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2.1. Sviluppo come espansione delle libertà reali

2.1.1. Dall’obiettivo della crescita a quello delle libertà: da Lewis a Sen

2.1.1.1. Crescita, capitalismo e consumo

Nel 1955 l’economista giamaicano Arthur Lewis nella sua opera maggiore “Teoria dello Sviluppo Economico”, identifica la crescita economica con lo sviluppo, conducendo un’analisi su tutte le forze, che influiscono sulla crescita economica nei paesi arretrati e introducendo un modello dualistico dell’economia. Nello scritto “Sviluppo economico con disponibilità illimitate” egli sostiene che il nodo principale della teoria dello sviluppo economico risieda nell’accumulazione di risparmio, capire cioè perché una comunità che risparmiava ed investiva precedentemente il 4 o il 5% del proprio reddito nazionale, si trasformi in una economia il cui risparmio volontario raggiunge il 12 al 15% o più, del reddito nazionale. Lewis, sosteneva che questo fosse il problema centrale, poiché, la rapida accumulazione di capitale sarebbe proprio il motore principale dello sviluppo. Non si può spiegare alcuna rivoluzione industriale, senza spiegare l’incremento di risparmio in un paese: il risparmio aumenta, relativamente al reddito nazionale, perché aumentano i redditi dei risparmiatori, relativamente al reddito nazionale. La chiave dello sviluppo, sarebbe dunque, da attribuirsi ad una distribuzione del reddito alterata in favore delle classi più risparmiatrici, quelle percettrici di rendite e profitti: l’autore e la sua teoria giustificano e in parte, offrono un incentivo alla disuguaglianza nella distribuzione del reddito. La misura di questo sviluppo è l’aumento del reddito procapite che permettendo all’uomo un migliore controllo sull’ambiente, amplia le sue libertà.

Nella stessa ottica, Kuznets (1966), con la teoria della U rovesciata, introduce implicitamente quel concetto del trickle-down secondo cui, nel lungo periodo, anche il resto della popolazione beneficerà di una crescita inizialmente ad esclusivo vantaggio di pochi. Dall’osservazione empirica e storica del processo di sviluppo vissuto da quei paesi che, negli anni cinquanta, erano considerati “sviluppati”, Kuznets evidenziò alcune comuni caratteristiche quali la crescita accelerata del reddito procapite e le trasformazioni strutturali del processo produttivo. Definì tali caratteristiche come “Moderna Crescita Economica” e raggruppò i paesi, che ancora non l’avevano vissuta nella categoria dei paesi in via di sviluppo. Per Kuznets, lo sviluppo economico è “l’aumento nel lungo periodo della capacità di fornire beni economici sempre più diversificati alla popolazione”, definizione che pone

l’accento non solo sull’aumento del reddito procapite nel lungo periodo, ma anche sulla diversificazione dei beni economici che compongono il reddito.

Tale concettualizzazione dello sviluppo si integra con la successiva teoria della U rovesciata: dato un insieme di assi cartesiani in cui, nell’asse delle ordinate, individuiamo l’andamento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito e in quello delle ascisse la crescita del reddito, la funzione ha forma di una U rovesciata, per cui ad un iniziale aumento del reddito, corrisponde un aumento della disuguaglianza, sino ad un certo punto (incognito nel tempo e nell’intensità) dal quale, pur continuando ad aumentare il reddito, la disuguaglianza nella distribuzione dello stesso si affievoliscono. Si tratta, però, di un percorso lungo e tortuoso, che con le parole di Sen potremmo definire di “sangue, sudore e lacrime”, perché nel giustificare la distorsione nella distribuzione del reddito a favore delle classi sociali più alte, capitalisti e impresari (per la loro alta propensione al risparmio), rispetto alla forza lavoro (alta propensione al consumo, specie di sussistenza), non tiene conto dei costi e dei sacrifici umani che questo comporta anche nel lungo periodo.

L’altra critica che si può presentare riguarda la generalizzazione di questo modello. La modellizzazione della curva di Kuznets si basa sull’osservazione di paesi che partono da livelli estremamente bassi tanto di disuguaglianza come di ricchezza, così che in quei casi specifici, da un punto di vista più strettamente etico, potrebbe non pesare un certo grado di disuguaglianza iniziale, per poi godere dell’effetto di trickle down. La stessa cosa invece risulta inaccettabile, economicamente inefficiente e socialmente pericolosa nella realtà dei paesi in via di sviluppo di oggi, dove i livelli di disuguaglianza sono già estremamente elevati. Sull’interpretazione e la universalizzazione di questi due ultimi approcci teorici vi è sottesa implicitamente l’impostazione smithiana, cioè che l’unica mano redistributrice della ricchezza, debba essere quella invisibile del mercato. Essi si trovano in perfetta sintonia con il modello di capitalismo individualista e consumista come unico cammino possibile per raggiungere il benessere collettivo. Esaminiamo brevemente questi elementi menzionati nella precedente proposizione.

