Enrico Marelli
1. La crisi e le politiche adottate
La doppia crisi che ha colpito l’Eurozona – La crisi finanziaria del 2007-
08 ha causato la Grande Recessione (2008-09). Poi il mondo lentamente si è ripreso, inclusi gli Stati Uniti, grazie alle politiche monetarie e fiscali subito espansive. In Europa, in particolare nell’Eurozona, una seconda crisi, detta dei debiti sovrani, si è però sviluppata a partire dal 2010, colpendo soprattutto i Paesi periferici. I disavanzi ed i debiti pubblici erano aumentati, in molti casi proprio per salvare le banche; anche dove questi interventi erano stati limitati, la Grande Recessione aveva causato aumenti dei disavanzi pubblici, tramite l’azione degli stabilizzatori automatici o l’adozione di pacchetti di stimolo fi- scale. La crisi dei debiti sovrani ha quindi indebolito i bilanci delle stesse ban- che, che sono tra i principali detentori dei titoli di Stato, ed anche per questo esse hanno ridotto il flusso di credito all’economia. Così, crisi finanziaria e cri- si dell’economia reale, crisi del settore privato e crisi del debito pubblico si so- no avviluppate in un groviglio perverso e non ancora sciolto.
La reazione dei mercati finanziari ai primi sintomi della nuova crisi che ha colpito l’Eurozona è stata spropositata ed il contagio si è diffuso a molti Paesi periferici (i cosiddetti Piigs), con forti rialzi dei tassi d’interesse e degli spread rispetto ai titoli tedeschi (cfr. Marelli, 2014). Il contagio è anche attri- buibile agli errori, incertezze e ritardi nelle prime reazioni delle politiche euro- pee; il tutto assieme a debolezze intrinseche della costruzione monetaria euro- pea (come vedremo tra breve). Per la prima volta dalla sua creazione, i mercati mettevano in dubbio l’irreversibilità dell’euro. Scambiando le cause con gli ef- fetti della crisi, si è infatti deciso di richiedere con politiche d’austerità un rapi-
do consolidamento dei bilanci pubblici. Politiche che hanno causato una se- conda recessione (nel 2012-13, in alcuni Paesi proseguita fino all’inizio del 2015) e deflazione generalizzata nell’area euro (a cavallo tra 2014 e 2015).
I difetti iniziali dell’Unione economica e monetaria – Tra le debolezze ini-
ziali dell’Unione economica e monetaria va citata l’enfasi eccessiva delle istitu- zioni europee sui criteri di convergenza nominale: dal Trattato di Maastricht al Patto di Stabilità e Crescita, al Fiscal Compact; al contrario, nonostante i vari piani economici (Agenda di Lisbona del 2000, l’attuale “Europa 2020”) ed i fondi strutturali stanziati ad hoc, si è fatto veramente poco per favorire la con- vergenza reale tra i Paesi dell’area euro, rafforzando ad esempio le strutture produttive e la competitività dei Paesi ritardatari. Così, non solo la crescita media dell’UE, ancor più dell’Eurozona, è stata inferiore a quella di molte al- tre regioni del mondo, ma le stesse differenze tra Paesi non sono diminuite; in realtà analisi empiriche recenti (Marelli, Signorelli, 2014) mostrano che dopo l’introduzione dell’euro e prima della crisi c’era stato un certo grado di con- vergenza reale solo per alcune macrovariabili, ma più nell’UE nel suo comples- so che nell’Eurozona; inoltre, dopo la crisi, sono prevalse condizioni di diver- genza.
Questa mancanza di convergenza reale compromette la sostenibilità di un’unione monetaria tra un insieme eterogeneo di Paesi, come ben argomenta- to dalle teorie sulle “aree valutarie ottimali” (Avo), rendendo più probabili gli shock asimmetrici. Sempre secondo queste teorie, sarebbe utile un bilancio centralizzato (come avviene negli Usa) che funga da ammortizzatore – attra- verso appropriati trasferimenti fiscali – di eventuali shock asimmetrici. Invece nell’UE non solo il bilancio è minuscolo nell’ammontare (1% del Pil comunita- rio), ma le ultime decisioni sono state al ribasso piuttosto che verso l’alto. In prospettiva, la sopravvivenza dell’euro dipenderà dalla capacità di realizzare ulteriori progressi sulla strada dell’integrazione. Invece lo stesso percorso au- spicato nel 2012 dal Presidente van Rompuy (assieme ai Presidenti di Commis- sione europea, Eurogruppo e Bce) per realizzare una “autentica Uem” è stato finora troppo lento (la transizione verso l’unione bancaria, il primo dei quattro pilastri, ha incontrato diverse limitazioni e maggiori ritardi vi sono sugli altri fronti). Invece, il principio dovrebbe essere quello per cui una maggiore solida- rietà all’interno dell’Eurozona deve accompagnarsi alla responsabilizzazione di tutti i paesi membri; questa richiede adeguati controlli sovra-nazionali ed ine- vitabili “condivisioni” delle sovranità nazionali. La maggiore solidarietà po- trebbe estrinsecarsi in forme di mutualizzazione del debito, quali gli Euro- bond.
Vediamo ora quali sono stati i principali errori nelle risposte dell’UE alla doppia crisi. Come si vede dal seguente schema grafico, la risposta delle politi- che fiscali è stata inadeguata (se non proprio errata nell’impostazione) e quella della politica monetaria ritardata. L’approccio generale delle istituzione euro-
pee è stato criticato da molti osservatori, in quanto “too little too late”. Invece, come si nota dalla parte finale del grafico, sarebbe stato necessario puntare fin dall’inizio sul rilancio della domanda aggregata (come approfondiremo nel par. 2).
