L’organizzazione del lavoro penitenziario
2. obbligatorietà e non afflittività del lavoro penitenziario
L’Op del 1975 distingue tre diverse tipologie di lavoro. In primo luogo, vi è il lavoro
do-mestico che è la forma di lavoro più diffusa e praticata: consiste nello svolgimento di attività
necessarie a garantire i servizi essenziali dell’istituto (pulizia, cucina, barberia e manutenzione dei fabbricati). In secondo luogo, vi sono le lavorazioni, che sono delle attività di tipo pro-duttivo, artigianale ma anche industriale, che possono essere organizzate e gestite in carcere dall’amministrazione penitenziaria, da altre istituzioni pubbliche o da privati. Esiste, infine, la possibilità del lavoro extramurario nei casi previsti dall’articolo 21 Op e nell’esecuzione di una delle misura alternative alla detenzione, come la semilibertà (articolo 48 Op), l’affidamento in prova ai servizi sociali (articolo 47 Op) o la detenzione domiciliare (articolo 47ter Op).
Il lavoro all’interno del penitenziario (sia quello domestico che le lavorazioni) può essere svolto alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria o di un’impresa privata. La distin-zione non è di poco conto, perché, nel primo caso, si applicherà la disciplina speciale previ-sta dall’Op, mentre nel secondo quella previprevi-sta per i lavoro comune. In questo paragrafo e in quelli successivi ci occuperemo solo del lavoro domestico e delle lavorazioni svolte alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Tratteremo separatamente la disciplina delle lavorazioni svolte alle dipendenze di privati e il lavoro extramurario.
Il lavoro penitenziario alle dipendenze dell’amministrazione ha una natura ambigua. L’Op stabilisce, infatti, che esso è obbligatorio per i detenuti ma che esso non deve essere afflittivo. Il lavoro, dunque, non è più inteso come uno strumento per infliggere sofferenza ed emendare le colpe del condannato.
La non afflittività del lavoro (articolo 20 comma 2 Op) comporta a carico dell’amministra-zione penitenziaria un’obbligadell’amministra-zione negativa ed una positiva. La prima consiste nell’obbligo di astenersi dall’organizzare forme di lavoro che abbiano la sola finalità di arrecare sofferenza e deriva dal generale divieto di porre in essere trattamenti inumani e degradanti (articolo 27 Costituzione). La seconda consiste, invece, nell’obbligo di attivarsi per organizzare il lavoro secondo modalità che non lo facciano diventare improduttivo e fine a se stesso (articolo 4. della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen-tali del 1950) e che lo rendano quanto più possibile simile a quello del mondo libero al fine di facilitare il reinserimento dei detenuti a fine pena (articolo 20 Op e articolo 72 Standard
Minimum Rules).
La non afflittività coincide così, in parte, con il divieto di infliggere punizioni o sanzioni disciplinari consistenti in lavori che sviliscano la dignità umana (supra capitolo 1, paragrafo 1.2) e, in parte, con il principio secondo il quale il lavoro è uno strumento del “trattamento rieducativo” che tende “anche attraverso i contatti con l’ambiente esterno, al reinserimento sociale” (articolo 1, comma 5 Op). Secondo l’Op, infatti, il trattamento “è svolto avvalendosi principalmente dell’istruzione, del lavoro, della religione, delle attività culturali, ricreative e sportive e agevolando opportuni contatti con il mondo esterno ed i rapporti con la famiglia”. Le norme dell’Op appena citate risentono fortemente dell’influenza delle Standard
Mini-mum Rules delle Nazioni Unite132 le quali stabiliscono che il lavoro non deve essere soltanto finalizzato ad alleviare l’ozio e la noia, ma deve essere produttivo e retribuito, in modo da sviluppare nel detenuto quell’etica del lavoro indispensabile per poter vivere in società e deve, infine, tener conto delle attitudini e delle capacità personali affinché sia gratificante per il detenuto (Grevi 1974).
Come abbiamo anticipato, l’Op nel sancire la non afflittività del lavoro penitenziario, non ne ha tuttavia rimosso l’obbligatorietà, confermando in tal modo quanto già previsto dal Re-golamento Carcerario del 1931 e dagli articoli del 22, 23 e 25 del Codice Penale vigente. L’ar-ticolo 20, terzo comma, dell’Op prevede che il lavoro sia “obbligatorio per i condannati e per i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro”, mentre “i sottoposti alle misure di sicurezza della casa di cura e custodia e dell’ospedale psichiatrico giudiziario possono essere assegnati al lavoro quando questo risponda a finalità terapeutiche”. Il rifiuto di dedicarsi ad un’attività lavorativa può avere come conseguenza l’applicazione di una sanzione disciplinare (articolo 77 Re).
