Vorrei partire dal bell’intervento di Riccardo Cappellin (2015) e in parti- colare dal modello che chiama “dell’austerità” perché credo che l’Associazione Italiana di Scienze Regionali (vorrei parlare nel ruolo di suo segretario nazio- nale) debba appunto porsi il problema di costruire modelli alternativi a quanto attualmente ci viene proposto dalle istituzioni europee e mondiali. È uno sfor- zo che bisogna fare visti gli esiti, piuttosto discutibili, in cui ci stanno condu- cendo le politiche intraprese. Inizio dicendo che sono d’accordo con lo spirito e le premesse di questa iniziativa. Credo che per contribuire alla ripresa eco- nomica e alla politica industriale e regionale del Paese occorra passare (come recita il titolo della conferenza) dalla “strategia ai progetti” e riflettere sui mo- delli di crescita che l’economia ufficiale ci propina oramai da diversi decenni. Sono d’accordo con chi afferma che il modello dell’austerità sia quello che condiziona le decisioni delle imprese, delle istituzioni pubbliche, dei consuma- tori e che sia alla base dell’attuale stagnazione economica. È un modello che, come è risaputo, viene da lontano, dalla Reaganomics, dal Thatcherism, e trova nella egemonia culturale della Mont Pelerin Society, cioè dell’economia neo- classica, i suoi fondamenti teorici. Questo modello si basa su alcuni assiomi che sinteticamente sono i seguenti:
1. liberazione di ‘risorse’ per consumi e investimenti grazie alla riduzione delle tasse sul lavoro e sui redditi di capitale;
2. ‘aumento della competitività’ per mezzo dell’apertura generalizzata (in- ternazionale) del sistema di mercato e la riduzione della regolamenta- zione dell'attività economica;
3. ‘abbattimento della crescita del debito pubblico’ attraverso il controllo dell'offerta monetaria, la riduzione dell'inflazione, il taglio della spesa pubblica, la privatizzazione dei servizi.
Vorrei criticare questo modello perché credo sia alla base dell’attuale crisi e sia foriero di future disgrazie. È un modello che ha avuto momenti di gloria e che ha prodotto in Inghilterra e USA dei successi evidenti. Ma ciò è stato possibile in un contesto differente, in una situazione di forte disponibilità di risorse finanziarie e di aumento della rendita urbana, che ha sorretto gran parte dello sviluppo recente. Oggi la situazione è molto diversa e il modello sembra reggersi sull’accrescimento del debito pubblico e, là dove eccessivo co- me l’Italia, sulla crescita dell’imposizione fiscale. Il modello è cioè saltato e pertanto una critica è necessaria per individuare nuovi driver dello sviluppo.
1. Comincio dal primo punto. È indubbio che ridurre le tasse, sebbene sia molto attraente (a chi non piace …), si scontra con un sistema di welfare, acquisito nelle coscienze, che ne rende difficile l’attuazione: va bene ridurre le imposte ma non va bene tagliare i servizi o incrementarne il costo rendendoli ‘beni economici’ non da tutti accessibili. Il processo non è quindi pacifico. E così, sia in Europa che in America, alle facili promesse della destra e sinistra liberale si alternano, anche al governo, forze di sinistra e di destra a carattere sociale che disfano, almeno in parte, quanto faticosamente programmato dagli economisti neoclassici. È un continuo avvicendarsi di politiche in una sorta di “tela di Penelope” che rende piuttosto difficile il loro dipanarsi in modo siste- matico. Si aspetta un eroe in grado di portare a termine l’impresa o un Ulisse in grado di interromperne il meccanismo. Resta difficile la privatizzazione dei servizi che aumentandone il prezzo li rende inaccessibili alle classi medio-basse e dà luogo a quel dualismo sociale e territoriale, il cosiddetto “effetto clessi- dra” (Sassen, 2004), sia delle classi sociali che dei territori. All’interno di ciò che resta degli Stati-Mercati -ordinamento istituzionale ed economico sorto da vicende storiche piuttosto complesse che per esigenze di sintesi non indaghia- mo e su cui l’economia riflette poco- si costituiscono sistemi duali formati da nodi connessi alle reti lunghe della competizione internazionale e territori in- terstiziali, che non riescono a inserirsi e padroneggiare le reti di competizione. In questo modello le città e le aree metropolitane hanno degli atout maggiori da porre sul mercato internazionale ma non sono gli unici territori destinatari dello sviluppo: importanti sono i sistemi locali economicamente forti sia attrat- tivi (turistici a esempio) sia facenti parte di catene internazionali del valore che li collocano nella sfera superiore del benchmark competitivo. Altri sistemi pos- sono uscirne non appena nuovi valori (economici e culturali) sorgono dal tes- suto ribollente delle attività e dei territori in competizione. Lo sforzo competi- tivo è continuo e incessante e non lascia margini di riposo e la fatica fatta dagli stati europei nel secolo scorso di uscire dalla selvaggia competizione della forza
sembra contrastata da una selvaggia competizione della ‘forza economica’ che riafferma il principio della ‘volontà di potenza’.
