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i diritti dei detenuti uti persona: le fonti internazionali 1 Dalle Minimum Standard Rules alle European Standard Rules

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 21-36)

i diritti dei detenuti

1. i diritti dei detenuti uti persona: le fonti internazionali 1 Dalle Minimum Standard Rules alle European Standard Rules

La prima fonte di diritto internazionale ad occuparsi del trattamento penitenziario dei de-tenuti è rappresentata dalle Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners adottate nel 1955 dal Primo Congresso delle Nazioni Unite sulla Prevenzione del Crimine ed il Tratta-mento dei Criminali28. Il testo non consiste in una dichiarazione di diritti del detenuto e non è giuridicamente vincolante, ma si pone il più limitato obiettivo di codificare alcune pratiche trattamentali che erano considerate diffuse e generalmente accettate. Nel prologo al testo si afferma, infatti, che le regole non descrivono nel dettaglio alcun modello di penitenziario ma consistono in principi talmente generali da risultare applicabili nei più diversi contesti geo-grafici, culturali e sociali. Queste affermazioni non devono però ingannarci, scorrendo il testo appare del tutto evidente, infatti, quanto il Congresso si sia sbilanciato a favore di un modello ben preciso di istituzione penitenziaria. Le standard minimum rules (Smr) riflettono il modello di penitenziario che dopo la seconda guerra mondiale si andava affermando nella gran parte dei paesi democratici occidentali e la cui genealogia è stata descritta da Michel Foucault in

Sorvegliare e Punire (1975). Le Smr vanno ben oltre l’indicazione generica di limiti al potere

pubblico di segregare dal momento che ne stabiliscono anche contenuti e finalità. Propongo-no un modello di penitenziario basato su alcune regole base: segregazione cellulare, finalizza-zione alla riabilitafinalizza-zione ed individualizzafinalizza-zione del trattamento, obbligo per tutti i detenuti di lavorare, classificazione e separazione dei detenuti sulla base di pericolosità, età e sesso.

L’articolo 9 impone che la segregazione debba avvenire in celle singole, perlomeno nel pe-riodo notturno, e ammette che solo in casi eccezionali si possa ricorrere a celle-dormitorio, le quali dovranno in ogni caso essere usate per contenere solo detenuti adeguatamente selezio-nati tra quelli in grado di reggere meglio la convivenza a stretto contatto con più persone.

Per quanto riguarda il lavoro, le Smr fanno una scelta ben precisa in favore di un modello di prigione che usi il lavoro penitenziario come strumento di riabilitazione del reo. La storia del Penitenziario si era, sino a quel momento, caratterizzata per la contrapposizione tra chi riteneva che il lavoro fosse uno strumento di afflizione ed emenda del reo e chi lo vedeva, invece, come un mezzo di addestramento in funzione del reinserimento sociale. Le Smr 28 Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners, adottato il 30 agosto 1955 dal Primo Congresso delle Nazioni Unite su Prevention of Crime and the Treatment of Offenders, Un. Doc. A/Cof/611, annex I, Esc. res. 663C, 24 Un. Escor Supp. (No. 1) at 11, Un. Doc. E/3048 (1957), amended Esc. res. 2076, 62 Un. Escor Supp. (No. 1) at 35, Un. Doc. E/5988 (1977).

mettono fine a questa disputa stabilendo all’articolo 71 che il lavoro penitenziario non deve avere natura afflittiva e che deve essere organizzato secondo modalità che lo rendano il più possibile simile al lavoro nel mondo libero. La non afflittività del lavoro non comporta affatto che non possa esser previsto come obbligatorio: esso è considerato come una parte integrante del trattamento riabilitativo che va imposto al detenuto anche contro la sua vo-lontà. L’istituzione carceraria si fa dunque carico non soltanto del compito di sorvegliare e custodire i criminali, ma anche di quello di sviluppare in loro un’attitudine al rispetto delle regole legali e di quelle della convivenza civile. Il lavoro deve essere principio regolatore della vita quotidiana degli individui detenuti, così come di quelli liberi29.

