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il lavoro come strumento di controllo dei detenuti

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 69-72)

L’organizzazione del lavoro penitenziario

3. il lavoro come strumento di controllo dei detenuti

Prima di passare ad analizzare la disciplina dell’organizzazione del lavoro e le modalità di distribuzione dei posti di lavoro tra i detenuti, è bene fare alcune considerazioni circa la reale natura del lavoro penitenziario. Nelle intenzioni del legislatore del 1975, il lavoro penitenziario avrebbe dovuto avere un contenuto riabilitativo, avrebbe dovuto funzionare come “un mecca-nismo che trasforma il detenuto violento, agitato, irriflessivo in un elemento che gioca il suo ruolo con perfetta regolarità” (Foucault 1975, p. 264). Dietro l’affermazione secondo la quale le modalità di organizzazione del lavoro penitenziario devono “riflettere quelle del lavoro nella società” (articolo 20 Op), vi era, infatti, l’idea che l’istituzione penitenziaria avesse il compito di far interiorizzare ai detenuti il valore del lavoro come condizione imprescindibile della vita in società. L’assegnazione dei detenuti al lavoro sarebbe parte di quel “programma individualiz-zato di trattamento” che dovrebbe restituire alla società dei buoni cittadini. Questo progetto non è mai divenuto realtà al punto da far scrivere Pavarini, già nel 1983, di crisi della pena “utile” e di “pena senza scopo” svuotata di ogni contenuto rieducativo e pedagogico (Pavarini 1983). Coma abbiamo visto, oggi la stessa amministrazione penitenziaria137 ammette che il trattamen-to è ridottrattamen-to alla programmazione di attività che hanno il solo scopo di riempire i tempi morti della detenzione, rendere meno afflittiva la routine del regime detentivo e ridurre in parte gli effetti potenzialmente devastanti della segregazione carceraria.

Il fallimento del progetto di riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975 ha avuto riflessi importanti anche sulle modalità di organizzazione dei regimi detentivi e sulle tecniche di man-tenimento della sicurezza e dell’ordine all’interno delle prigioni. Nel disegno originario dell’Op le attività trattamentali (lavoro, istruzione, formazione, attività ricreative, sportive, ecc.) avreb-bero dovuto indurre i detenuti ad aderire alle regole dell’istituzione penitenziaria. La possibilità di ottenere privilegi e vantaggi attraverso una buona condotta li avrebbe piegati alle necessità dell’istituzione penitenziaria e avrebbe dovuto creare un clima pacificato e non violento138. 137 Circolare Dap, numero 0394105 del 2003, vedi supra capitolo 1 paragrafo 5.

138 L’articolo 70 delle Standard Minimum Rules del 1955 stabiliva, infatti, che “systems of privileges appropriate for the different classes of prisoners and the different methods of treatment shall be established at every

La mancata attuazione di questo disegno ha non soltanto ridimensionato drasticamente le ambizioni dell’istituzione penitenziaria, ma ha ridotto il novero degli strumenti utilizza-bili per il contenimento della violenza e la prevenzione del pericolo di fuga dei detenuti. Di conseguenza il personale di custodia, investito del compito primario di garantire la sicurezza, ricorre ai pochi mezzi che ha a disposizione: sanzioni disciplinari e assegnazione al lavoro pe-nitenziario. Facciamo un esempio che può aiutare a comprendere affondo il funzionamento di questo meccanismo: l’assegnazione al lavoro di un detenuto che manifesta insofferenza al regime detentivo può essere utilizzata per evitare che tale insofferenza degeneri in atti di autolesionismo o in condotte etero aggressive. In questo caso il lavoro non risponde ad una fi-nalità riabilitativa ma solo ad esigenze di sicurezza. Questo metodo innesca, però, una spirale di violenza: i detenuti che non riescono ad accedere al lavoro penitenziario, infatti, ricorrono spesso ad atti di autolesionismo per ottenere un posto di lavoro139.

Come mostreremo nel paragrafo dedicato ai criteri di assegnazione dei posti di lavoro in carcere, il lavoro penitenziario ha una funzione di controllo, dal momento che fornisce al personale uno strumento per assicurare le esigenze di custodia e sicurezza. Tale concezione del lavoro penitenziario presuppone una filosofia del trattamento che, messo completamente da parte il paradigma riabilitativo, ha il solo obiettivo di individuare e prevenire il crearsi di contesti ambientali e situazioni che possano generare disordini ed episodi di violenza. Tale approccio situazionista al controllo si realizza mediante l’uso di tecniche che non sono forma-lizzate, ma che sono acquisite e trasmesse per via esperienziale dagli operatori penitenziari i quali, pur essendo formalmente legati ai precetti dell’Ordinamento Penitenziario, si sono adattati ad un contesto nel quale l’unico obiettivo concreto percorribile è quello del mante-nimento dell’ordine e della sicurezza.

