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origine delle tutele sociali in carcere

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 134-137)

Carcere e diritti sociali 1. Previdenza ed assistenza sociale

2. origine delle tutele sociali in carcere

Il pieno riconoscimento dei diritti previdenziali ed assistenziali dei detenuti è avvenuto solo nel 1975 con l’approvazione dell’Ordinamento Penitenziario, mentre i regolamenti prece-denti li riconoscevano solo marginalmente.

Come abbiamo visto, nella seconda metà del XIX secolo si era iniziato a diffondere l’uso di assicurazioni sociali private a tutela dei lavoratori. Tuttavia il Regolamento carcerario del 1891 non introdusse alcuna forma di tutela per i detenuti che svolgevano attività lavorative in carcere. Le ragioni di ciò sono da ricercare nella natura e nella disciplina normativa del lavoro penitenziario. Secondo quanto stabilito dal Regolamento, il lavoro penitenziario era afflittivo ed obbligatorio per i detenuti (supra capitolo 2 paragrafo 1) ed era comminato già in sentenza di condanna come parte integrante della punizione. Esso si svolgeva in un’istituzione concepita come completamente isolata dalla società e la cui organizzazione era regolata da norme speciali. Ai detenuti erano imposte attività lavorative che nulla avevano a che vedere con quelle del mondo libero, di conseguenza era impensabile che si potesse riconoscere loro le pur minime garanzie previste per il lavoratori liberi.

Nel 1898 fu istituita per alcune categorie di lavoratori la prima forma di assicurazione sociale pubblica. Solo nel 1904, con il decreto 51 del 31 gennaio, tale assicurazione contro gli infortuni venne estesa a tutte le categorie di lavoratori, inclusi i detenuti lavoranti in car-cere per imprese private. Anche se la sua applicazione ai detenuti è stata spesso oggetto di contestazione (Giulianelli 2008), perlomeno fino all’emanazione di una Circolare Ministeriale dell’aprile 1929 con la quali si stabilì che i detenuti lavoranti per conto dell’Amministrazione o di privati, ad eccezione degli ergastolani, dovevano essere assicurati contro gli infortuni, la vecchiaia e la tubercolosi.238

238 Ai detenuti con mezzi economici propri era anche riconosciuta la possibilità di stipulare polizze vita diretta-mente con l’Inps.

Le novità introdotte dalla Circolare del 1929 sono state successivamente formalizzate dal regolamento del periodo fascista (Regio Decreto Legge 787 del 1931). L’articolo 123 del regolamento riconobbe ai detenuti lavoranti il diritto all’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro, l’invalidità, la vecchiaia e la tubercolosi. Nel fare ciò il regolamento non parificò del tutto la posizione dei detenuti a quella dei lavoratori liberi. Esso non sanciva, infatti, un generale riconoscimento del diritto alla previdenza sociale dei detenuti ma si limitava ad un elenco tassativo di tutele loro applicabili (Ciccotti, Pittau 1987, p. 111). Si tenga presente che il riconoscimento, seppur limitato, di tali diritti fu in parte conseguenza della presenza del-le imprese private neldel-le lavorazioni carcerarie (Giulianelli 2008). Prima di allora, l’assenza di tutele previdenziali era stata giustificata con la peculiarità del lavoro svolto alle dipendenze dell’amministrazione, che aveva finalità punitive ed era improduttivo. L’ingresso in carcere delle imprese private e la cessione in appalto del lavoro dei detenuti fecero assumere al la-voro penitenziario connotati che lo rendevano simile a quello libero e che hanno fatto venire meno anche questa giustificazione.

Secondo Ciccotti e Pittau (1987) l’applicazione dell’articolo 123 del regolamento è andato negli anni incontro a forti limitazioni. Anzitutto a causa di alcune disposizioni di natura am-ministrativa che tendevano a ridurne la portata239, ma anche perché “il regolamento si carat-terizzava come uno strumento giuridico intrinsecamente limitato, poiché non permetteva di estendere ai reclusi una tutela completa alla stregua di quella prevista per il lavoratori liberi. […] La copertura previdenziale non veniva fondata sul rapporto di lavoro bensì considerata come una realtà a sé stante e conclusa, pertanto non suscettibile di estensione” (Ciccotti-Pittau 1987, p.111, vedi anche Neppi Modona 1973).