L’Italia entro questo contesto appare molto più fragile degli altri paesi europei perché incapace di programmare il suo futuro e perché maggiormente bloccata dall’enorme debito pubblico che non le consente di attivare spazi di manovra per abbassare le tasse e per produrre risorse disponibili per consumi e investimenti. Gli unici spazi possibili di investimento sono solo di natura sosti- tutiva: buona scuola o infrastrutture, tasse sul patrimonio o sulle imprese, sus- sidi ai giovani o cassa integrazione, ecc..
In questo contesto dove scarsi sono margini di manovra, la necessaria po- litica degli investimenti (chi non vorrebbe gli investimenti…) implica una sele- zione degli stessi verso impieghi in grado di liberare risorse. Gli investimenti de- vono cioè essere pensati in un’ottica fortemente programmatoria e come leva per recuperare risorse nel breve, medio e lungo periodo in sostituzione della politica semplicistica (dal punto di vista sociale ed economico) di riduzione delle tasse che potrà essere fatta solo quando siano stati assicurati i servizi e il welfare pre- sente del nostro complesso sistema sociale. Bisogna passare da una visione key- nesiana degli investimenti, orientata prioritariamente a stimolare la domanda e le esportazioni, a una visione estremamente programmata degli stessi nel tempo orientata a liberare risorse produttive e a ridurre le importazioni.
In questo contesto selettivo io credo che la tematica posta dalla Re- search and Innovation Strategies for Smart Specialisation (RIS3), diventi cen- trale insieme alla tematica della Green economy. La strategia RIS3 elaborata a livello europeo (CE, 2012), si basa sull’innovazione tecnologica e sebbene con- tenga di “tutto e di più” è, a ben vedere, orientata soprattutto a ridurre i ‘costi di transazione’ attraverso l’uso massiccio delle nuove tecnologie ICT, cioè il costo in tempo e denaro per definire un intervento, il costo della ricerca della domanda e dell’offerta di beni e servizi, i costi di ricerca di informazioni.
Oltre alla riduzione dei costi di transazione altre risorse si possono libe- rare dalla riduzione dei costi di produzione. In questo ambito particolarmente importante è la riduzione dei costi energetici attraverso investimenti in tecno- logie appropriate (prodotte cioè possibilmente in Italia) atte alla produzione di energia da fonti rinnovabili. In Europa questa strategia comincia a nostro av- viso con il World Economic Forum del 2007, di Davos, in Svizzera, dove per la prima volta e in maniera esplicita la prestigiosa organizzazione internazionale (formata da grandi imprese, leader politici, accademici illustri e riconosciuti) ha lanciato la sfida della Green Economy (GE) come ‘visione’ intorno cui orientare la crescita e lo sviluppo. In quella occasione Angela Merkel aprendo il Forum individuò nelle fonti energetiche e nel cambiamento climatico “le due più grandi sfide dell’umanità”. Tale concezione dello sviluppo è stata poi de- clinata nel piano strategico di Europa 2020, in cui sono state definite misure di risposta alla crisi attraverso azioni rivolte alla crescita intelligente, alla sosteni-
bilità, alla inclusione sociale e che trovano una sintesi territoriale nella diffu- sione della Smart specialisation e del piano Clima-Energia 20-20-20. L’accelerazione green è evidente sia dal numero di direttive dedicate che dalle azioni messe in campo, valga per tutte la Energy Roadmap 2050 voluta dalla la Commissione europea (CE, 2013) che si pone come obiettivo per il 2050 di ri- durre le emissioni di gas a effetto serra dell’80-95% rispetto ai livelli del 1990.
Ridurre i costi di transazione e di produzione, sia di beni che di servizi (pubblici o privati che siano), implica l’abbassamento dei costi di produzione e dei relativi prezzi e permette l’allargamento della domanda a fasce di più basso reddito. Questa strategia è ben diversa da quella piuttosto miope orientata alla riduzione dei salari e degli stipendi di ingresso nel mercato del lavoro (tanto amata in Italia) che determina, questa sì, un decremento della domanda aggre- gata e l’innescarsi di meccanismi circolari e cumulativi di segno negativo. Ap- punto l’austerità.
