione ebraico-araba

“La via è l'accordo di due popoli, che, a nostro avviso, porterà ad una collaborazione ebraico-araba a favore dello sviluppo del Medio Oriente, una collaborazione che deve essere basata sulla concretezza della vita economica, ma che si potrebbe ingrandire a favore di un'alleanza spirituale formatrice di una nuova società.”288

Dalla fondazione del Sionismo politico da parte di Herzl nel 1897, fino ad arrivare alla Dichiarazione Balfour (1917) e al riconoscimento di questa, - presso la conferenza di Sanremo nel 1920,- come la base giuridica per il mandato britannico sulla Palestina, la questione ebraica si era caricata di connotati e valore politico, tale per cui, anche la via entro cui realizzare un focolare ebraico in terra di Palestina divenne in primis una via politica. Le basi di questo procedere furono, in primo luogo, gli accordi internazionali con la Gran Bretagna (con la Dichiarazione Balfour) ed in secondo la tendenza dominante nella dirigenza sionista di considerare la questione araba prettamente nell'ottica demografica. In relazione a quest'ultima, la politica doveva fare in modo, attraverso l'immigrazione di una quantità sempre maggiore di ebrei in Palestina, di costituire in essa una maggioranza ebraica che avrebbe sancito di fatto una sovranità sugli arabi.

Nel 1939 il governo britannico approvò il Libro Bianco, atto con cui si liberava di tutti i propri obblighi nei confronti del sostegno alla fondazione di uno stato ebraico in terra di Palestina; all'indomani gli israeliani intrapresero una campagna terroristica contro il governo britannico. Fu in quel momento che venne fondata la Lega per l'accordo e collaborazione arabo-israeliana. Il programma politico della Lega era quello di realizzare uno stato binazionale; Buber fu tra i firmatari.

Pochi anni dopo la costituzione della Lega, Martin Buber, assieme ad altri militanti, fra cui Ernst Simon, fondarono l'Ichud (1942), partito politico che esprimeva il forte dissenso nei confronti della

288

- 106 -

considerazione della questione araba in termini esclusivamente numerici e demografici. Essa, secondo il partito, era da considerarsi del tutto come una questione di carattere umanitario, riguardante il modo in cui realizzare il proprio scopo con il minimo di violenza e danno possibile nei confronti della popolazione araba289. Il movimento era contro la definizione degli ebrei come minoranza in Palestina e a favore della creazione di una situazione politica ed economica che permettesse l'accoglimento di un numero il più possibile elevato di ebrei in Palestina290.

Agli occhi di Buber e dell'Ichud, la fisionomia che il sionismo aveva acquisito non era più solidale e riconducibile al significato dell'originario cammino verso Israele, che ora veniva giocato su basi del tutto nuove e diverse: quelle del dominio e della potenza proprie dei nazionalismi europei291, in cui, prima o poi, qualcuno avrebbe vinto e qualcun altro avrebbe perso292.

Come afferma Buber stesso, questo cammino intrapreso su di un campo esclusivamente politico stava portando gli ebrei sempre più verso la caduta “in una situazione di inferiorità rispetto al loro fine”293. Un fine, quello di Israele, che poteva essere perseguito -nell'ottica di Buber- solo attraverso un accordo che mettesse in primo piano l'aspetto intranazionale (invece che internazionale così come era stato con la Dichiarazione Balfour), “fino ad ora la politica sionista dominante si (era) basata sull'assioma secondo cui un accordo internazionale dovesse precedere l'accordo intranazionale con gli arabi, anzi lo dovesse determinare. Si tratta di richiedere esattamente il contrario: bisogna ottenere un accordo intranazionale che possa poi essere sanzionato dall'ordine internazionale.”294

Anche nel caso di incontro fra popoli, l'immediatezza delle relazioni si dimostra -nell'ottica di Buber- essere la via attraverso cui si possa realizzare un confronto in cui, nell'immediato, senza sublimazioni

289

“Buber considera la presenza degli arabi palestinesi in quella terra come una presenza essenziale per il raggiungimento della missione di Israele: per dimostrare come la diffidenza (la mancanza di fiducia fra uomini) possa essere superata in un contesto che appare destinato alla creazione di un risultato opposto. Se gli ebrei creano una comunità basata sulla relazione dialogica, (…) il suo successo sarà per l'umanità il testamento vivente della capacità di superare i presupposti che vedono il conflitto e la divisione come gli elementi “naturali” dell'esistenza umana. ” In D. Avnon, op. cit., p. 182

