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i criteri di assegnazione dei detenuti ai posti di lavoro domestico: le turnazioni

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 72-76)

L’organizzazione del lavoro penitenziario

4. i criteri di assegnazione dei detenuti ai posti di lavoro domestico: le turnazioni

Come abbiamo avuto modo di osservare nel primo paragrafo di questo capitolo, una delle caratteristiche principali del regolamento del 1931 era che rimetteva l’assegnazione dei dete-nuti ai posti di lavoro alla sostanziale discrezionalità della direzione del carcere. L’ammettere o meno i detenuti ad una attività lavorativa o assegnarli ad un lavoro più ambito perché me-glio retribuito o perché portatore di un qualche vantaggio, rientra in quel più ampio potere di distribuzione dei privilegi e delle sanzioni che è indispensabile per il governo di una prigione. Non è un caso infatti che i regolamenti penitenziari italiani, sia quelli del biennio 1860-1862, che quelli del 1891 e del 1931, contenessero una disciplina generica in materia di organizzazio-ne penitenziaria, rimettendo di fatto il compito di stabilire le modalità concrete di gestioorganizzazio-ne del lavoro alla discrezionalità dei singoli istituti.

L’Op ha tentato di superare questa consolidata prassi dettando all’articolo 20 una serie di criteri per l’assegnazione dei detenuti al lavoro. L’amministrazione deve tener conto, infatti, “dell’anzianità di disoccupazione durante lo stato di detenzione o di internamento, dei carichi familiari, della professionalità, nonché delle precedenti e documentate attività svolte e di quelle a cui essi potranno dedicarsi dopo la dimissione”. Nel corso della nostra ricerca empiri-ca abbiamo potuto verifiempiri-care che tali indiempiri-cazioni sono disattese dalla gran parte degli istituti penitenziari italiani. In prima battuta ciò sembra derivare dal fatto che l’amministrazione non raccoglie i dati relativi alla condizione socio-lavorativa dei detenuti necessari per applicare i criteri dettati dall’articolo 20, né all’ingresso del detenuto in carcere né durante l’osservazione scientifica della personalità.

Il colloquio d’ingresso si svolge spesso con modalità superficiali e burocratiche a causa dell’elevato numero di ingressi quotidiani in carcere141 conseguente all’abnorme ricorso alla custodia preventiva142. Gli operatori penitenziari intervistati ritengono che sia proprio questo uno dei fattori che incide maggiormente sulla funzionalità del sistema di registrazione e classi-ficazione dei detenuti all’ingresso. Il direttore della Casa Circondariale di Torino, ma analoghe considerazioni sono state raccolte in tutti gli istituti oggetto d’indagine, riferisce che a dispetto di una popolazione penitenziaria di 1.500 detenuti circa, ogni anno si può arrivare ad avere anche 10.000 ingressi di persone che hanno un tempo di permanenza media di tre giorni. In molti casi si tratta di arrestati che dovrebbero essere condotti nelle camere di sicurezza dei commissariati ma che, per carenza di spazio, vengono portati in prigione. Per ognuno di questi ingressi, tutto lo staff del carcere deve attivarsi per assicurare che il detenuto sia schedato ed assegnato ad una cella, per garantire un colloquio “di primo ingresso” con un psicologo, il quale dovrà valutare se ci sono rischi di condotte autolesive, e un eventuale colloquio con il Servizi per la Tossicodipendenza nel caso in cui la persona si sia dichiara tossicodipendente. L’ingresso

141 Secondo i dati dell’amministrazione penitenziaria, nel 2008 vi sarebbero stati 92.900 ingressi a fronte di un numero 58.127 detenuti presenti al 31.12.2008.

142 Al 30 giugno del 2009 il 51% della popolazione detenuta risultava composta da detenuti in attesa di giudizio (elaborazione su dati dell’amministrazione penitenziaria, www.giustizia.it).

in carcere di un detenuto è un evento che viene gestito in maniera concitata e nel rispetto delle minime ed indispensabili regole e che non lascia il tempo per acquisire informazioni che vadano oltre la trascrizione del verbale di arresto o dell’ordine di carcerazione.

