Al fine dello sviluppo di una nuova strategia orientata all’innovazione e alla crescita vanno considerate le implicazioni riguardanti la cultura e i modelli di governance delle imprese. La diminuzione e il ristagno degli investimenti ri- guardano una situazione che si deve collegare alla distinzione tra due modelli opposti di cultura aziendale e di governance delle imprese: definibili, da un la- to, come il “modello della austerità”, che mira ai risparmi finanziari e alla soli-
dità patrimoniale, e, dall’altro lato, come il “modello della crescita”, che mira all’innovazione e agli investimenti.
Tale distinzione è analoga alla differenza tra una strategia di investimen- to finanziario mirata al “value” rispetto alla strategia mirata al “growth”. Il primo modello punta alla stabilità-solidità finanziaria, indicata dagli stock nel- lo “stato patrimoniale”, mentre il secondo ad aumentare la profittabilità tra- mite la crescita di medio-lungo termine, indicata dai flussi dei ricavi e dei costi nel “conto economico” dell’impresa. In sintesi, la strategia dell’austerità si ba- sa sul “risparmio” o su un maggiore “sacrificio”, mentre quella della crescita sull’investimento e sull’innovazione o su un maggiore “sforzo”.
Vi può essere, pertanto, il fondato dubbio che le situazioni di inerzia di molte imprese che riducono gli investimenti, quando occorrerebbe invece ri- lanciarli, siano dovute alla qualità dello stile di management e ai modelli orga- nizzativi burocratici che le caratterizzano o che mirano alla costituzione e sfruttamento di rendite finanziarie o monopolistiche di diverso tipo. Ciò sa- rebbe confermato dal fatto che vi sono molte imprese - di varie dimensioni e attività - che sono in crescita, innovano e sono competitive sia all’interno sia sui mercati internazionali. La differenza tra le due categorie di imprese risiede nel grado di impegno, di determinazione; nelle capacità imprenditoriali e ma- nageriali, nei modelli organizzativi che sono la risorsa più critica per il succes- so aziendale.
Difatti, anche in un contesto in cui l’attività di R&S fosse promossa e sostenuta dallo Stato, le imprese possono risultare poco sensibili al trasferi- mento tecnologico e alla innovazione quando la loro cultura organizzativa, de- rivante dallo stile di management, non è predisposta ad accettare le sfide dell’ innovazione. Solo le imprese con una forte carica imprenditoriale verso il cambiamento dimostrano di poter contrastare la crisi, per cui appare di grande importanza promuovere un cultura di impresa che accetti il cambiamento co- me fenomeno ricorrente e fisiologico.
Nelle fasi depressive, la prima preoccupazione degli imprenditori, ma probabilmente soprattutto del management dei grandi complessi industriali, è quella di conservare le “condizioni di sopravvivenza”, assumendo posizioni prevalentemente difensive. Questo orientamento nel caso dei grandi gruppi può derivare anche dal pericolo di take over, visto che alle fasi recessive si as- socia la diminuzione del valore delle imprese. Invece di intraprendere strategie di rilancio, effettuando nuovi investimenti, viene preferita la strada del taglio dei costi, della dismissione degli asset non strategici, del rimborso dei debiti e dell’acquisto delle proprie azioni con la liquidità disponibile.
Quando nei gruppi industriali la cultura dei vertici aziendali è prevalen- temente di natura finanziaria, le condotte difensive si accentuano, con il risul- tato che viene meno la spinta a innovare, a intraprendere percorsi di ristruttu- razione industriale: così i nuovi investimenti per rilanciare il business non sono
visti come una priorità. Invece di rilanciare i propri investimenti fissi, le impre- se possono preferire le strategie di finanziarizzazione.
Mentre la produzione industriale e il PIL sono diminuiti nel 2014 in Ita- lia, gli utili delle grandi imprese sono aumentati e i dividendi a volte risultano superiori agli stessi utili. Le riserve di liquidità alla fine dello stesso anno delle imprese erano di diversi miliardi di euro (ad esempio Atlantia). L’indebitamento finanziario di imprese, come quelle dei concessionari auto- stradali, è diminuito e le imprese (ad esempio Luxottica) intendono procedere al riacquisto di azioni proprie e sostenere il titoli in borsa, invece che aumenta- re gli investimenti o procedere ad acquisizioni. Il decoupling (disconnessione) tra la crisi dell’economia reale e il boom (forse speculativo) dell’economia fi- nanziaria è anche la conseguenza del modello finanziario di management, che è prevalente nelle imprese italiane.