In questo contesto serve una programmazione precisa che selezioni i progetti di investimento e superi la logica keynesiana dell’investimento pubbli- co. Occorre invece muoversi verso strategie di investimento pubblico-privato che abbiano alcune caratteristiche: siano in grado di captare risorse nel medio periodo, siano orientate a ridurre le importazioni, siano in grado di rispondere ai problemi ambientali globali di più lungo periodo posti dall’eccessivo innal- zamento della CO2 nell’atmosfera. Il paradigma della «green economy» ((IRES, 2013; 2014), cioè la capacità di liberare risorse reali attraverso il ri- sparmio energetico degli edifici, il riciclo, il più basso consumo energetico dei mezzi di trasporto, il recupero dei materiali, la rifunzionalizzazione dei prodot- ti, la valorizzazione del cibo e delle tradizioni locali, l’implementazione della biodiversità agricola, può rappresentare una nuova sfida per i territori ed è particolarmente promettente per l’Italia.
2. Il secondo punto del modello è inerente l’aumento della competitività. Il modello neoliberista punta verso l’apertura generalizzata (globale) del sistema di mercato e la riduzione della regolamentazione dell'attività economica quale base, piattaforma, entro cui far competere i soggetti economici. La globalizza- zione del mercato in questa prospettiva è generatrice di competitività e riequili- brio tra paesi ricchi e paesi poveri. L’apertura dei sistemi territoriali innesca di- namiche di riequilibrio economico che fanno sì che i tassi di crescita del prodot- to interno lordo siano del 17% in Mongolia (secondo posto nel 2013 nella gra- duatoria mondiale dopo il Quatar), del 15% in Turkmenistan (terzo posto), del 14% in Ghana (quarto posto), ecc.; mentre gli USA sono al centocinquantesimo posto (su 193 Paesi) con poco più del 2%, l’Italia al centosettantunesimo con meno dell’1%, ecc.. I fatti che ci propongono i dati dichiarano che insieme alle tendenze di riequilibrio tra i Paesi ricchi e poveri crescono gli squilibri interni al- le nazioni a dimostrazione che l’approccio neoliberista riarticola le gerarchie in-
ter-nazionali e implementa “l’effetto clessidra” intra-nazionale. Muove cioè ver- so l’obiettivo opposto che si intenderebbe perseguire: si indebolisce l’Occidente incrementandone i conflitti interni latenti (vedi le difficoltà nella U.E.) e si radi- calizza lo scontro all'interno delle nazioni tra ricchi e poveri.
Tali dinamiche sono dettate dalla nuove libertà delle imprese, cominciate a ridosso della metà degli anni settanta, di localizzarsi in aree dove il costo dei fattori produttivi, in particolare del lavoro, è inferiore a quello di provenienza. Parallelamente ciò ha indotto la manodopera a muoversi verso sistemi territo- riali dove più alta é la remunerazione degli skills posseduti. Questo doppio movimento fatto di ‘imprenditori e lavoratori erranti’ i cui fattori sono via via sempre meno remunerati, si porta dietro conseguenze in gran parte inattese: l’ulteriore perdita dell’industria e di gran parte dell’economia reale nelle aree centrali ovvero il loro declino produttivo, l’aumento della concorrenza e l’impoverimento di strati crescenti di lavoro e di imprenditorialità nei settori tradizionali (ma anche in alcune aree innovative), l’incremento dell’urbanizzazione e di squilibri territoriali, l’emergere di nuovi conflitti in un quadro di debolezza crescente del modello del Welfare State.
Per quanto concerne la competizione si passa da transazioni regolate a livello internazionale dalla produttività relativa a relazioni di scambio sempre più regolate dal confronto tra le produttività assolute delle attività e dei terri- tori (Camagni, 2002; 2009). Si passa cioè da una competizione regolata dalla
teoria dei costi comparati e definita dalla specializzazione crescente delle aree e
dei territori a una competizione imposta dalla concorrenza “a 360 gradi”, in cui qualità e prezzo vengono continuamente rimessi in discussione da nuovi soggetti e da nuovi territori. Non è “la fine dei territori” (Badie, 1996) quanto piuttosto il loro calarsi in una economia senza confini, un mercato senza Stato, in reti globali senza un “dentro” e un “fuori”, in una giungla economica dina- mica e accelerata, che premia di volta in volta i territori più coesi e innovativi o più frammentati e a basso costo del lavoro, entro un contesto che nega ogni certezza (Bauman, 1999), ogni forma di sedimentazione, di ricomposizione e, pertanto, di senso.