290

“Alla luce della situazione drammatica in cui si trovavano gli ebrei d'Europa, l'Ichud chiese l'immigrazione del maggior numero possibile di ebrei in Palestina. In un discorso davanti alla Histadrut, principale sindacato ebraico in Palestina, Ben Gurion sottolineò come l'espressione “il maggior numero possibile” fosse ridicola e insistette sulla “maggioranza”. In un intervento pubblico a Beayot nel 1944, Buber mostrò come ciò che appariva come un semplice slittamento semantico, rivelasse invece il chiaro intento di confondere obiettivi morali e politici, ovvero di trasformare il dovere morale di salvare il maggior numero possibile di ebrei nell'intento politico di costruire una maggioranza ebraica in Palestina, per poter poi giustificare la richiesta di una sovranità ebraica nel paese.” In M. Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico-araba, op. cit., p. 210

291 “Il nazionalismo, nella sua forma avanzata “”concepisce la nazione come il principio supremo, come la realtà ultima, come al

giudizio finale”. Esso non riconosce altra autorità oltre o sopra sé stesso, ed essendo il più santo dei fini santifica tutti i significati che lo fanno ingrandire. Non considera sé stesso semplicemente come una voce unica ed irripetibile all'interno del coro delle nazioni, bensì come un solista; le altre nazioni prestano lui supporto solo come accompagnatrici. Questo progresso dal popolo alla nazione e poi al nazionalismo segna il movimento, all'interno della dimensione psicologica, dalla spontaneità all'autoconsapevolezza e da questa all'iper-autoconsapevolezza”. In B. Susser, Existence and Utopia: the Social and Political Thought of Martin Buber, Toronto, Associated University Press, 1981, p.143

292

“Il nostro errore è stato quello di applicare lo schema della moderna politica coloniale, dove vi sono due partiti, l'una che colonizza e l'altra che subisce la colonizzazione, alla nostra prospettiva così diversa da tale schema e nell'esserci affidati e consegnati a chi detiene il potere. In questo modo abbiamo fatto sì che venissimo additati come agenti di una politica

imperialistica senza che la nostra causa vi fosse davvero collegata” In M. Buber, Una terra e due popoli. Sulla questione ebraico- araba, op. cit., p. 181

293

In Ibid., p. 220

294

- 107 -

politiche, -che trasformano interessi, bisogni e desideri in vantaggi e in questioni di dominio295- si possa giungere ad un accordo che soddisfi le reciproche esigenze. È questo il ruolo dell'accordo intranazionale, che deve rivestire “la funzione di costruire”, mentre quello internazionale quella di “sanzionare”, ossia, nelle parole di Buber “attraverso l'accordo fra i popoli verranno alla luce creazioni che superano i confini dei singoli popoli (…) queste creazioni (basate su un'economia comune, culture specifiche, una politica in parte comune e in parte specifica) verranno poi inserite in un contesto sovraterritoriale, che corrisponderà all'odierno principio “internazionale”, ma maggiormente capace di relazioni vitali e di azioni concrete.”296

In questo modo, il cammino verso Sion è ricondotto alla più legittima e prossima dimensione umana: dove infatti la politica vede lo scontro di due forze contrapposte in lotta per il dominio, l'umanismo biblico, che sta alla base dell'originario cammino vero Sion, percepisce in esso quella rivelazione, -che ho cercato di far emergere in queste pagine- rispetto alla qualità del reale che fonda l'esistente, e che, anche all'interno di questo preciso conflitto, in questo tempo, e proprio nel mezzo fra l'arabo e l'ebreo, suggerisce, con voce flebile, di lato, laddove la politica lascia talvolta aperta, per sbaglio, anche una minima fessura: colui che hai di fronte, ancor prima di essere una possibilità, è il tuo sacro ed invalicabile limite, il vincolo, e il luogo d'inizio della tua propria umanità.

Qui è dove Dio cerca l'uomo, lo stesso luogo in cui l'uomo trova Dio: nello spazio condiviso di un Io con un Tu.

295

“Noi dobbiamo inaugurare una politica della depoliticizzazione, anche se ciò suona paradossale. Dobbiamo lavorare politicamente per ottenere la guarigione dalla patologia che affligge il rapporto tra vita e politica. Dobbiamo combattere dal di dentro l'ipertrofia della politica, rimanendo nel mezzo della sfera politica. L'obiettivo è eliminare il sovrappiù politico illusorio del conflitto, chiarire quali siano i reali interessi e i veri limiti dei conflitti tra interessi.” In Ibid., p. 236