1. L’unica mano redistributrice é quella invisibile del mercato. Se ogni individuo tende al proprio interesse, limitando l’influenza e la partecipazione dello Stato nell’azione economica, vi sarà una maggiore efficienza dell’azione collettiva, come somma della libera azione individuale, che implicherà anche una migliore allocazione delle risorse. Ovviamente nel corso della storia economica dei vari paesi e dell’evoluzione della ricerca economica, si sono palesate realtà complesse e diversificate che hanno fatto emergere non solo le mancanze nel mercato, ma anche i fallimenti del mercato stesso nel raggiungere la piena ed efficiente

occupazione delle risorse. All’origine della discrepanza tra teoria e realtà socio-economica dei vari paesi, risulta l’eccessiva sintesi delle ipotesi su cui si basano le stesse teorie, la conseguente perdita delle informazioni capaci di descrivere la realtà in un modello economico, e l’incapacità conseguente di descrivere e prevedere il comportamento degli agenti economici, perché, nella fattispecie, basandosi su ipotesi che sono poco descrittive della realtà, si mina alla base la loro capacità di previsione. Generalmente si considerano individui e paesi come se partissero dallo stesso punto di partenza (stesso acceso a informazione e formazione, libera mobilità dei fattori produttivi, assenza di costi di transazione, libero commercio), nella realtà però esistono molteplici fattori che ci permettono di asserire che non tutti gli individui e non tutti i paesi accedono al mercato con la medesima gamma di opportunità: si pensi alle asimmetrie informative, alla mancanza di acceso ai servizi di base o all’istruzione oppure, relativamente agli scambi commerciali, ai sussidi e alle protezioni delle produzioni agricole di USA e UE. È per questo che la nostra teoria di riferimento, quella dello sviluppo come ampliamento delle libertà umane e del capabilities approach, alle quali giungeremo in seguito, rifiuta ipotesi volte a descrivere la realtà che siano tanto restrittive, ma si basa su un approccio multi dimensionale che tanto nel concetto di sviluppo come nella descrizione di fenomeni importanti come la povertà, per esempio, non si limitano a sintesi descrittive basate solo su “termometri monetari”.

2. Il capitalismo individualista nella teoria tradizionale dello sviluppo. Per capitalismo individualista si intende quel capitalismo spinto e sostenuto a partire dal 1776 (data della pubblicazione della Ricchezza delle Nazioni di Adam Smith) considera l’individuo come agente che si muove sospinto solo dalla propria utilità, privo di qualsiasi interesse verso la collettività o verso il benessere di altri soggetti e così anche verso l’ambiente in cui la società vive. Con la ultima crisi mondiale innescatasi nel mercato immobiliare statunitense, e che molti etichettano come la crisi del capitalismo mondiale del 2008-2009, il modello capitalistico, viene fortemente criticato e messo in discussione. Nonostante nascano proposte alternative tanto da parte di riunioni globali della società civile come da parte di Governi progressisti, impegnati nella costruzione di un modello economico nuovo, sembra che questo modello capitalista, generalmente volto alla riduzione dell’interventismo statale, abbia invece reagito alla crisi aprendo una parentesi di coordinamento tra gli stati, di iniezione di risorse nell’economia e soprattutto nei settori finanziari, dove la crisi si era originata, ma che fondamentalmente nella sua struttura non si sia disgregato, né nella sostanza né nella estensione geografica. Il questo elaborato, a questa teoria del capitalismo individualista, contrapponiamo il concetto seniano dell’ “individuo cittadino” il quale é un operatore che

giudica le alternative sotto una prospettiva sociale che include il proprio benessere assieme ad altre considerazioni di carattere sociale (Sen, 1987). Un individuo dunque nell’ambito della sua stessa razionalità, è disposto a dare maggior valore a considerazioni di benessere collettivo, che scavalcano la pura utilità personale.