Se questo processo continua, occorrerà prendere coscienza che si è solo all’inizio di un periodo molto prolungato di crisi per la gran parte dell’Occidente e in particolare per quei sistemi intermedi, come l’Italia, che so- no schiacciati dai più forti e coesi sistemi di innovazione e dai più aggressivi e deregolati sistemi di sfruttamento delle risorse umane e ambientali.
Certo le teorie dello sviluppo locale (distrettuale, dei sistemi locali pro- duttivi, dei sistemi locali territoriali, ecc.) appaiono più congruenti, seppur in- sufficienti, con le produttività relative in quanto tendono a sviluppare un con- cetto di competitività basato sulla specializzazione territoriale, sull’ancoraggio e il radicamento di più lungo periodo, su pratiche tese a valorizzare il contesto delle appartenenze, a ricomporre quadri locali, a rimettere in moto i flussi in-
terni dei reticoli, riarticolare meccanismi distributivi delle risorse, rivitalizzare forze sopite, rivalutare e rimettere in circolazione le proprie matrici storiche, a cercare fissaggi alla continua mutazione dei flussi globali. Non è poco.
Tuttavia i sistemi territoriali locali per non divenire parte, anello inter- cambiabile e sostituibile delle catene internazionali del valore o nodo terminale di catene lunghe di sfruttamento (si pensi alla produzione a monte dei distretti orafi o di alcuni distretti tessili della moda) necessitano di una nuova ricompo- sizione dei mercati alla scala quasi-continentale (Ferlaino, Molinari, 2009), di cui l’Europa Unita è il modello certamente più avanzato. Necessitano cioè di più vasti e protetti ‘mercati interni’ quali spazi intermedi tra i tradizionali Sta- ti-Mercato e la pretesa naïf del Mercato Globale. Questo permetterebbe la ri- proposizione, su scale e frontiere diverse, di nuove relazioni internazionali tra mercati ricardiani, che rilancerebbero forme di cooperazione e di competitività basate sulle produttività relative e interromperebbero la competitività odierna basata sulle produttività assolute.
La globalizzazione genera problemi nel modello sociale occidentale che richiedono, per essere superati, condizioni che vanno in direzione opposta al processo avutosi finora di apertura dei territori. Una nuova chiusura sistemica si rende cioè necessaria ma sarebbe semplicistico quanto “romantico” pensare a una chiusura della sostenibilità economica, sociale o dei cicli ambientali alla scala locale. Entro tale livello possono essere date solo parziali ricomposizioni delle identità e delle appartenenze ma le risposte macroeconomiche vanno cer- cate altrove.
Per interrompere il dispiegarsi del mercato neoliberale occorrono chiu- sure dei sistemi territoriali a una scala più vasta dei tradizionali Stati, con dei confini che possano ridare senso e significato alle produttività relative, sia set- toriali che tecniche, e al complesso dei vantaggi comparati, ponendo fine, o quantomeno arginando, gli elementi più destabilizzanti dell’apertura globale. Tutto ciò significa ridefinire un nuovo progetto economico e istituzionale che contempli al proprio interno aree ricche insieme a aree tradizionalmente peri- feriche e marginali: é il caso dell’U.E. rispetto ai Paesi dell’Est europeo, ma lo stesso accade anche per il Nafta o per l’APEC o il MERCOSUR. Questi nuovi Stati-Mercato potranno far valere i vantaggi della produttività relativa e delle rispettive specializzazioni contro le pure ragioni del basso costo dei fattori e, al tempo stesso, potranno costituire nuovi modelli di crescita, di riequilibrio, di sviluppo istituzionale, culturale. La portata del modello competitivo è chiara: il “secolo americano” sembra finito e stanno nascendo altri centri di capitali- smo regionali in competizione tra loro. I grandi stati e i relativi mercati quasi – continentali sono portatori di modelli differenziati ancora non pienamente strutturati: “Stati Uniti, Europa, Cina, e forse anche America Latina, ognuno sostiene la propria forma specifica di capitalismo. Gli Stati Uniti sono paladini del capitalismo neoliberale, l’Europa difende ciò che rimane dello stato sociale,
la Cina punta su un capitalismo dai ‘valori asiatici’(ovvero autoritari) mentre l’America Latina preferisce il capitalismo populista.” (Žižek, 2014, p.37). Il modello dell’Europa Unita ha in sé questa portata generale di rifondazione e rifuzionalizzazione dei processi globali e in questa prospettiva su di esso occor- re interrogarsi. Manca alla lista l’Africa su cui occorre spendersi in nuove ri- flessioni e proposte. L’AISRe ha cominciato dedicando diversi seminari e una Conferenza, quella di Palermo, al Mediterraneo e ai suoi Paesi limitrofi africa- ni ma gli eventi successivi ne hanno di fatto impedito la continuazione.