296

- 108 -

Conclusione

Come ho già affermato, la padronanza dell'uomo odierno sul mondo consiste nella sua capacità di

trasformare i suoi stati d'essere: mutare distanza in vicinanza, e vicinanza in distanza. Ma il portato delle

riflessioni fino a qui condotte, ci consente di riconoscere che, se ben guardiamo, fra queste due operazioni possibili dell'uomo sul mondo, la sola reale e produttiva è essenzialmente la prima, perché quando l'uomo costruisce strade, ponti e vie di collegamento di cui è capace la tecnologia, egli, nelle intenzioni di questo costruire, riesce ad aggiungere qualcosa all'essere del mondo. All'opposto, quando l'uomo costruisce un muro, un ostacolo, una barriera, questa costruzione non è capace di avere lo stesso grado di realtà di quella di un ponte: la sua esistenza, infatti -al contrario di quella del ponte che aggiunge senso all'essere del mondo- non può in modo effettivo realizzare lo scopo per cui essa è stata realizzata, quello di distanziare, e dunque di sottrarre campo d'essere alla relazione. È vero, esso provocherà di certo delle conseguenze reali, ma queste conseguenze reali non intaccheranno la realtà relazionale che sta a fondamento: forse sarà più difficile da scorgere ma, nonostante le nostre costruzioni, noi non smetteremo mai di trovarci di fronte ad un Tu che ci chiama.

Il muro tra Berlino Est e Berlino Ovest ha ostacolato l'oltrepassamento del confine, ha rallentato e fermato il flusso di entrata di coloro che volevano abbandonare la parte Est verso la parte occidentale. Queste sono state le conseguenze reali, ma in merito a quelle effettive?

Pensiamoci: il muro ed il ponte - l'atto di procurare distanza e quello di procurare vicinanza - hanno due gradi di realtà differente. Entrambi, dato il nostro limite, possono sempre e solo aggiungere senso al fondamento relazionale, ma nel caso del muro, abbiamo a che fare con un “non-fare”, ossia con una costruzione la cui ragion d'essere (il procurare distanza) non potrà mai realizzarsi in modo effettivo poiché la relazione, che è il nostro fondamento, non può essere intaccata, eliminata.

Quindi il muro - l'atto di procurare distanza- può essere detto insignificante, esso infatti non cambia nulla rispetto alla relazione, esso certo la renderà più difficile, la nasconderà ma non sarà capace di eliminarla. In questo senso possiamo affermare che la sua effettività non raggiungerà il livello ontologico, non raggiungerà il livello del senso profondo. Le persone separate, nonostante il muro, continueranno a sentirsi chiamate.

Il ponte - l'atto del procurare vicinanza- è invece atto fecondo, esso può dirsi significativo poiché raggiunge il suo scopo in modo efficace. Esso è il mezzo che rende ancora più agile ed evidente la relazione cui apparteniamo: la sua efficacia infatti agisce a livello ontologico aggiungendo realtà al nostro fondamento umano.

L'uomo è le sue proprie possibilità, ma queste, dato il nostro fondamento (l'essere-in-relazione), non producono stati d'essere dotati di identico grado di effettività. L'uomo può negare che esista un senso

- 109 -

ravvisabile nella realtà, può affermare in questa qualsiasi valore morale, ed anche eliminarlo del tutto dalla realtà: ciò non toglie nulla al nostro fondamento che è la relazione. Quindi tutte le azioni che ci riconciliano con il nostro fondamento (le azioni che procurano vicinanza) possono dirsi dotate di senso ed effettività, perché essendo concordi con ciò che ci fonda, hanno come scopo l'aggiungere realtà ad esso, e ci riescono. Al contrario, le azioni che contrastano, che tentano di negare e di eliminare questo fondamento relazionale, in quanto non possono riuscirvi, risultano essere inefficaci e per questo prive di senso.

L'uomo che costruisce muri è simile ad un bambino che gioca alle costruzioni ma, mentre il bambino sa di star fingendo, l'adulto crede realmente all'effettività di quel muro in costruzione, ed è comico e tristemente grottesco pensare che l'adulto non sia in grado, al modo in cui un bambino ne è capace, di riconoscere che il muro sia una semplice costruzione la cui ragion d'essere (separare) non può realizzarsi perché ad impedirlo è la nostra stessa umanità (che consiste nell'essere-in-legame).

Nessuno di noi è in grado di eliminare, di sottrarre l'altro dalla propria soglia, perché l'altro si trova proprio al limite del nostro essere: possiamo tendere lui la mano, ed in quel caso saremo i fautori di una nuova creazione, produrremo un nuovo stato d'essere, e aggiungeremo nuovo senso alla realtà. Al contrario, possiamo anche decidere di voltarci e negare a noi stessi la sua presenza, ma in questo caso, sarà come se non avessimo fatto proprio nulla: lui rimarrà lì comunque e noi avremo sprecato una delle nostre più sacre possibilità creatrici.

Nella scelta fra un muro (distanza) ed un ponte (vicinanza) si decide dell'autenticità e della sensatezza delle nostre esistenze. Dell'autenticità e non della moralità di esse, perché non si tratta di credere e perseguire un certo ideale di bene e nemmeno di provare un certo sentimento di compassione nei confronti del nostro prossimo, ma di riconoscere la nostra propria umanità, il cui fondamento è l'uomo con l'uomo, e di operare in modo sensato verso l'adempimento di questa.

- 110 -

Bibliografia