Dalla regola dell’obbligatorietà discende anche la norma contenuta dall’articolo 50 del
golamento di Esecuzione del 2000, la quale stabilisce che “i condannati e i sottoposti alle misure di sicurezza della colonia agricola e della casa di lavoro[…], per i quali non sia
disponi-bile un lavoro rispondente ai criteri indicati nel sesto comma dell’articolo 20 della legge, sono tenuti a svolgere un’altra attività lavorativa tra quelle organizzate nell’istituto” (corsivo mio).
Il detenuto può essere obbligato a svolgere un lavoro, anche se questo non corrisponde alle sue attitudini e capacità, pena l’applicazione di una sanzione disciplinare133 (articolo 77 Re).
A questo punto, ci si potrebbe chiedere come faccia l’obbligatorietà del lavoro a coesi-stere con il diritto al trattamento penitenziario134. Il lavoro penitenziario, infatti, è allo stesso tempo una componente necessaria della punizione (articoli 22, 23 e 25 Cp)135 e un elemento del trattamento rieducativo (articolo 15 Op) che, come abbiamo avuto modo di sostenere nel paragrafo 5 del capitolo 1, necessita del consenso del detenuto. La circolare del Dap del 2003136 ha avuto modo di precisare al riguardo che il trattamento “presume la definizione […] di un’ ipotesi individualizzata per ogni condannato e internato, il cui presupposto […] non può che essere l’adesione consapevole e responsabile del condannato stesso”. Al detenuto è richiesto, inoltre, di “sottoscrivere un vero e proprio patto trattamentale”.
L’Op in altre disposizioni sembra contraddire ulteriormente il principio di obbligatorietà del lavoro, configurando in capo ai detenuti un vero e proprio diritto al lavoro, inteso come interesse a che l’amministrazione penitenziaria si adoperi per assicurare occasioni lavorative. È il caso del primo comma dell’articolo 20 (“negli istituti penitenziari deve essere favorita ad ogni modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro”) e del secondo comma dell’articolo 15 (“ai fini del trattamento rieducativo, salvo casi di impossibilità, al condannato e all’internato è assicurato il lavoro”).
Inoltre, sia la dottrina che la giurisprudenza, a partire dalla natura trattamentale del lavoro penitenziario, hanno progressivamente assimilato la disciplina del lavoro penitenziario a quel-lo libero. Il lavoro in carcere si configura, pertanto, come un vero e proprio diritto, dal momen-to che in esso vi sono tutti gli elementi tipici del rappormomen-to di lavoro subordinamomen-to: obbligo della prestazione di fare, obbligo della subordinazione, diritto alla retribuzione corrispondente, pretesa risarcitoria in caso di inadempimento (Ferluga 2000, Ruotolo 2002). Bisogna precisare 133 Tra le i casi in cui si possono applicare le sanzioni disciplinari vi è “il volontario inadempimento di obblighi
lavorativi”, “l’abbandono ingiustificato del posto di lavoro” e la “simulazione di malattia” (articolo 77 Re).
134 Secondo alcuni questa contraddizione non sussisterebbe, dal momento che il trattamento penitenziario è un elemento imprescindibile dell’esecuzione della pena la quale deve tendere alla rieducazione del con-dannato (Di Gennaro-Breda-La Greca 1997, Vitali 2001). L’obbligatorietà del lavoro non riguarda, infatti, gli imputati i quali non possono essere sottoposti al trattamento penitenziario, dal momento che sono consi-derati innocenti fino alla condanna definitiva, anche se possono essere ammessi al lavoro su richiesta “salvo giustificati motivi o contrarie disposizioni dell’autorità giudiziaria” (articolo 15 terzo comma, Op).
135 L’articolo 22 del Cp stabilisce che “la pena dell’ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”. L’articolo 23 che “la pena della reclusione si estende da quindici giorni a ventiquattro anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno”. L’articolo 24 che “la pena dell’arresto si estende da cinque giorni a tre anni, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati o in sezioni speciali degli stabilimenti di reclusione, con l’obbligo del lavoro e con l’isolamento notturno.”
che il riconoscimento formale del lavoro come un diritto non obbliga l’amministrazione a co-stituire un rapporto di lavoro, dal momento il detenuto può solo pretendere l’adempimento delle obbligazioni derivanti dal rapporto di lavoro (retribuzione, ferie e malattia retribuita) una volta che esso sia stato costituito. Il diritto al lavoro dei detenuti è un diritto sociale che crea in capo all’amministrazione un obbligo di attivarsi per reperire occasioni lavorative. Il mancato adempimento a tale obbligazione non crea un corrispondente diritto soggettivo azionabile in giudizio e non può legittimare nessuna pretesa risarcitoria, dal momento che esso può dipendere dalla contingente indisponibilità di risorse o da altre oggettive esigenze organizzative. Non a caso l’articolo 15 dell’Op stabilisce che l’amministrazione penitenziaria deve assicurare il lavoro “salvo casi di impossibilità”.