3. Il consumo di beni e servizi coincide con il benessere collettivo. Secondo la visione neoclassica, ma anche secondo visioni più rivoluzionarie e critiche (come la teoria keynesiana), l’aumento del consumo, dunque della domanda e della produzione, in un meccanismo di integrazione nell’economia dei fattori produttivi inutilizzati, porterebbero all’incremento del benessere sociale (misurato, in termini monetari, dall’incremento del prodotto interno lordo). Premesso che, “non si può chiamare sviluppo economico qualsiasi aumento (del consumo o della produzione) dei beni economici” (Boggio e Seravalli, 2003) per diversificati che siano, rifiutiamo nel nostro approccio allo sviluppo di misurare il benessere sociale attraverso indici “monetari” ma anche attraverso l’indicatore del “consumo dei beni” Questo ragionamento vale anche per le economie più avanzate, cioè quelle a cui ci riferiremo nella nostra ricerca. Se l’economia é uno strumento necessario per raggiungere il benessere delle persone ed il benessere é ciò che nella realtà crea la base affinché gli individui possano essere felici, non é la quantità di moneta che si contabilizza nel PIL, né la diversificazione dei beni consumati, a fornirci un’adeguata misurazione della felicità stessa. Per esempio, contributi teorici e movimenti sociali come quelli delle diverse comunità indigene dell’America Latina, o manifestazioni di portata mondiale come i Forum Sociali che riuniscono annualmente la società civile, sottolineano con vigore come i mezzi per il raggiungimento del benessere e della felicità non siano il grado di consumo dei beni o la produzione di alti redditi, ma la conservazione della biodiversità (nel caso delle popolazioni indigene, per esempio é il loro ambiente di vita), la conservazione ed il riconoscimento dell’acqua come diritto umano meritevole di tutela per ogni essere umano, la possibilità di partecipazione alla vita sociale, e via dicendo.

È dunque interessante addentrarsi nell’ottica teorica del capabilities approach secondo tre criteri che permettono di rilevare degli elementi innovatori nella valutazione del benessere: 1. la considerazione di ciò a cui la gente dà davvero importanza (Sen, 1987); 2. i desideri delle persone possono andare oltre la questione monetaria; 3. a parità di reddito due individui diversi possono raggiungere diversi livelli di benessere, dato che il benessere “economico” di un individuo, nulla dice sul suo grado di felicità e sul suo reale benessere.

Nasce negli anni ‘50 e ‘60, con il contributo di Prebish (1950), Singer (1950), Hirschman (1958), tra gli altri, la proposta strutturalista. Essa si sviluppa esaminando i problemi dell’America Latina dell’epoca, considerando “lo sviluppo economico come un processo che produce un cambio nella qualità della struttura produttiva” e cavalcando la teoria schumpeteriana (1934) dello sviluppo economico come innovazione principalmente tecnologica e nascita di nuovi mercati e mezzi di trasporto, che stimolerebbero i “cicli lunghi di crescita”. Il costante perdurare della divergenza tra i paesi latino americani, in termini di PIL procapite, con il Nord America e l’Europa, il persistere ed acuirsi della concentrazione della ricchezza a scapito dei ceti più bassi della popolazione, la forte dipendenza dalle esportazioni di commodities altamente volatili nei prezzi, hanno mantenuto viva la preoccupazione sulle ragioni di tali deficienze strutturali nella regione ed enfatizzato l’obiettivo della crescita con equità, basata sull’innovazione e il cambiamento della struttura economica. Nonostante questa crescente enfasi sul tema dell’equità tra i strutturalisti della CEPAL (Comisiòn Economica de las Naciones Unidas para la America Latina y el Caribe), l’obiettivo della crescita, permane, sotto il nostro punto di vista, intrinsecamente debole.

Sebbene nella teoria strutturalista vi sia un implicito riconoscimento della poca capacità di previsione dell’effettivo progresso per mezzo della crescita del PIL e si ammetta che alcuni anni di crescita, sia pure rapida, non indicano cambiamenti strutturali, l’approccio continua a considerare la crescita economica (seppure con equità) coincidente con l’obiettivo di sviluppo, quindi la luce in fondo al tunnel.

Qui si sostiene che, fin quando l’obiettivo continua ad essere quello della crescita economica, continueranno a presentarsi problemi cruciali nella capacità di comprendere e soprattutto indicare il cammino per giungere ad un reale processo di sviluppo. In questo modo infatti si persiste a non considerare che eventi tragici e negativi (come incidenti stradali, guerre, inquinamento) possono contribuire direttamente alla crescita del reddito nazionale, ma indirettamente al benessere delle persone, e a non considerare che le persone sono diverse e hanno bisogni differenti, pertanto non è detto che una stessa quantità monetaria possa garantire loro lo stesso livello di benessere, poiché una persona malata ha necessità diverse di una in salute, un anziano da un giovane, una persona che lavora dieci ore al giorno da una che ne lavora sei, una famiglia con un figlio rispetto a una con cinque etc. In sintesi con l’eventuale uguaglianza di reddito, non si garantisce l’uguaglianza di opportunità, ne l’effettivo benessere delle persone, ne la loro felicità.