Le Smr all’articolo 58 stabiliscono che “lo scopo e la giustificazione di una condanna al car-cere o ad una simile misura privativa delle libertà è proteggere la società dal crimine. Questo scopo può essere raggiunto solo se il periodo di detenzione è usato per assicurare, qualora sia possibile, che il criminale al momento del suo ritorno in società tenga una condotta rispettosa della legge e sia in grado di vivere in società”. Le Smr, pur presentandosi come un testo di mera codificazione di pratiche trattamentali generalmente accettate, vanno oltre l’obiettivo dichia-rato, dal momento che stabiliscono una gerarchia ben precisa tra le diverse finalità dell’istitu-zione penitenziaria, al cui vertice pongono la neutralizzadell’istitu-zione di soggetti ritenuti pericolosi per la società e, a seguire, come finalità non necessaria ma semplicemente opportuna, la ria-bilitazione dei detenuti. L’accessorietà del fine riabilitativo è, infatti, confermata dall’articolo 59 nel quale si fa implicito riferimento al fatto che esso dipende dalla disponibilità di risorse economiche, professionali e sociali. Mentre la neutralizzazione è un elemento imprescindibile della detenzione ed è conseguenza ovvia del fatto che i condannati vengono deprivati della libertà personale, la riabilitazione dipende dalla contingente disponibilità di risorse che devo-no essere impiegate per realizzare programmi ed attività trattamentali30.

Le Smr si preoccupano poi di porre delle regole a tutela di alcune libertà dei detenuti che, pur non configurando esplicitamente dei diritti31, individuano quantomeno degli obblighi a carico dell’amministrazione penitenziaria. L’articolo 6 enuncia un generico divieto di discri-minazione dei detenuti sulla base di razza, colore, sesso, lingua, religione, opinioni politiche, origini nazionali o sociali, o di status legati alla proprietà, alla nascita o ad altra condizione. L’articolo 8 impone all’amministrazione di classificare e separare i detenuti al fine di proteg-gere i più vulnerabili: i detenuti in custodia cautelare devono essere separati dai condannati 29 La norma delle Smr sull’obbligatorietà del lavoro è formalmente compatibile con le disposizioni della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali del 1950 la quale afferma infatti che “nessuno può essere costretto a compiere un lavoro forzato o obbligatorio” specificando che non è considerato lavoro forzato o obbligatorio “ogni lavoro normalmente richiesto ad una persona detenuta alle condizioni previste dall’articolo 5 della presente Convenzione o durante il periodo di libertà condizionata” (articolo 4).

30 Per realizzare tale obiettivo è necessario utilizzare “tutte le risorse correttive, educazionali, morali, spirituali e tutte quelle altre risorse e forme di assistenza appropriate e disponibili” (articolo 59 Smr).

31 Nelle Standard Minimum Rules non si fa, infatti, riferimento ad alcuna forma di tutela giurisdizionale attraver-so cui i detenuti possano far valere i propri diritti.

definitivi, le donne dagli uomini, i giovani dagli adulti. Gli articoli 10-14 pongono invece tutta una serie di regole finalizzate a garantire la salubrità degli ambienti per la detenzione, mentre gli articoli 22-26 impongono che ogni istituto debba avere un servizio di assistenza medica. Relativamente a quest’ultimo aspetto è importante osservare come le regole pongano l’ac-cento non tanto sul principio della garanzia del diritto alla salute, che peraltro non è neppure menzionato, quanto piuttosto su quello dell’assistenza psichiatrica. Dalla lettura degli artico-li 22-26 emerge con chiarezza, infatti, la visione di un trattamento penitenziario fortemente medicalizzato (“ogni istituto penitenziario deve avere la presenza di almeno un medico il quale deve essere dotato perlomeno di conoscenze psichiatriche di base”, articolo 22) e basato su un servizio sanitario dotato degli strumenti necessari alla diagnosi e al trattamento delle patologie psichiatriche in carcere senza il ricorso a specifiche strutture esterne.

Le Smr, facendo seguito ad analoghe previsioni contenute nell’articolo 3 della Conven-zione Europea sui diritti dell’uomo32 e dall’articolo 5 della dichiarazione Universale dei di-ritti dell’uomo33, stabiliscono che le punizioni disciplinari non possono consistere in tratta-menti inumani, crudeli o degradanti (articolo 31)34: la privazione della libertà comporta di per sé sofferenza alla quale non deve aggiungersene altra ingiustificata.

L’articolo 4 prevede che devono essere effettuate periodiche ispezioni che verifichino le reali condizioni in cui si svolge la detenzione. Non si specifica, però, se le ispezioni devono essere condotte da autorità indipendenti o dalla stessa amministrazione penitenziaria.

