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Il ruolo degli investiment

Enrico Marelli

2. Il ruolo degli investiment

Declino di lungo periodo e riforme strutturali – La visione tradizionale è

che la crescita è stata bassa, in Italia ed in Europa, a causa della lentezza nell’introduzione delle riforme strutturali: sia nel mercato del lavoro, sia in quello dei beni. Quest’affermazione è vera solo in parte. Le riforme strutturali possono essere utili per sostenere la crescita nel lungo periodo, rafforzare la dinamica del prodotto potenziale e sostenere la produttività. Ma, anche limi- tandoci al lato dell’offerta, tali politiche dovrebbero accompagnarsi ad una ve- ra e rinnovata politica industriale, ad esempio una politica che riesca ad indi- rizzare e stimolare gli operatori privati verso strategie produttive di lungo pe- riodo, poggianti su adeguati investimenti in capitale fisico, umano, in ricerca e costantemente orientate all’innovazione.

La visione neoliberista sostiene inoltre che è necessario un alleggerimen- to delle imposte per stimolare la crescita economica. Certo, un alleggerimento della pressione fiscale, specie sulla produzione e sul lavoro, sarebbe auspicabile anche in Italia nel medio periodo, tenuto pure conto della qualità ed efficienza dei servizi pubblici, da un lato, e dell’abnorme fenomeno dell’evasione fiscale, dall’altro lato. Tuttavia, una riduzione della pressione può essere fattibile, stanti gli attuali vincoli europei e nazionali (come il nuovo art. 81 della Costi- tuzione), solo a due condizioni: (i) che si riesca a condurre un’efficace lotta all’evasione fiscale; (ii) che la spending review cominci a dare i suoi frutti, po- nendo termine agli sprechi (pur presenti in certi comparti del settore pubblico assieme a inefficienze di vario tipo ed a ricorrenti episodi di corruzione). Biso- gna inoltre stare attenti che il taglio delle tasse non comporti un aumento dell’imposizione a livello locale o la soppressione di servizi pubblici essenziali

del welfare state (caratterizzanti il “modello sociale europeo”), mettendo così a repentaglio la stessa sostenibilità sociale, già duramente compromessa da cin- que anni di crisi e di elevata disoccupazione.

La contrazione della domanda aggregata durante la doppia crisi – Il punto

cruciale, già anticipato nel paragrafo precedente, è che nell’area euro – dopo sette anni di stagnazione e lunghe o ripetute recessioni – c’è anche un grosso problema di output gap e di carenza di domanda aggregata.

Molteplici dati empirici mostrano che c’è stato un crollo nella domanda aggregata, in particolare nella domanda interna. Infatti, le esportazioni euro- pee hanno retto, non solo in Germania; gli stessi Piigs nel periodo più recente hanno recuperato competitività, grazie alla “svalutazione interna” (compres- sione di salari e prezzi). Inoltre, una maggiore competitività dei Paesi periferi- ci e quindi il contenimento del Clup non possono passare attraverso il taglio dei salari (in diversi casi già troppo repressi con ovvie conseguenze negative sui consumi) ma solo per mezzo del recupero della produttività. Le politiche indu- striali e del lavoro, come pure gli investimenti pubblici, dovrebbero essere orientati a questo fine. È questa “flessibilità innovativa” la via alta alla compe- tizione nel mondo globale, piuttosto che la compressione dei salari o delle tute- le dei lavoratori.

Il forte calo dei consumi, assieme alla crescente disoccupazione, evidenzia il dramma sociale che attanaglia molti paesi europei. Il tasso di disoccupazione è rimasto ben superiore al 10% (mentre negli Usa si è dimezzato ed è tornato sui li- velli pre-crisi); in Italia ha superato il 13% ed è ancora più alto in Paesi come Gre- cia e Spagna. Il tasso di disoccupazione giovanile persistentemente superiore al 40% pone in evidenza la tragedia di una “generazione persa”.

Il crollo degli investimenti – La componente della domanda che ha fatto ri-

scontrare un vero e proprio tracollo sono gli investimenti. In quasi tutti i Paesi eu- ropei sono crollati sia gli investimenti privati – in molti casi la caduta è stata ini- zialmente causata dalla crisi dall’edilizia, in altri vi è stata una forte contrazione di quelli produttivi dell’industria manifatturiera – sia quelli pubblici.

La figura qui sotto mostra che c’è stata negli anni di crisi (2007-13) una correlazione tra contrazione del Pil e crollo degli investimenti fissi lordi totali: nella zona euro, circa -1,5% il Pil (in media) e -15% gli investimenti; in Italia oltre -8% il Pil (poi ulteriormente diminuito nel 2014) e -25% gli investimenti. Si può notare che gli investimento sono molto diminuiti in tutti i “Piigs” (oltre a Cipro, Lettonia, Croazia); nel grafico non figurano, per motivi di visualiz- zione grafica, due “outlier”, Grecia e Polonia (le cui variazioni degli investi- menti sono state -65% e +15% rispettivamente).

Figura 2 - Dinamica degli Investimenti totali e del Pil durante la crisi

Anche gli investimenti pubblici sono diminuiti in modo significativo (si veda la figura sottostante). In rapporto al Pil si sono ridotti nell’area euro dal 2,6% al 2,1%; una contrazione maggiore in Italia, dal 2,33% al 1,78%. Ridu- zioni molto forti, per cui l’incidenza sul Pil si è ridotta della metà od anche per valori superiori ai due terzi, si riscontrano negli altri Piigs. È interessante rile- vare che nella stessa Germania l’incidenza degli investimenti pubblici sul Pil è rimasta, sia prima che dopo la crisi, tra le più basse, attorno all’1,5%. Una po- litica di rilancio degli investimenti pubblici in Germania, che sarebbe necessa- ria anche considerando lo stato di certe infrastrutture, consentirebbe a quel Paese di giocare almeno in parte il ruolo di “locomotiva”, tanto più utile in quanto negli ultimi anni le politiche d’austerità imposte ai paesi periferici non si sono accompagnate a politiche più espansive negli altri (compresa la stessa Germania che avrebbe potuto permettersi tali politiche, grazie ai surplus di bi- lancio e della bilancia dei pagamenti).

Figura 3 - Investimenti pubblici sul Pil prima e dopo la crisi