Figura 1 - Le crisi e le risposte di policy
Le politiche fiscali e l’austerità – Pur essendo il consolidamento fiscale
inevitabile, le politiche restrittive sono state troppo intense, troppo prolungate e troppo estese a più paesi contemporaneamente. Gli effetti negativi sui livelli di attività sono stati sottovalutati, anche per un’errata valutazione dei diversi effetti in gioco, effetti keynesiani o non-keynesiani; questi ultimi avrebbero dovuto garantire i benefici della cosiddetta “austerità espansiva”. Invece i mol- tiplicatori fiscali – del taglio della spesa pubblica e dell’aumento delle imposte – sono risultati significativamente alti, soprattutto perché hanno operato in un contesto di recessione, con tassi d’interesse molto bassi e con consolidamenti fiscali estesi a molteplici Paesi. Conseguentemente le politiche di austerità
hanno causato contrazioni del Pil tali da annullare, in tutto in parte, l’iniziale effetto benefico sui conti pubblici.
Resta vero quanto sostenuto da Wyplosz (2012) già all’inizio della crisi dei debiti sovrani, ossia “adottare politiche fiscali restrittive nel mezzo di una
double-dip recession non ha mai avuto molto senso”; l’autore poi enfatizza il
paradosso secondo cui i mercati finanziari vogliono vedere sia un commitment alla disciplina fiscale sia un’immediata crescita, ma come può ristabilirsi la fi- ducia se le economie sprofondano in una recessione? Un altro aspetto tecnico delicato e discusso riguarda la stima del prodotto potenziale: la stima eccessi- vamente alta del “tasso di disoccupazione naturale” da parte della Commis- sione europea porta a sottostimare l’entità dell’output gap, causando anche una sovrastima del disavanzo di bilancio strutturale (rilevante ai fini delle re- gole del Patto di stabilità).
Dato che i rapporti debito/Pil sono aumentati quasi ovunque e stanno toc- cando i massimi valori quest’anno, a cinque anni dall’inizio della crisi dei debiti sovrani, è oltremodo evidente che le politiche d’austerità sono state self-defeating (cfr. Marelli, 2014). La richiesta di una maggiore flessibilità nell’imposizione dei vincoli europei sui bilanci pubblici non è quindi infondata. Non si tratta di tornare ai comportamenti opportunistici dei governi “spendaccioni” del passato, ma di trovare un giusto equilibrio tra consolidamento dei conti pubblici ed una politica fiscale non penalizzante per la crescita. Nell’immediato non pare semplice modifi- care le regole del Patto di stabilità e del Fiscal Compact (inclusa la soglia del 3%), ma si potrebbe insistere per una maggiore flessibilità nella fase preventiva del Pat- to, riguardo ai tempi ed alle modalità del perseguimento dell’Obiettivo di medio termine (Omt), come molto parzialmente è stato concesso dalla Commissione eu- ropea all’inizio del 2015; più avanti nel tempo, sarebbe opportuna una ridefinizio- ne del concetto di indebitamento pubblico (ad esempio attraverso l’accettazione di una golden rule).
L’esito self-defeating dell’aggiustamento fiscale è evidente nel caso ita- liano. Nonostante gli sforzi fatti per migliorare il saldo di bilancio, all’inizio soprattutto attraverso l’innalzamento delle imposte e poi anche attraverso tagli alla spesa pubblica, a causa della prolungata recessione il rapporto debito/Pil è continuamente aumentato. Anche per il futuro, nonostante gli avanzi primari conseguiti negli ultimi anni (attorno al 2-3% del Pil), con una crescita che con- tinuerà ad essere modesta anche nei prossimi anni e l’inflazione pure vicina al- lo zero, difficilmente il rapporto debito/Pil potrà ridursi; e quasi impossibile sarà una riduzione secondi i ritmi imposti dal Fiscal Compact.
La politica monetaria – La situazione sui mercati finanziari cominciò a
migliorare solo dopo l’affermazione del Presidente Draghi (“salveremo l’euro a qualunque costo”) del luglio 2012 e la successiva adozione del piano Omt (Outright monetary transactions); annuncio saggio ed opportuno, ma se la di- chiarazione di Draghi fosse stata fatta un anno o due prima avrebbe rispar-
miato sacrifici e sofferenze… La politica della Bce è stata quindi sufficiente per il momento per salvaguardare l’euro e l’unione monetaria; ma non per favorire la crescita. È vero che la politica monetaria è divenuta progressivamente ac- comodante, ma in ritardo (con tassi che hanno raggiunto il minimo storico so- lo a fine 2014), rispetto ad esempio all’azione della Fed. In un contesto di in- flazione bassissima e poi di deflazione, la Bce era comunque obbligata ad in- tervenire anche solo considerando il suo obiettivo primario esplicito (ossia un tasso d’inflazione vicino al 2%). Inoltre la stessa Bce ha riconosciuto che il meccanismo di trasmissione della politica monetaria non funziona bene a cau- sa della segmentazione dei mercati finanziari nazionali. Da qui, l’ultima opera- zione non convenzionale, il “quantitative easing”, divenuta operativa nel marzo 2015; l’effetto macroeconomico più importante è stato il deprezzamento dell’euro che, assieme al basso prezzo del petrolio, ha innalzato un poco le aspettative di ripresa nei primi mesi del 2015. Un’azione però al momento in- sufficiente per favorire una solida crescita economica.