Alla luce delle osservazioni fatte sinora possiamo affermare che le regole adottate dal Congresso delle Nazioni Unite si pongono il limitato obiettivo di umanizzare il trattamento e di porre un freno al potere delle amministrazioni penitenziarie. Non bisogna però dimen-ticare che il modello elaborato dalle Smr consente, nonostante l’introduzione di taluni im-portanti principi, l’adozione di un regime di detenzione estremamente severo. Le numerose norme di forte ispirazione garantista, su tutte si pensi a quella contenuta all’articolo 5735

secondo la quale non devono aggiungersi ulteriori sofferenze all’afflizione derivante dalla privazione della libertà, si trovano a coesistere con altre che sembrano andare in direzione opposta, come quella sull’obbligatorietà del lavoro penitenziario o quella sull’isolamento36. 32 Roma 4 Novembre 1950, esecutiva in Italia con legge 848 del 4 agosto 1955.

33 Adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948.

34 A questa regola generale l’articolo 32 pone però un limite. È ammesso, infatti, l’isolamento e la riduzione del vitto in caso di violazioni disciplinari, anche se entrambe le sanzioni possono essere inflitte solo sotto la su-pervisione di un medico.

35 L’articolo 57 recita: “Imprisonment and other measures which result in cutting off an offender from the out-side world are afflictive by the very fact of taking from the person the right of self-determination by depriving him of his liberty. Therefore the prison system shall not, except as incidental to justifiable segregation or the maintenance of discipline, aggravate the suffering inherent in such a situation.”

36 L’articolo 32 delle Smr si limita a stabilire che l’isolamento può essere disposto previo accertamento da parte di un medico che il detenuto si trova in condizioni di salute tali da poterlo reggere. Non è previsto alcun limite di durata, né indicati i casi in cui esso può essere disposto. Come vedremo, il Comitato per la prevenzione della Tortura e dei trattamenti inumani e degradanti ha stabilito, invece, che l’isolamento deve essere usato come extrema ratio e per brevi periodi. L’Ordinamento penitenziario italiano ha stabilito, invece, che l’isolamento disciplinare non possa durare per più di dieci giorni (articolo 39).

Le Smr hanno introdotto una metodologia per il coordinamento internazionale delle regole e dei principi base relativi al funzionamento dei poteri dell’amministrazione peniten-ziaria, che ha avuto un seguito nelle European Prison Rules (Epr)37. Le Epr sono state adottate con Raccomandazione Numero R(87)3 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 febbraio 1987 e sono state sostituite di recente con la Raccomandazione Numero R(2006)2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dell’11 gennaio 2006. L’ultima versione del-le Epr ha segnato il passaggio da un modello che metteva al centro del trattamento pe-nitenziario il rispetto della dignità umana e la riabilitazione dei condannati, ad uno che è incentrato, invece, sul rispetto dei diritti fondamentali dei detenuti e sulla minimizzazione degli effetti negativi della reclusione in un’istituzione totale. Le due versioni delle Epr sono espressione di due culture penologiche che concepiscono in maniera parzialmente differen-te gli obiettivi dell’istituzione penidifferen-tenziaria.

Le Epr del 1987, alla stregua delle Minimum Standard Rules, non procedono alla codifica-zione di diritti dei detenuti ma si rivolgono esclusivamente alle amministrazioni penitenzia-rie dei Paesi membri del Consiglio d’Europa. Una della ragioni di tale scelta deriva dal fatto che lo stato detentivo comporta un tale assoggettamento dell’individuo all’istituzione da renderlo completamente dipendente per ogni sua necessità dall’operato dell’amministra-zione. L’enunciazione di un qualsivoglia diritto sarebbe, nell’ottica degli estensori delle Epr del 1987, destinata a restare una vuota affermazione di principio se non si prevedessero corrispondenti obblighi a carico dell’amministrazione ed adeguati strumenti di verifica.