Nel 1939 il R.dl. numero 636 introdusse importanti novità in campo previdenziale: le as-sicurazioni contro la disoccupazione, la tubercolosi e per gli assegni familiari; integrazioni salariali per i lavoratori sospesi o ad orario ridotto e la pensione di reversibilità a favore dei superstiti dell’assicurato e del pensionato. Mentre i diritti previdenziali dei cittadini liberi ve-nivano in qualche modo estesi, quelli dei reclusi veve-nivano al contrario ridotti. Nel 1940, dopo l’entrata dell’Italia in guerra, il Comitato esecutivo dell’Inps in accordo con l’amministrazione penitenziaria emanò una delibera, il 24 aprile, contenente i criteri di applicazione del decreto 636 ai detenuti. In essa si stabiliva che ai detenuti lavoranti non erano applicabili le norme sulle assicurazioni contro la tubercolosi e la disoccupazione, nonché quelle per la nuzialità e natalità. I detenuti condannati a pene temporanee – gli ergastolani erano così esclusi anche da questa possibilità – avevano diritto solo al versamento di un contributo per l’assicurazione contro l’invalidità e la vecchiaia240.

Neanche con l’approvazione della Costituzione repubblicana vi furono cambiamenti

sostan-239 Ad esempio nel 1940 l’Inps emanò una delibera che escludeva gli ergastolani dall’assicurazione contro la vec-chiaia, l’invalidità e a favore dei familiari superstiti in caso di morte dell’assicurato.

240 Il contributo veniva versato in un’unica misura, pari a quella fissata per la prima classe di salario (Ciccotti e Pittau, 1987, p. 114).

ziali e l’articolo 123 del regolamento restò in vigore con tutti i suoi limiti. Nonostante il diffe-rente trattamento dei reclusi costituisse una palese violazione del principio di eguaglianza e del diritto di tutti i lavoratori alla previdenza sociale, garantiti rispettivamente agli articoli 3 e 38 della Costituzione, la Corte Costituzionale si dichiarò incompetente ad intervenire in materia a causa della natura amministrativa e non legislativa del regolamento carcerario del 1931 (Corte Costituzionale sentenze n. 72 e 91 del 1968 e n. 40 del 1970). L’unico cambiamento degno di nota fu l’estensione, a seguito di un accordo tra Inps ed amministrazione penitenziaria del 1962, a tutti i detenuti del diritto all’assicurazione contro la tubercolosi e, agli ergastolani, di quello all’assicu-razione contro l’invalidità, la vecchiaia e favore dei superstiti (Ciccotti-Pittau 1987).

Solo con l’approvazione dell’Ordinamento Penitenziario (Op) del 1975 si è arrivati ad un pie-no ricopie-noscimento dei diritti previdenziali dei lavoratori. Come abbiamo visto, l’Op considera il lavoro penitenziario un elemento del trattamento rieducativo del detenuto e prevede mo-dalità di organizzazione che dovrebbero renderlo del tutto simile a quello del mondo libero. A tal fine ai detenuti ed agli internati sono “garantiti il riposo festivo e la tutela assicurativa e previdenziale” alla stregua delle leggi vigenti in materia di lavoro (articolo 20 dell’Op)241. È sta-to notasta-to che nell’Op si riconoscono formalmente solo i diritti previdenziali, mentre non si fa alcun accenno ai diritti all’assistenza sociale (Ciccotti, Pittau 1987). Nel disegno di legge origina-rio, in effetti, vi era un riferimento esplicito a questi ultimi poi scomparso nel testo definitivo. Ciononostante ad oggi il diritto dei detenuti e delle loro famiglie all’assistenza sociale non pare essere contestato, perlomeno per italiani e comunitari (infra capitolo 5), dal momento che si tratta di un diritto riconosciuto dalla Costituzione a tutti i cittadini (articolo 38).