A conferma di quanto appena detto analizziamo i dati ufficiali raccolti dall’amministrazione penitenziaria all’ingresso dei detenuti in istituto e relativi alla loro condizione socio-economica. Nel 2007 erano presenti 48.693 detenuti, dei quali 475 laureati, 2.332 in possesso di diploma di scuola media superiore, 565 di diploma professionale, 16.569 licenza di scuola media inferiore, 1.737 privi di titolo di studio, 836 analfabeti e 17.825 “non rilevato”143. Da tali dati emerge che l’am-ministrazione penitenziaria ignora il livello di istruzione del 36,6% dei detenuti (17.825 su 48.693). Si potrebbe pensare che tale mancanza sia conseguenza di una coincidenza o di un errore dovuto al mancato funzionamento di un software o di un bug nel software di archiviazione verificatosi proprio nel 2007. Purtroppo nel 2007 tutti gli strumenti di raccolta dati erano in piena funzione, non si è dunque trattato di un caso o di un incidente. Anche nel 2006, infatti, la voce “non rileva-to” era al 32,6%, nel 2005 era al 28,9% e così via per tutti gli anni precedenti. Alle medesime scon-fortanti conclusioni si arriva se si analizzano i dati relativi alla condizione lavorativa dichiarata dal detenuto all’ingresso in carcere. Il dato più recente che abbiamo a disposizione è quello del 2004, anno in cui il dato risultava “non rilevato” nel 43,61% dei casi. Dopo il 2004 il dato, probabilmente perché ritenuto poco attendibile dalla stessa amministrazione, non è stato più pubblicato.

Il personale dell’amministrazione penitenziaria non raccoglie neanche informazioni rela-tive alla condizione economica e patrimoniale del detenuto e della sua famiglia. Nel corso della nostra indagine non abbiamo riscontrato alcun caso in cui tra i criteri per l’assegnazione al lavoro si tenesse in considerazione quello dei carichi familiari144. A questo si aggiunga che l’amministrazione penitenziaria non è in rete con i servizi territoriali o con il ministero del lavoro, che potrebbero fornire indicazioni sulle attività precedentemente svolte dal detenuto e sulla sua condizione socio-lavorativa. La cosa più paradossale è che, nella gran parte dei casi, non si tengono in considerazione neanche le eventuali esperienze maturate alle dipendenze della stessa amministrazione in precedenti carcerazioni.

La seconda occasione durante la quale l’amministrazione potrebbe raccogliere le informa-zioni necessarie, è quella dell’osservazione scientifica della personalità. In effetti, è lo stesso Op ad individuare nell’osservazione lo strumento di conoscenza su cui basare il programma di trattamento e, di conseguenza, anche l’assegnazione al lavoro e alle altre attività, come quelle scolastiche o di formazione professionale. Su questo punto gli operatori penitenziari appartenenti all’area educativa che abbiamo intervistato, concordano nel ritenere che nella gran parte dei casi l’osservazione inizia quando il detenuto ha già trascorso la gran parte della pena in custodia preventiva ed è già stato assegnato al lavoro. Essi affermano che, a dispetto

143 Dati dell’amministrazione penitenziaria, www.giustizia.it

144 L’uso di questo criterio dovrebbe comportare per la famiglia del detenuto un onere di produrre la documen-tazione attestante la composizione e la condizione patrimoniale della famiglia; a carico dell’amministrazione quello di verificare la veridicità delle dichiarazioni o della documentazione prodotta.

delle previsioni dell’articolo 20 dell’Op, l’assegnazione dei detenuti al lavoro è di fatto gestita dal personale di polizia, il quale gode di un ampio potere discrezionale. Aggiungono poi una considerazione che getta un’ombra inquietante sul modo in cui viene considerato il lavoro penitenziario: il lavoro penitenziario è un lavoro scarsamente qualificato che non è in grado di dare alcun contributo al trattamento rieducativo del detenuto o anche solo a fargli acquisire delle basilari competenze lavorative145.