Le Epr ricalcano struttura e contenuti delle regole poste dalle Nazioni Unite nelle Smr pur rappresentandone un decisivo avanzamento in senso garantista. La prima parte delle regole contiene alcuni principi guida cui tutti gli Stati aderenti sono tenuti. L’articolo 1 sta-bilisce che la deprivazione della libertà personale debba avvenire in condizioni materiali e morali tali da assicurare il rispetto della dignità umana. L’articolo 2 sancisce il principio della non discriminazione dei detenuti sulla base di razza, genere, colore, lingua, religione, opinio-ni politiche, nazionalità, origiopinio-ni sociali o di altri status. L’articolo 3 afferma che il trattamen-to penitenziario deve incoraggiare l’adozione da parte del detenutrattamen-to di comportamenti re-sponsabili e rispettosi delle regole della convivenza in modo da facilitarne il reinserimento sociale. Gli articoli 4 e 5 stabiliscono che gli Stati devono assicurare un controllo giudiziario volto garantire il rispetto della legalità nelle istituzioni penitenziarie.

Le Epr del 1987 pongono, da un lato, regole volte ad assicurare che il regime detentivo non degeneri in trattamenti che violino la dignità dei detenuti e, dall’altra, norme che stimo-lano l’adozione di un trattamento finalizzato alla riabilitazione ed al reinserimento sociale. Il concetto di dignità umana non è definito in maniera esplicita38, anche se che è ricavabile 37 Adottate con Raccomandazione Numero R(87)3 dal Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa il 12 Febbraio 1987. Sostituite di recente con la Raccomandazione Numero R(2006)2 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa dell’11 gennaio 2006.

38 L’articolo 65 delle Epr si limita stabilire genericamente che le condizioni della detenzione “devono essere compatibili con la dignità umana e con standards accettabili dalla comunità”.

dall’interpretazione sistematica delle norme. In prima battuta si può osservare che la dignità umana è definita in negativo da una serie di divieti posti all’amministrazione penitenziaria. Gli articoli che vanno dal 14 al 25 stabiliscono, infatti, regole finalizzate a garantire che le condizioni materiali di detenzione non violino la dignità dei detenuti. I luoghi di detenzione devono essere salubri ed igienici (articolo 15), deve essere garantito un accesso alla luce naturale (articolo 16), i servizi sanitari devono essere igienici e facilmente accessibili (articoli 17-18). I detenuti devono essere messi in condizione di poter curare la propria igiene perso-nale, deve essere assicurato loro un vestiario adeguato alle condizioni climatiche ed un vitto idoneo a garantire buone condizioni di salute (articoli 20-25).

La dignità umana può essere violata, inoltre, da un regime detentivo basato sulla vio-lenza fisica. Le sanzioni disciplinari, di conseguenza, non possono consistere in punizioni corporali o collettive. È fatto divieto di usare la cella d’isolamento scura (senza luce naturale ed artificiale) o di qualsiasi altra tecnica di punizione che consista in “trattamenti inumani e degradanti”39 (articoli 33-38). L’uso della forza e di strumenti coercitivi, quali ad esempio ma-nette o catene, devono essere ridotti a casi di estrema necessità (articoli 39-40). La violenza, però, oltre che dagli agenti preposti alla custodia, può provenire anche dagli stessi detenuti. Per tale ragione gli articoli 7-13 impongono la classificazione e la separazione detenuti sulla base del genere, dell’età, della posizione giuridica (detenuti definitivi e in attesa di giudizio) e della pericolosità sociale (articoli 7-13).

Le Epr, oltre a porre limiti e divieti al potere dell’amministrazione penitenziaria, stabilisco-no anche delle stabilisco-norme finalizzate a stimolare l’adozione di pratiche detentive che favoriscastabilisco-no la riabilitazione dei detenuti. L’articolo 64 afferma che la deprivazione della libertà costitui-sce una punizione in sé e che le condizioni della prigione e il regime detentivo non devono aggiungere, pertanto, ulteriori sofferenze. Per assicurare il rispetto di tale principio, il regime detentivo deve essere organizzato in maniera tale da ridurre al minimo le differenze tra la vita in carcere e quella del mondo libero. Si deve prevedere un insieme di attività (lavorative, d’istruzione o di natura religiosa) che sviluppino le capacità inespresse e modifichino le atti-tudini individuali dei detenuti, per assicurarsi che essi mantengano un comportamento rispet-toso delle regole una volta scarcerati. Secondo gli estensori delle Epr, dunque, la dignità dei detenuti non è tutelata solo evitando che siano sottoposti a trattamenti inumani e degradanti, ma anche garantendo loro un programma riabilitativo che minimizzi gli effetti desocializzanti del carcere (articolo 65, lettera b) e favorisca il reinserimento sociale (articolo 65, lettera c).