L’Ordinamento Penitenziario del 1975 ha imposto all’amministrazione penitenziaria di ver-sare per i detenuti lavoranti alle sue dipendenze i contributi per l’invalidità, la vecchiaia e i superstiti, la disoccupazione, gli assegni familiari e per l’assicurazione contro la tubercolosi. I detenuti lavoranti sono equiparati a qualsiasi altro impiegato non di ruolo alle dipendenze dello Stato, mentre quelli ammessi al lavoro all’esterno sono soggetti alla stessa normativa previdenziale prevista per i lavoratori comuni.

L’attribuzione ai detenuti dei diritti previdenziali non ha comportato che essi potessero finalmente godere dello stesso trattamento riservato ai cittadini liberi. Infatti, l’effettivo godi-mento delle tutele previdenziali passa attraverso il concreto svolgigodi-mento di un’attività lavora-tiva e il versamento dei relativi contributi: quanto più stabile e meglio remunerata è l’attività svolta, tanto maggiori saranno i contributi versati e i diritti previdenziali che si acquisiscono. Ciò considerato, si può facilmente dedurre che le misere retribuzioni previste per il lavoro penitenziario (supra capitolo 3 paragrafo 3) permettono un accesso estremamente limitato alla previdenza sociale.

Sono diverse le ragioni per cui i diritti sociali fanno fatica a varcare le soglie del carcere. 241 Gli articoli 46 e 51 del Regolamento di esecuzione del 1976 stabilivano che i detenuti ammessi al lavoro all’esterno godono dei medesimi diritti dei lavoratori liberi con le sole limitazioni conseguenti all’esecuzione della misura privativa della libertà.

In primo luogo, vi è una spiegazione di carattere storico. I diritti sociali sono diritti che per loro stessa natura creano a carico dello Stato un’obbligazione positiva (Marshall 1955), che storicamente si è concretizzata nella creazione di programmi d’intervento pubblico cui sono destinate ingenti quote del bilancio statale. Come è noto, quella dei diritti sociali è una storia fatta di lotte e rivendicazioni che, soprattutto nel ventennio che va dagli anni 60 ai 70 del XX secolo, hanno portato ad importanti conquiste in tema di diritto al lavoro, allo studio e alla sanità. Nell’ambito del settore penitenziario, però, non vi è mai stato un movimento di lotta e rivendicazione di tali diritti, che tutt’oggi continuano ad essere trattati come delle conces-sioni più che come diritti esigibili e azionabili in sede giudiziaria.

Una seconda ragione della scarsa effettività dei diritti sociali in carcere va ravvisata nel cambio di paradigma e di strategie del welfare state europeo. La storia recente del welfare è caratterizzata, infatti, dall’adozione di nuove politiche sociali basate sull’idea che la cittadi-nanza sociale non può più essere universalista242 e che la spesa sociale pubblica vada conte-nuta (Ferrera 1993, Jessop 1993). Il contenimento della spesa sociale si concretizza spesso nel taglio di quei programmi e quelle spese dedicati agli strati più marginali della popolazione, tra i quali i detenuti, che hanno una minore capacità di fare lobbying, ossia di organizzarsi in gruppi di interesse capaci di contrattare trattamenti sociali vantaggiosi (Caputo 2008).

L’ultima ragione è, invece, il prevalere di nuove politiche penali e penitenziarie che non pongono più al centro del trattamento penitenziario la rieducazione degli autori di reati, ma la loro neutralizzazione e il loro contenimento (Wacquant 2000). Questa tendenza si è tradot-ta nella messa in secondo piano di tutti quegli strumenti del welfare penitenziario (il lavoro, l’istruzione, i benefici a sostegno del reddito dei detenuti e delle loro famiglie, ecc.) non ade-renti al nuovo paradigma penologico.

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 134-137)