Negli ultimi decenni si è passati dal modello della grande impresa a cul- tura industriale- imprenditoriale (sia tradizionale sia high-tech) al modello dell’ impresa manageriale - finanziarizzata, caratterizzato da riduzione dell’indebitamento, dismissioni di rami meno strategici, riduzione dei costi operativi, aumento del Roe su un ambito più ristretto di attività, abbondante
cash, alto pay-out ratio, investimento nelle azioni proprie, limitata crescita, ma
solo recentemente, delle acquisizioni, limitati investimenti fissi lordi o green
field, sempre minore ricorso al credito a medio e lungo termine, scarsi aumenti
di capitale per non penalizzare gli azionisti. In questo modello, l’obiettivo sot- teso sembra essere quello di assicurare ai manager un’elevata remunerazione, tramite stock option e soprattutto la stabilità delle posizioni di potere evitando, come accennato, le scalate ostili. Anche le medie e piccole imprese familiari ita- liane sembrano essersi adeguate a questo modello di management e, quindi, sono sempre meno interessate a crescere e a fare investimenti, ma anche alle acquisizioni di altre imprese. L’abbondante liquidità invece offrirebbe una oc- casione storica per le acquisizioni e la crescita dimensionale delle PMI italiane, ma non la si vuole sfruttare perché il modello di management non è quello del- la crescita. Al fine del rilancio dell’economia, occorrono comportamenti delle imprese orientati a nuovi investimenti produttivi e all’innovazione. Le imprese devono pertanto smettere di tagliare i costi nelle produzioni esistenti senza cambiarle; ma investire nella progettazione e nelle capacità produttive necessa- rie per crescere in nuove produzioni.
La crescita degli investimenti e delle acquisizioni estere in Italia
Gli investimenti dei gruppi stranieri nel 2014 (fonte Kpmg) nelle opera- zioni di acquisizione sono stati pari a 27 miliardi di euro sul totale di 50 mi- liardi delle operazioni di M&A fatte in Italia. Pertanto, le operazioni di acqui- sizione di imprese italiane su altre imprese italiane sono state meno della metà del totale, mentre la continua riduzione dei tassi di interesse potrebbe rappre-
sentare un’occasione straordinaria per aumentare le dimensioni delle imprese italiane.
Inoltre, a conferma dello scarsa propensione a perseguire una strategia di crescita da parte delle imprese italiane è il fatto che le operazioni fatte all’estero dalle imprese italiane sono state meno della metà (13 mld) di quelle fatte in Italia da gruppi stranieri. Nel periodo 2010-13 delle 10 maggiori opera- zioni ogni anno solo 6 sono state quelle Italia su Estero, 8 sono state Italia su Italia, e quelle Estero su Italia sono state 26. Quindi non sono gli ostacoli esi- stenti in Italia che scoraggiano le decisioni di investimento delle imprese italia- ne, dato che scarsi sono gli investimenti produttivi all’estero e vengono vendu- te anche imprese italiane che hanno all’estero gran parte della loro produzione.
Il processo di disinvestimento dell’industria italiana si è intensificato in questi ultimi anni a testimonianza di un disimpegno diffuso che ha visto un sensibile aumento della presenza del capitale estero nel nostro Paese. I grandi gruppi stranieri hanno acquisito importanti imprese italiane come Loro Piana, Valentino e ancora prima Bulgari, Bottega Veneta e Gucci, Ferrè, Star, Cara- pelli, Giugiaro e Lamborghini, Poltrona Frau, Cova, oltre alle partecipazioni di minoranza acquisite dalla People’s Bank of China in settori strategici come Eni, Enel, Telecom Italia, Prysmian e Fca. Solo poche grandi imprese, come Enel, Assicurazioni Generali, Snam, Italcementi, Eni, hanno compiuto rilevan- ti acquisizioni all’estero. Nelle acquisizioni all’estero vanno segnalate soprat- tutto le imprese medie, che sono quelle più attive, come Campari, Techint, Re- cordati, Brembo, Prysmian, Amplifon, Ima. Le cessioni di grandi imprese ita- liane a favore di imprese estere sono continuate anche in tempi recenti con la vendita di Pirelli a ChemChina, di World Duty Free da parte del gruppo Be- netton alla svizzera Dufry, di Ansaldo Breda e Ansaldo Sts a Hitachi, di Pinin- farina all’indiana Mahindra & Mahindra, di Indesit a Whirlpool, delle acciaie- rie Lucchini all’algerina Cevital.
Il problema non è tanto quello dell’acquisizione del controllo di imprese italiane da parte di gruppi esteri, quanto quello che i ricavi dalla vendita di im- portanti imprese italiane non sono stati utilizzati per fare altre acquisizioni né in Italia né all’estero, ma si sono tradotte in meri acquisti di titoli o in maggio- re liquidità finanziaria.
