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Il crollo degli investimenti pubblici locali e la politica di austerità nazionale

Gli investimenti delle amministrazioni locali costituiscono dal 75 all’80 per cento degli investimenti delle amministrazioni pubbliche complessive. Il lo- ro andamento costituisce, dunque, una parte rilevantissima del processo di “capitalizzazione” delle città e dei territori: un processo che si riconosce insuf- ficiente a mantenere integra la capacità competitiva delle nostre città e la quali- tà della vita. Tali investimenti, già relativamente bassi rispetto ai livelli di altri Paesi, si sono ridotti drasticamente a partire dal 2005, e cioè ben prima dello scoppio della crisi. Questa caduta si attesta sul 34 percento del PIL in un pe- riodo di sette anni. Sono soprattutto i Comuni maggiori, sopra i 60.000 abitan-

ti, a mostrare la caduta più rilevante: le loro spese in conto capitale pro-capite passano, infatti, da oltre 800 euro nel 2005 a 300 euro nel 2010, per poi mante- nersi su questo modesto livello fino al 2013.

Se consideriamo gli investimenti pubblici in Italia, la riduzione nel pe- riodo 2008-2013 è stata pari a circa 5 miliardi di euro, passando da 37 miliardi di euro a 32 miliardi valutati a prezzi correnti. Nel periodo in questione la di- minuzione degli investimenti pubblici è quasi unicamente imputabile alla ridu- zione degli investimenti delle amministrazioni territoriali, passati da 28 a 23 miliardi di euro (- 22 per cento), Gran parte della riduzione ha riguardato, quindi, la spesa degli enti territoriali, dai quali nel 2014 dipendeva circa il 72 per cento della spesa pubblica totale per investimenti.

A livello sia locale sia nazionale, il nostro Paese ha risposto alla crisi fi- nanziaria scaricando tutto l’aggiustamento sulle spese in conto capitale, la- sciando invariate le spese correnti, con una chiara scelta a vantaggio dell’equilibrio politico contingente e a scapito delle possibilità di crescita; e a livello nazionale si è scaricato gran parte dell’aggiustamento sugli enti locali.

Nel Documento di Economia e Finanza (2015) la condizione degli enti locali, Comuni e Città Metropolitane, sembra divenire ancora più dura. I Co- muni subiranno nel 2015 una riduzione delle risorse a disposizione pari a circa 1,5 miliardi di euro, secondo i dati elaborati dalla Cgia di Mestre.

A livello internazionale, la nostra situazione è simile a quella della Spa- gna. In questo paese gli investimenti pubblici sono calati dal 5 per cento al 2 per cento fra il 2009 e il 2013. In Italia sono calati dal 3,4 al 2,4 per cento (39 miliardi nel 2013). Ma in altri Paesi, come la Francia si conferma la tradiziona- le elevata spesa pubblica e l’alta spesa in conto capitale (85 miliardi di euro). La Germania, invece, ha una tradizione di investimenti infrastrutturali molto modesta (22 miliardi nel 2013).

La situazione storica recente nel nostro Paese non sembra mutare quest’anno (2015) e nei prossimi anni. La Legge di stabilità del 2015 ha cam- biato le regole di bilancio sopprimendo il precedente Patto di stabilità (art. 36), ma sostituendolo con un criterio sempre duramente restrittivo, il pareggio di bilancio che impone ai Comuni di continuare a mantenere un avanzo primario e un avanzo fra entrate e spese finali (comprese le rate di rimborso dei prestiti), per contribuire alla riduzione del debito pubblico complessivo. I possibili e consentiti patti di solidarietà, cioè di compensazione tra enti sul territorio (ov- vero cessione e acquisizione di spazi patto tra enti), hanno già dimostrato di aver poco successo in condizioni di incertezza e in un contesto di forti vincoli finanziari e tagli di risorse.

È un controsenso pensare che, sul fronte degli investimenti pubblici, gli enti locali siano obbligati a rinunciare a rilanciare lo sviluppo attraverso lo strumento, normale e necessario, del debito, con il quale è possibile ottenere in anticipo risorse finanziarie per realizzare quello sviluppo che ripaga il debito

stesso; e soprattutto a rinunciare a questo strumento nel momento storico in cui, anche grazie alle decisioni della Bce, lo Stato italiano si finanzia ad un tas- so attorno all’1 per cento, e a un simile tale tasso potrebbero finanziarsi gli enti locali maggiormente solidi e virtuosi, per progetti con ritorni economici e fi- nanziari “normali”.

La riduzione dei servizi pubblici locali e regionali nei trasporti, nella formazione professionale e nella sanità comporterebbe una riduzione dell’occupazione sia nell’amministrazione pubblica sia anche nelle imprese pri- vate fornitrici; con l’effetto quindi di una diminuzione dei redditi, dei consumi privati e della domanda aggregata interna che opera da traino della produzio- ne di molte altre imprese in settori diversi.