A superare la concezione di sviluppo legata esclusivamente alla crescita del reddito ed alla disponibilità di beni materiali, è la proposta, nel 1972, di Seers il quale affronta la tematica della “realizzazione della personalità umana”, con gli strumenti della riduzione della

povertà, delle disuguaglianze e della disoccupazione. Rifiutando il “feticismo della crescita”, Seers rigetta l’accettazione della disuguaglianza come effetto collaterale inevitabile e come parte integrante del cammino verso lo sviluppo (una sorta di sacrificio che la collettività deve sobbarcarsi al fine di giungere all’agognato momento di rivalsa). Se è vero che parte dei paesi cosiddetti sviluppati oggi, sono accomunati da percorsi sostanzialmente similari, caratterizzati da un’iniziale disuguaglianza, pratiche di sfruttamento e povertà diffusa, ci domandiamo se i paesi in via di sviluppo debbano seguire oggi quei modelli seguiti. Su questa linea teorica poggia l’approccio dei bisogni primari, ovvero la convinzione che lo sviluppo si possa esprimere in termini di soddisfazione dei bisogni primari universalmente riconosciuti, quali cibo, casa, salute, educazione, accesso all’acqua. Ovviamente, l’individuazione di tali bisogni è compito arduo, perché gli individui sono diversi (come nell’approccio neoclassico sono diverse le preferenze) e diverse sono le necessità: queste ultime ad esempio variano secondo le problematiche e le caratteristiche fisiche e psicologiche dell’individuo, secondo la cultura e la struttura sociale, secondo un ordinamento di valori della società e/o dei policy makers.

Per risolvere le problematiche relative alla struttura sociale e culturale, l’approccio dei bisogni primari potrebbe essere comparato al concetto classico, smithiano e ricardiano, di

salario naturale, ovvero quel salario di sussistenza che permette ai lavoratori ed alle proprie

famiglie di vivere e di potersi riprodurre mantenendosi in forze. Questo concetto, ovviamente presuppone, l’elemento evolutivo della società. Rigettiamo in parte anche questo approccio perché, da un lato, risultano escluse alcune libertà fondamentali quali diritti umani, libertà politiche, religiose, culturali, di mobilità delle persone, e dall’altro, la definizione di alcuni bisogni primari come tali, attribuisce giocoforza un valore più alto ad alcune necessità rispetto ad altre, che però rispondono ad una visione che potremmo definire “occidentale” o per lo meno limitata. Considerando per esempio la casa (così come concepita in occidente: struttura solida, accogliente, con condizioni igieniche dignitose, dove la famiglia possa vivere in tranquillità) come bisogno primordiale e fondamentale, stiamo comunque dimenticando, nella nostra immaginaria graduatoria dei bisogni primari quel bisogno primario delle comunità indigene di vivere al lato di un fiume non contaminato, in una palafitta (senza fognature ed acque corrente) nel mezzo di una intatta foresta amazzonica dove si vive “meglio” vivendo di quello che la natura spontaneamente offre. Tutelare questi popoli, che noi occidentali potremmo sommariamente definire sottosviluppati, é proprio uno degli obiettivi principali dello sviluppo umano che ricerchiamo, e significa esattamente tutelare la loro “capacità di scegliere che tipo di vita vivere” e “ampliare le loro possibilità di scelta.

Costruire una lista di bisogni primari da soddisfare per percorrere la via dello sviluppo, risulta dunque, estremamente limitante per l’oggetto dei nostri studi: sebbene si possa

affermare che molti migranti possono raggiungere livelli di reddito molto più alti nei paesi ospiti e possano avere accesso ad una quantità di beni e servizi estremamente maggiore, il nostro studio aiuterà a scoprire che non è solo questo ciò che desiderano e ciò che li fa felici. L’approccio delle libertà che illustreremo di seguito, al contrario, prescinde dalla soddisfazione di un determinato bisogno, ma enfatizza l’ampliamento delle libertà umane, delle possibilità di scelta, obiettivo che può essere raggiunto con una gamma alternativa di strumenti, non necessariamente monetari, e non necessariamente determinati dal consumo dei beni. Questo approccio considera inoltre anche bisogni immateriali e collettivi che, per molti, possono essere di gran lunga più soddisfacenti di quelli materiali.