Il personale di polizia interrogato sul tema afferma che dei criteri prescritti dall’articolo 20 l’unico utilizzabile è quello dell’anzianità detentiva, anche se in molti casi ne danno un’in-terpretazione restrittiva. L’articolo 20 prescrive che si debba guardare a “l’anzianità di disoc-cupazione durante lo stato di detenzione” intendendo con ciò tutta la detenzione anche se trascorsa in carceri differenti. Nella prassi invece, ogni qualvolta un detenuto viene trasferito da un carcere ad un altro, fenomeno molto frequente a causa del sovraffollamento delle car-ceri delle aree metropolitane, il suo stato di detenzione viene azzerato146.

L’articolo 20, dopo aver indicato i criteri per l’assegnazione, stabilisce anche che “il colloca-mento al lavoro da svolgersi all’interno dell’istituto avviene nel rispetto di graduatorie fissate in due apposite liste, delle quali una generica e l’altra per qualifica o mestiere”. Nella prassi abbiamo riscontrato che il possesso da parte del detenuto di particolari abilità professionali gli consente l’effettivo inserimento nella graduatoria per qualifiche o mestieri. I detenuti che conoscono me-stieri come ad esempio quello dell’imbianchino, del muratore, dell’idraulico, vengono di solito as-segnati ad un gruppo di lavoro denominato Mof (Manutenzione Ordinaria Fabbricato), quelli che hanno esperienze nella ristorazione alle cucine della prigione, quelli con esperienza nell’agricol-tura alle lavorazioni agricole e così via. Normalmente è il personale di Polizia Penitenziaria a for-mare questa graduatoria e a decidere l’eventuale assegnazione a un posto di lavoro qualificato.

Nei fatti, dunque, i criteri di assegnazione indicati dall’articolo 20, il quale si spinge addi-rittura a considerarli come “esclusivi”, sono ampiamente disattesi. Le graduatorie, poi, dovreb-bero essere gestite da una commissione mista e non dal solo personale di polizia, secondo quanto stabilito sempre dall’articolo 20 dell’Op:

per la formazione delle graduatorie all’interno delle liste e per il nulla-osta agli organismi competenti per il collocamento, è istituita, presso ogni istituto, una commissione composta dal direttore, da un appartenente al ruolo degli ispettori o dei sovrintendenti del Corpo di polizia penitenziaria e da un rappresentante del personale educa-tivo, eletti all’interno della categoria di appartenenza, da un rappre-sentante unitariamente designato dalle organizzazioni sindacali più rappresentative sul piano nazionale, da un rappresentante

designa-145 In effetti, se si guardano i dati forniti dall’amministrazione penitenziaria nel 2008, su 12.165 detenuti lavoranti alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria ben 10.067, l’82,8%, sono adibiti a lavori domestici. Questa è la ragione principale per cui il personale dell’area trattamentale tende a disinteressarsi e a lasciare alla poli-zia penitenpoli-ziaria il compito di gestire il lavoro in carcere (infra paragrafo 17).

146 In uno degli istituti analizzati, il Ncp Sollicciano di Firenze, lo stato di detenzione viene azzerato ai fini dell’as-segnazione al lavoro addirittura nel passaggio da un reparto all’altro del medesimo carcere.

to dalla commissione circoscrizionale per l’impiego territorialmente competente e da un rappresentante delle organizzazioni sindacali territoriali. Alle riunioni della commissione partecipa senza potere deliberativo un rappresentante dei detenuti e degli internati, desi-gnato per sorteggio secondo le modalità indicate nel regolamento interno dell’istituto. (corsivi miei)

Nelle intenzioni del legislatore del 1975 gli istituti penitenziari avrebbero dovuto favorire la creazione di lavorazioni di tipo industriale ed artigianale, gestite dalla stessa amministrazione o da privati. La commissione per la formazione della graduatoria avrebbe così potuto scegliere tra una pluralità di attività cui assegnare i detenuti. Il fallimento di questo progetto147 (infra capitolo 3) e la prevalenza del lavoro domestico ha fatto si che il personale educativo, le rappresentanze sindacali e i centri per l’impiego si disinteressassero delle commissioni per il lavoro penitenziario. Anche nei casi in cui le direzioni degli istituti hanno tentato di utilizzare questo strumento, i sog-getti chiamati a far parte della commissione spesso non hanno risposto alle convocazioni.