Questo approccio è molto dibattuto nella cultura penitenziaria anglosassone. Richard Wortley, nel suo Situational prison control (2002), tenta una concettualizzazione del “con-trollo situazionista degli ambienti detentivi” che definisce quel complesso di tecniche fina-lizzate a prevenire la violenza. Il lavoro di Wortley è espressione di una cultura penitenziaria che, superato il paradigma riabilitativo, persegue il solo obiettivo di individuare gli strumenti più appropriati per garantire a sicurezza140. Infatti, a proposito delle attività trattamentali Wortley (2002, p. 95) sostiene che:

i programmi di attività delle prigioni includono interventi tratta-mentali, istruzione, formazione professionale, lavoro, sport ed

institution, in order to encourage good conduct, develop a sense of responsibility and secure the interest and co-operation of the prisoners in their treatment”.

139 Uno studio condotto da Buffa (2003) mostra come il 34% dei casi gli atti di autolesionismo, registrati nel car-cere di Torino nel 2003, erano strumentali a richieste di varia natura, mentre solo nel 17.8% essi dipendevano da motivazioni di natura esistenziale.

140 Ellis (1993) ha mostrato che i detenuti coinvolti in attività lavorative domestiche all’interno degli istituti commettono meno infrazioni disciplinari e tendenzialmente non sono coinvolti in episodi di violenza, men-tre DiIulio (1998) ha evidenziato come l’aumento delle attività che i detenuti svolgono in comune, possa far crescere le occasioni di contatto e di scontro violento.

attività ricreative. La gran parte di questi programmi non hanno l’obiettivo esplicito di facilitare il controllo, di solito sono giusti-ficati in termini dei loro presunti effetti terapeutici o riabilitativi. Ciononostante, da un punto di vista situazionista tali programmi possono aiutare il controllo perché scandiscono la giornata dei re-clusi e gli impongono una routine.

L’approccio situazionista sposta l’oggetto del controllo dal detenuto al contesto ambien-tale in cui egli agisce e vive quotidianamente. Nel fare ciò, però, non prende minimamente in considerazione la qualità della vita dei detenuti e il contenimento degli effetti desocializzanti e lesivi dell’integrità psicofisica prodotti dal carcere. Infatti, se l’unico obiettivo dell’istitu-zione è la prevendell’istitu-zione della violenza, si può legittimare l’uso di qualsivoglia strumento che permetta di raggiungere tale scopo, anche se questo comporta restrizioni ed afflizioni parti-colarmente severe.

Il lavoro penitenziario, oltre a dare un contributo al controllo, ha anche una peculiare natura assistenziale. Come vedremo, infatti, esso è utilizzato per distribuire occasioni di gua-dagno con il fine di alleviare lo stato di indigenza dei detenuti. Secondo la filosofia delle

Standard Minimum Rules e dell’Ordinamento Penitenziario esso avrebbe dovuto avere, però,

la funzione di insegnare al detenuto l’etica del lavoro e della produttività. Questa ambizione dell’istituzione penitenziaria è stata ben descritta da Foucault (1975, p. 265): “il lavoro per mezzo del quale il condannato sovviene ai propri bisogni riqualifica il ladro in operaio docile. Ed è qui che interviene l’utilità di una retribuzione per il lavoro penale; essa impone al dete-nuto la forma morale del salario come condizione della sua esistenza”.

Come vedremo, il salario dei detenuti oltre ad essere di quantità inferiore a quello dei lavoratori liberi, non ha neanche la medesima “forma morale”. Esso è, infatti, il frutto di lavo-ri scarsamente qualificati, non paragonabili a quelli che si svolgono nel mondo libero (infra capitolo 3, paragrafo 3), che i detenuti si dividono a rotazione per soddisfare alcuni dei loro bisogni primari. Come mostreremo nel capitolo 4, la peculiarità del salario dei detenuti deri-va principalmente dal fatto che esso non consente l’accesso alle prestazioni del welfare che normalmente seguono allo svolgimento di un’attività lavorativa. Esso permette, infatti, un accesso ridotto a prestazioni sociali di natura meramente assistenziale, qualitativamente e quantitativamente inferiori a quelle previste per i lavoratori liberi.

La natura assistenziale del lavoro penitenziario risponde, però, anche ad esigenze di tipo custodiale. La gran parte dei detenuti vive in condizioni di estrema povertà ed utilizza le re-tribuzioni per acquistare beni di prima necessità. I detenuti che lavorano, o quelli che ricevo-no aiuti dalla famiglia, tendoricevo-no, per una regola di solidarietà ricevo-non scritta, a condividere con i compagni di cella i beni che acquistano. Di conseguenza, le direzioni distribuiscono i pochi posti di lavoro disponibili nella maniera più diffusa possibile all’interno delle sezioni detentive attraverso il meccanismo delle “turnazioni” (infra paragrafo 4), con l’obiettivo di evitare la crea-zione di sacche di povertà e di deprivacrea-zione estrema che facilmente potrebbero degenerare in manifestazioni di protesta, compromettendo la sicurezza degli istituti.

Nel documento Carcere e diritti sociali (pagine 69-72)