I fattori esterni e i fattori interni della diminuzione degli investimenti
Va preso atto che a dissuadere le imprese italiane dall’investimento vi sono fattori di natura esterna, quali:
• l’instabilità macroeconomica e finanziaria e la crisi dell’euro e della Ue; • la riduzione del fatturato e della domanda determinata dalla crisi eco-
nomica, che peraltro è stata a sua volta determinata dal crollo degli in- vestimenti oltre che dalle politiche di austerità fiscali;
• la riduzione del credito bancario soprattutto alle PMI e la difficoltà di accedere a canali alternativi;
• la scarsa innovazione da parte delle imprese concorrenti e l’esistenza di accordi collusivi tra le imprese che spinge ciascuna impresa a confidare sulla non urgenza di procedere a innovazioni e a investimenti.
La crisi degli investimenti delle imprese e delle famiglie (soprattutto in abitazioni) è dovuta all’aspettativa di una sostanziale stagnazione della do- manda e della produzione nei prossimi anni, che comprime le aspettative di profitto e di reddito delle famiglie e quindi scoraggia gli investimenti privati. La diminuzione di questi ultimi retroagisce, determinando una diminuzione della domanda e un processo cumulativo negativo tra i bassi investimenti e la bassa crescita della domanda aggregata. Questo effetto è rafforzato da quello negativo determinato dai bassi tassi di inflazione o dalla deflazione che, oltre a rendere arduo l’abbassamento del rapporto debito/PIL, certamente disincenti- va gli investimenti, mentre una moderata inflazione indurrebbe maggiormente le imprese e anche le famiglie a indebitarsi per investire.
Tuttavia, la diminuzione della propensione all’investimento delle impre- se italiane è spiegata anche da una serie di fattori interni, quali:
• una diminuzione della propensione al rischio, connessa con la crisi finan- ziaria, che induce a rinviare impegni futuri;
• una riduzione dell’orizzonte temporale delle decisioni e dei tempi attesi di ritorno dell’investimento troppo ristretti e un’inadeguata valutazione del ruolo che le imprese estere concorrenti stanno attribuendo nello stesso pe- riodo a innovazione e investimenti;
• un modello di corporate governance “difensivo”, come già ricordato, che induce alla riduzione dell’indebitamento tramite i disinvestimenti, che ta- glia le spese in ricerca e sviluppo e che sacrifica gli investimenti rispetto all’obiettivo della liquidità ( peraltro utilizzata per l’acquisto di proprie azioni).
Inoltre, un motivo indubbiamente rilevante della crisi degli investimenti delle imprese è la carenza di capacità e di sforzo di innovazione. Infatti, gli in- vestimenti sono indispensabili per promuovere la ricerca e soprattutto la pro- gettazione tecnico-economica per lo sviluppo di innovazioni di prodotto e pro- cesso. D’altro lato, senza innovazione - che rappresenta il fattore competitivo fondamentale delle imprese nell’economia moderna - gli investimenti in nuove produzioni (greenfield) non possono consentire un rendimento finanziario adeguato o superiore alla media degli impianti e delle produzioni già esistenti (brownfield ).
Pertanto, la ripresa degli investimenti è strettamente collegata all’isolamento della impresa singola nelle sue decisioni di investimento e di in- novazione e la scarsa collaborazione della amministrazione pubblica, delle al- tre imprese, del sindacato e del sistema finanziario e l’esistenza di tempi di rea-
lizzazione troppo lunghi per i problemi di coordinamento con altri attori pri- vati e con il pubblico.
L’investimento dipende anche dalle relazioni di prossimità tra le imprese e dalla ricettività delle singole imprese agli stimoli delle altre imprese che favo- riscono la collaborazione. Infatti, l’investimento congiunto con altre imprese dipende dall’individuazione di un obiettivo comune, dalla creazione di alleanze strategiche, dalle relazioni di fiducia tra le imprese, dalla condivisione di espe- rienze e modelli culturali comuni. L’investimento congiunto e lo sviluppo della creatività e dell’innovazione dipendono da “processi interattivi di apprendi- mento” tra le imprese che a loro volta dipendono dall’interazione tra molte imprese e soggetti con competenze diverse e complementari sia locali che anche esterni alle singole aree e ai settori considerati. Pertanto, la mancata innova- zione e i bassi investimenti delle imprese sono collegabili con la scarsa propen- sione alla collaborazione con le altre imprese, con il sindacato, la pubblica amministrazione e le istituzioni finanziarie, e la mancata partecipazione dell’impresa singola a reti di innovazione con altre imprese della filiera produt- tiva e nel sistema produttivo locale nel quale si sviluppano processi di appren- dimento interattivo e lo sviluppo della creatività e dell’innovazione.
Il ruolo delle politiche industriali nella ripresa degli investimenti privati
Certamente spetta ai soggetti pubblici - Comuni, Regioni e Governo centrale – la definizione di linee di sviluppo della domanda e di regole che con- sentano alle imprese private e alle società di servizi collettivi di ridurre i rischi dei progetti d’investimento di lungo periodo. In questa prospettiva, cruciale è il mancato investimento in progettazione e ricerca e sviluppo delle amministra- zioni pubbliche, incapaci di elaborare un tale programma di sviluppo indu- striale.