Il legislatore, nel tentativo di ridurre l’ampia discrezionalità delle direzioni nel gestire il lavoro penitenziario, ha previsto anche un’altro strumento. L’articolo 25 bis, terzo comma dell’Op, intro-dotto dalla legge 296 del 1993, stabilisce che i posti di lavoro a disposizione della popolazione penitenziaria devono “essere quantitativamente e qualitativamente dimensionati alle effettive esigenze di ogni singolo istituto” e che “sono fissati in una tabella predisposta dalla direzione dell’istituto, nella quale sono separatamente elencati i posti relativi alle lavorazioni interne indu-striali, agricole ed ai servizi di istituto”. Nella tabella devono essere indicati anche i posti disponi-bili all’interno come “lavoro a domicilio” nonché le opportunità all’esterno a cui accedere tramite il beneficio dell’ammissione al lavoro all’esterno (articolo 47 decimo comma Re).

Le tabelle dell’articolo 25bis avrebbero dovuto rendere trasparenti e conoscibili il numero dei posti di lavoro e i meccanismi di assegnazione. Ciò era stato previsto anche al fine di su-perare una prassi con cui, al momento dell’entrata in vigore della legge 296, erano distribuiti i posti di lavoro: gli istituti penitenziari aumentavano in maniera fittizia il numero dei posti di lavoro, a prescindere dalla disponibilità dei fondi di bilancio necessari per coprirli. Questo consentiva di ammettere al lavoro un alto numero di detenuti ognuno dei quali lavorava, però, per un numero esiguo di ore. L’intento era quello di spalmare sulla popolazione penitenziaria i pochi lavori realmente a disposizione, che si esaurivano sostanzialmente in quelli domestici (Di Gennaro, Breda, La Greca 1997). Il fatto che il numero dei posti di lavoro reali potesse an-che essere inferiore al numero dei detenuti an-che risultavano assegnati finiva, però, per tenere nascosti i criteri reali con cui si procedeva alla distribuzione del lavoro.

L’articolo 25bis, stabilendo che i posti di lavoro devono essere “quantitativamente e qua-litativamente dimensionati alle dimensioni dell’istituto”, ha posto fine a questa prassi ed

indotto l’amministrazione a utilizzare un nuovo metodo di assegnazione al lavoro, quello delle così dette turnazioni. Esso consiste nell’assumere i detenuti con contratti di part-time verticale: ogni posto di lavoro è diviso tra più di un detenuto, ognuno dei quali viene impiega-to a part-time e per un periodo determinaimpiega-to di tempo. Quesimpiega-to meimpiega-todo consente di dividere tra il più alto numero di detenuti i posti di lavoro, con la duplice conseguenza di abbassare di molto il livello delle retribuzioni percepite e i corrispondenti benefici previdenziali.

L’amministrazione penitenziaria giustifica le turnazioni asserendo che si tratta dell’unico metodo possibile per garantire un più diffuso accesso al lavoro penitenziario. Tale metodo sarebbe anche una risposta al fenomeno dell’elevato turn over dei detenuti che, soprattut-to nelle Case Circondariali, impedisce una stabilizzazione della popolazione detenuta e, di conseguenza, anche dei posti di lavoro148. A tale giustificazione va però obiettato che l’uso di un criterio improntato al massimo livello di flessibilità, come quello descritto, non fa altro che aumentare la già ampia discrezionalità dell’amministrazione nell’assegnazione al lavoro pe-nitenziario. L’amministrazione, infatti, può escludere in qualsiasi momento un detenuto dal lavoro giustificando l’estromissione con la turnazione ordinaria e può in tal modo aggirare a piacimento la graduatoria ex articolo 20.

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 72-76)