Il problema non riguarda i servizi pubblici da eliminare, perché di dub- bia utilità, o la riduzione del costo dei servizi pubblici di bassa qualità; ma la sostituzione di questi ultimi con servizi pubblici più innovativi e di migliore qualità per i cittadini, e che utilizzino risorse umane più qualificate. L’accorpamento delle imprese di servizi collettivi è necessario non tanto per ridurre i costi e le capacità produttive, quanto per sostenere investimenti di maggiori dimensioni nel territorio e affrontare meglio la concorrenza estera e promuovere l’internazionalizzazione di queste imprese, che sono di rilevanza strategica per una “rinascita industriale” dell’economia italiana. Dalla vendita delle proprietà immobiliari e delle partecipazioni azionarie degli enti locali, che produce deflazione dato che aumenta l’offerta sul mercato e d’altro lato dimi- nuisce il patrimonio collettivo, è necessario passare alla valorizzazione di que- sto patrimonio attraverso aumenti di capitale destinati a investitori privati al fine di realizzare, in prospettiva, il rafforzamento degli investimenti fissi lordi per la produzione di servizi nuovi e qualificati e di migliori infrastrutture.

Il Patto di stabilità e le regole di finanza pubblica non sono però l’unico limite all’effettiva realizzazione degli investimenti pubblici nel nostro Paese. Al di là della mancanza di risorse e dei vincoli alla possibilità di spendere quelle disponibili, i lavori pubblici sono caratterizzati da un grado di inefficienza troppo elevato e sistematico: tempi lunghissimi e costi che lievitano nel tempo sono le maggiori evidenze della incapacità di progettare buoni interventi e di condurli a buon fine. Quando le risorse sono disponibili, gli importi sono spendibili e i lavori potrebbero essere pagati, questi ultimi– come più volte emerso nel dibattito attuale – o sono di qualità scadente o restano incompiuti.

Anche il FMI, che nel suo recente rapporto annuale colloca al centro delle politiche di rilancio della crescita gli investimenti pubblici, pone l’accento sulla questione dell’efficienza e sottolinea la distinzione tra investimenti effi- cienti, in grado di ripagare il costo e imprimere un impatto positivo alla cresci- ta, e investimenti meno efficienti.

Le possibili vie d’uscita per il rilancio degli investimenti pubblici a favore delle città possono essere così indicate:

a. realizzazione di progetti di trasformazione urbana su aree pubbliche (De- manio pubblico, Ministero della Difesa- Marina Militare) con partenaria- to pubblico-privato e utilizzo della rendita emergente dal mercato per la realizzazione di strutture pubbliche;

b. intervento dei privati attraverso concessioni e finanza di progetto, per progetti (tariffabili) di chiara utilità pubblica, a fronte di una garanzia di aumento di efficienza procedurale pubblica sui tempi di approvazione dei progetti stessi;

c. aumento dell’imposizione fiscale sulle trasformazioni urbane, al livello lo- cale (oneri di urbanizzazione) e nazionale (tassazione dei capital gain da trasformazioni d’uso, agricolo-residenziale, industriale-commerciale, in- dustriale-residenziale): un ambito che nel nostro Paese gode da sempre di una condizione di “paradiso fiscale”. Sarebbe stato meglio iniziare questo processo nel periodo glorioso della crescita delle quantità e soprattutto dei prezzi (1995-2007); ma ancora oggi il settore non presenta una crisi di pro- fittabilità, ma di domanda (ai prezzi del mercato nostrano);

d. utilizzo di istituzioni finanziarie impegnate in opere di interesse pubblico (CDP, investitori istituzionali di lungo termine, Bei) per il finanziamento di operazioni di investimento a fronte di nuova domanda (solvibile) a condizioni non-di-mercato (edilizia pubblica, social housing a forte im- pronta OSP – Obblighi di Servizio Pubblico, residenze temporanee, resi- denze studentesche, residenze per anziani, alloggi sociali in locazione; ge- stione fondi per prestiti immobiliari). Si tratta di ottenere una riduzione del prezzo di vendita/affitto attraverso una riduzione delle aspettative di plusvalori immobiliari/fondiari: costruzione su terreni pubblici, attivazio- ne di un’ imprenditorialità che potremmo chiamare normal profit / low

rent, gestione di provvidenze pubbliche nazionali (PON Città Metropoli-

tane) ed europee (Fondi strutturali 2014-20, obiettivo “inclusione sociale”) eligibili a questo scopo;

e. sarebbe importante una riflessione collettiva sulla possibilità di riattivare capacità di debito in capo ad amministrazioni locali virtuose, facendo una distinzione di obblighi fra due classi di enti: virtuosi e viziosi, appunto, sul- la scorta di quanto si persegue, in ambito finanziario, quando da una im- presa bancaria si scorpora una bad bank.