Una nuova strategia di politica economica orientata alla crescita rende pertanto indispensabile una stretta collaborazione tra le imprese private e le istituzioni pubbliche e un cambiamento rilevante sia del modello di governance interno alle imprese private che dei modelli di governance delle istituzioni pub- bliche.
Va quindi preso atto che la mancata ripresa della spesa in investimenti fissi delle imprese italiane ed europee è da attribuirsi alla mancanza di un’efficace politica dell’innovazione, su base regionale, che permetta di inqua- drare le decisioni di investimento delle singole imprese in una prospettiva na- zionale a medio termine. Infatti, gli investimenti e le innovazioni dipendono da processi di governance a livello locale e a livello settoriale o da politiche regio- nali e da politiche industriali che sono in grado di spingere alla collaborazione soggetti diversi come le singole imprese dei vari settori, le università, i sindaca- ti, le banche e le amministrazioni pubbliche.
Si aggiunga l’importantissimo il ruolo che - nell’innovazione e nel rilan- cio degli investimenti - possono svolgere le imprese di servizi collettivi a con- trollo pubblico locale (municipalizzate). Spetta ai manager delle imprese l’onere di elaborare progetti industriali molto innovativi e coraggiosi e di fare proposte intelligenti alla politica locale e nazionale e alla comunità dei cittadini e degli utilizzatori (imprese e famiglie). I manager e gli azionisti delle imprese e delle società di pubblica utilità devono definire i piani di servizio che consen- tano di offrire il meglio - in termini di qualità e prezzo - e quindi di porre sul tavolo delle decisioni i piani industriali di sviluppo dei nuovi business, senza aspettare che i soggetti pubblici definiscano loro stessi le linee di sviluppo della domanda. Non si devono attendere nuove “regole” definite “ex ante”, dato che le regole generali possono solo essere definite pragmaticamente sulla base del PPP (partecipazione pubblico-privato o concertazione) e delle diverse pro- poste di piani industriali operativi elaborati dalle singole imprese. Cruciale può essere nel PPP il ruolo delle università sia nella definizione di soluzioni innova- tive sia in una seria valutazione tecnica ed economica dei costi e benefici sociali sul territorio dei piani industriali delle società private.
Dalla vendita delle partecipazioni azionarie degli enti locali nelle Public Utilities, che diminuisce il patrimonio collettivo, è necessario passare alla valo- rizzazione di questo patrimonio con aumenti di capitale destinati a investitori privati, con know-how tecnico e organizzativo maggiore, in modo che la ven- dita sia lo strumento per fare leva su nuovi investimenti fissi lordi che consen- tano lo sviluppo di nuovi servizi qualificati e di infrastrutture.
L’accorpamento delle imprese di servizi collettivi che operano sullo stes- so mercato regionale è necessario non per razionalizzare i costi e le capacità produttive nei business attuali, ma per conseguire le economie di scala con cui espandere il business in campi nuovi nel territorio, come richiesto dai nuovi bi- sogni dei cittadini, e per procedere ad alleanze strategiche anche con MNE e quindi per consentire eventualmente operazioni di internazionalizzazione delle società di Public Utility, che sono rilevanti in una strategia di “rinascita indu- striale” dell’economia italiana.
Spesso si sostiene che molte imprese municipalizzate di servizio pubblico non dispongono dei mezzi finanziari per attivare una politica di sviluppo- né riescono a raccoglierli sui mercati finanziari. In situazioni di eccessivo indebi- tamento va rimosso il vincolo proprietario ad aumenti di capitale e invece della privatizzazione appare opportuno l’aumento del capitale riservato a nuovi soci nazionali ed anche esteri, in modo da reperire nuove risorse per i maggiori in- vestimenti necessari.
In sintesi, prendere atto di questi punti di debolezza è il presupposto per assumere idonee iniziative dirette a contrastarli e superarli, e soprattutto per rendersi conto dei cambiamenti che occorre attivare per mettere la nostra eco- nomia nella condizione di riprendere il percorso della crescita. Se le imprese,
ma anche le banche, si limitano a tagliare i costi, invece di puntare a innovare per migliorare i ricavi, è lecito domandarsi se non siamo in presenza in Italia - a prescindere dai numerosi casi di successo, che fortunatamente non mancano - di una diffusa e grave crisi delle capacità imprenditoriali e manageriali (que- stione in verità poco dibattuta, perché tema “delicato”); e se tale situazione è dovuta ed aggravata dai mercati poco competitivi in cui le imprese meno di- namiche operano, per cui il problema è promuovere un maggior grado di con- correnza.
10. La governance del PPP e il ruolo dell’amministrazione pubblica nelle nuove