3. Il terzo punto del modello riguarda il problema del debito pubblico. La risposta è risaputa: per far rientrare il debito occorre una crescita del PIL superiore alla crescita del debito. Facile a dirsi e difficile a farsi dato che la crisi fiscale dello Stato si è avviluppata in una «trappola fiscale» da cui è difficile uscire (debito = più tasse = meno domanda aggregata = meno produzione = meno contribuzione = più debito), che ha riaperto la questione delle politiche monetarie (l’immissione di nuova liquidità) sebbene a livello europeo e non più nazionale. Si è stabilito che il quadro di riferimento fosse quello della sosteni- bilità economica e ciò ha condotto verso politiche di contenimento della spesa, privatizzazione dei servizi, “vendita” (o svendita) dei cosiddetti “gioielli di fa- miglia”, già da tempo cominciata (trasporti, etere, telecomunicazioni, ecc.).
Molte cose si possono fare che vadano in una direzione diversa: aumen- tare la produttività del pubblico impiego eliminando le sacche di inefficienza, ridurre i costi di gestione (energetici in primo luogo) e di transazione (informa- tizzandone le procedure), migliorarne la qualità e la formazione, selezionare in base a criteri meritocratici e non politici, trattare i reati dei “colletti bianchi” nello stesso modo dei reati di “cronaca nera” (furti e reati contro la persona), ecc.. Nonostante ciò gran parte del settore pubblico continuerebbe comunque a scontrarsi con la cosiddetta «sindrome di Baumol». Si pensi ad esempio alla sanità: per quanto si possano migliorarne le procedure e ridurne i costi essa necessiterà comunque di personale, in proporzione all’aumento della speranza di vita e dell’acutizzarsi delle malattie croniche nelle fasce degli ultra maturi. Un dato per tutti: negli ultimi 50 anni in Europa l’incidenza della spesa sanita- ria sul prodotto interno lordo si è quasi triplicata, portandosi vicino alla soglia del 9% del PIL (il 7 % per l’Italia). Che fare allora?
Poche cose appaiono importanti e innovative.
a. Necessariamente nei settori pubblici ci si dovrà concentrare sul «core» dei servizi delegando gran parte della gestione delle sue parti più periferiche a nuove risorse umane liberate dalla routine del lavoro e liberando nel con- tempo la partecipazione democratica dai suoi costi. Gran parte della So-
cial Innovation dovrà orientarsi cioè verso l’utilizzo organizzato e forte-
mente programmato del volontariato delle fasce d’età mature e in riposo, quelli che potremmo chiamare gli inattivi-attivi, in salute,con una buona
qualità della vita. Gli ‘inattivi-attivi’ sono fasce ricche di esperienza e sa-
voir faire, in grado di fornire servizi diffusi di medio alto rango, ovvero in
quei settori e attività maggiormente soggetti al ‘morbo di Baumol’. Senza questa rivoluzione organizzativa e partecipativa, democratica il sistema del welfare collasserà nel giro di qualche decennio. Un dato per tutti: in Italia il rapporto tra soggetti in età lavorativa e individui over 65 si atte- stava nel 2010 poco sopra il 50%, mentre nel 2060 la previsione è che tale rapporto superi l’80%; di fatto vorrebbe dire che ogni lavoratore in media dovrebbe contribuire mensilmente al pagamento di quasi un'intera pen- sione” (Riva, 2015, p.3). Non si tratta quindi di allungare l’età lavorativa o di ridurne la spesa pensionistica (logica Fornero) quanto piuttosto di organizzarsi diversamente e valorizzare le risorse “a riposo” program- mandone efficacemente i bisogni e liberandole dai circuiti di solitudine spesso innescati dalle forme attuali di inutilizzo e marginalizzazione della terza età.
b. La libera valorizzazione degli “inattivi ancora attivi” in cambio di demo- crazia partecipata comunitaria è certamente un pilastro da programmare ma non è in grado di attivare risorse per nuovi investimenti. Per far questo occorre un ulteriore scambio: partecipazione democratica alle decisioni e nuovi servizi contro risorse investibili raccolte attraverso i nuovi strumenti