Apparentemente le Epr del 1987 sembrano confermare la caratteristica di fondo del modello delle Smr, le quali, come abbiamo visto, ponevano l’accento proprio sulla finalità riabilitativa del carcere. A ben guardare è proprio su questo aspetto che invece le Epr se ne differenziano maggiormente, dal momento che abbandonano il paradigma special preventi-vo basato sull’idea della cura e riabilitazione e s’ispirano al principio di risocializzazione del 39 Norme con contenuto simile sono presenti nell’articolo 3 della Convenzione Europea sui diritti dell’uomo e

detenuto. Le Smr concepivano un modello di prigione che aveva come obiettivo la riforma del detenuto e la produzione del “cittadino lavoratore”. Infatti, il detenuto era obbligato a lavorare e come corrispettivo riceveva l’accesso in carcere a servizi socio-sanitari minimi e programmi trattamentali che avevano l’obiettivo di educarlo alla vita nel mondo libero. Que-sta vocazione dell’istituzione penitenziaria alla riforma del detenuto non scompare nelle Epr, ma viene mitigata da un approccio più pragmatico. Gli estensori delle Epr ritengono che una prigione chiusa al mondo esterno e non in rete con le agenzie pubbliche e private del welfare sia destinata a fallire nella sua missione riformatrice. S’immagina così una prigione aperta alla società civile che lavori per ridurre al minimo gli effetti desocializzanti che la reclusione ine-vitabilmente produce ed a migliorare le chances di reinserimento dei detenuti a fine pena.

Passiamo ora all’analisi delle Epr del 2006. Il nuovo testo presenta una novità sostanziale evidente già nei primissimi articoli. Le norme non si rivolgono più alle amministrazioni delle prigioni, come facevano le Smr del 1955 e le Epr del 1987, ma prendono le mosse dal ricono-scimento dei diritti inalienabili degli individui. Il cambiamento di paradigma è affermato già all’articolo 1 delle Epr il quale stabilisce che “tutte le persone private della libertà devono essere trattate con rispetto per i loro diritti umani” e che ”conservano tutti i diritti che non sono esplicitamente limitati dalla sentenza di condanna”. I limiti al potere delle amministra-zioni penitenziarie non derivano più solo da raccomandaamministra-zioni o da standards trattamentali genericamente ispirati al rispetto della dignità umana, ma dal riconoscimento formale dei diritti dei detenuti. Pur non essendovi un richiamo esplicito alle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, questo può considerarsi implicito nel riferimento che l’articolo 1 fa al “rispetto dei diritti umani”. Si tenga poi presente che tali convenzioni fanno comunque parte dell’ordinamento giuridico europeo, dal momento che il Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea40, ha stabilito che “l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (articolo 6.2) e che “i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uo-mo e delle libertà fondamentali e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali” (articolo 6.3)41. 40 Pubblicato nella gazzetta ufficiale n. C 115 del 09/05/2008.

41 La norma contenuta nell’articolo 6 del Trattato non è una mera enunciazione di principio dal momento che lo stesso trattato all’articolo 7 prevede uno specifico meccanismo sanzionatorio. L’art 7 del Trattato recita “1. Su proposta motivata di un terzo degli Stati membri, del Parlamento europeo o della Commissione euro-pea, il Consiglio, deliberando alla maggioranza dei quattro quinti dei suoi membri previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare che esiste un evidente rischio di violazione grave da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2. Prima di procedere a tale constatazione il Consiglio ascolta lo Stato membro in questione e può rivolgergli delle raccomandazioni, deliberando secondo la stessa procedura. Il Consiglio verifica regolarmente se i motivi che hanno condotto a tale constatazione permangono validi. 2. Il Consiglio europeo, deliberando all’unanimità su proposta di un terzo degli Stati membri o della Commissione europea e previa approvazione del Parlamento europeo, può constatare l’esistenza di una violazione grave e persistente da parte di uno Stato membro dei valori di cui all’articolo 2, dopo aver invitato tale Stato membro a presentare osservazioni. 3. Qualora sia stata effettuata la constatazione di cui al paragrafo 2, il Consiglio, deliberando a maggioranza qualificata, può decidere di sospendere alcuni dei diritti derivanti allo Stato mem-bro in questione dall’applicazione dei trattati, compresi i diritti di voto del rappresentante del governo di tale

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