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d La “svolta innocenziana” e il protagonismo della pastoralità (1653-1674)

I vescovi di regio patronato: spazi, tempi e modalità di nomina

III.4. d La “svolta innocenziana” e il protagonismo della pastoralità (1653-1674)

Quel “mercato della mitra” di cui parla Spedicato a lungo andare si mostrò troppo “stretto” per una nobiltà che chiedeva di attingere da quel serbatoio di incarichi di regio patronato. Si aggiunga la ovvia e già discussa dialettica tra centro e periferia che, inevitabilmente, portava a moltiplicare i numeri dei candidati da sottoporre al vaglio regale. Facendo qualche calcolo, basti pensare che se le tredici consulte prodotte per Trivento dal 1582 al 1682 avessero seguito la regolare logica prevista dai criteri di nomina avrebbero dovuto registrare appena trentanove candidati, una terna per ogni consulta. Per la nomina di Trivento, invece, si contano sessantaquattro candidati, quasi il doppio del previsto. Di questi il 40% fu proposto dalla seconda metà del XVII secolo, in un palese ridursi delle reiterate ri- candidature, rispetto alla continua varietà dei nomi da proporre. Difficile poter fare un calcolo analogo sul complesso delle nomine di regio patronato, ma non abbiamo dubbi che l’andamento fu analogo a tutta la geografia diocesana.

A questo cambiamento di atteggiamento si sommò, nel corso della seconda metà del Seicento, una composizione qualitativamente diversa del corpo diocesano. Eventi politici e trasformazioni “pastorali” avevano ormai mutato le prospettive e le intenzioni della Corona spagnola, così come del Papato; ormai le due potenze erano «dos poderes en plena decadenza» - come scrive Rivero Rodriguez -, proiettate verso uno stato di non-belligeranza reciproca. Le paci di Westfalia e dei Pirenei avevano determinato, com’è noto, un diverso e nuovo equilibrio politico delle maggiori potenze europee. In questo momento ha inizio un periodo difficile per la Monarchia spagnola.

Sul fronte pastorale sono gli anni dei quella che alcuni hanno definito “svolta innocenziana”. La storiografia da tempo ha dibattuto termini e portata di questa “svolta”. Secondo alcuni deve collocarsi nell’ultimo ventennio del XVII secolo, ad opera del papa

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Innocenzo XI, un momento periodizzante per la storia della Chiesa, durante il quale si registrò una seconda ondata controriformistica alla quale ci sembra corrisponda una fisionomia più squisitamente pastorale del corpo episcopale116. Sono gli anni in cui nelle diocesi pontificie venivano nominati Gregorio Barbarigo a Bergamo e poi a Padova, Innico Caracciolo a Napoli, Persio Caracci a Larino e Luigi Pappacoda a Lecce. Si tratta in tutti i casi di esempi che si inseriscono nell’ottica della ripresa e degli intenti riformatori promossi dall’Odescalchi, che però una parte della storiografia ha, giustamente, sottolineando come essi siano stati comunque parziali e inefficaci. In realtà, come le più recenti analisi vanno dimostrando, le riforme innocenziane rimasero tutte più o meno allo stato di progetto, a fronte di una situazione ancora precaria dell’episcopato italiano, sia dal punto di vista culturale, che di effettiva pratica di governo delle anime.

Nel regio patronato i profili tracciati e gli incarichi di cui tenne conto il Consiglio di Italia nelle discussioni per le nomine dei vescovi sono perlopiù rivolti a religiosi che avevano svolto incarichi nel proprio Ordine. Quella relativa alla nomina di Juan de la Cruz si presenta come una delle ultime discussioni consiliari caratterizzate da una vivacità tale da poter ancora percepire una dialettica forte tra centro e periferia. Notiamo che anche se a Trivento venivano presentati soggetti con un alto profilo ecclesiastico e politico, le preferenze del sovrano ricadevano alla fine sempre su ecclesiastici le cui carriere si confacevano meglio al tessuto diocesano, che ormai da anni non era più quello del Trattato di Barcellona, mostrandosi in lento declino e con sempre meno appetibilità. Cambia prima di tutto e soprattutto il profilo dei candidati spagnoli - o forestieri che dir si voglia -. Si tendeva, per esempio, a proporre oriundi che già erano nel Regno ed eventualmente avevano benefici ecclesiastici minori e per i quali, quindi, il trasferimento a Trivento poteva costituire una condizione migliore.

Nel luglio del 1653, non troppo tempo dopo la morte del de La Cruz, il viceré conte d'Oñate inviava a Madrid una nuova terna per la diocesi di Trivento, formata dallo spagnolo oriundo arciprete di Altamura, Juan de Montero, dal trinitario Francisco Tello de Leon, predicatore reale e maestro provinciale del convento reale a Napoli e, infine, dal benedettino Alonso de Aguayo, procuratore generale a Roma. Prima di procedere all’esame della terna, il Consiglio di Italia, preoccupandosi del rispetto dell’alternanza tra un regnicolo e un forestiero, valutava con attenzione se, in questo caso preciso, «esta[ba] consumada la alternativa». In effetti, il processo di nomina del de la Cruz si era concluso, ma restava da capire come

116 Sul dibattito e sulla storiografia di riferimento si veda quanto abbiamo detto a proposito della “svolta innocenziana” alle pp. 17 e ss. del presente lavoro.

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procedere. A Roma l’elezione del presule non era considerata esaurita, non avendo l’ecclesiastico preso effettivo possesso della diocesi. Nell’incertezza del caso, a Madrid si avanzavano due distinte terne, una di regnicoli e una di forestieri, differenti dalla terna del Viceré che veniva, invece, del tutto scartata.

Il Consiglio puntava nuovamente sulla candidatura di Giovanni Battista Ferruzza. A quest’ultimo seguivano il qualificatore del Sant’Uffizio Pedro Zamudio e il parroco madrileno Pedro de Monforte. Nella seconda terna si proponeva, per la prima volta in una diocesi di regio patronato, il domenicano Tommaso de Sarria, predicatore e consigliere della casa reale - che sarebbe diventato vescovo di Trani e poi di Taranto - mentre al secondo e terzo posto si ripescavano da precedenti proposte vicereali, Lorenzo Basurto e il benedettino Alonso de Aguayo. Quest’ultimo, proposto per la prima volta dal conte di Oñate a Trivento, fu presentato diverse altre volte dal Consiglio di Italia, per essere poi finalmente scelto dal sovrano, nel 1668, per la diocesi di Gaeta. Nominato poi dal Consiglio di Castiglia per la diocesi spagnola di Avila, di gran lunga più appetibile di quelle napoletane, il de Aguayo non avrebbe mai preso possesso della diocesi campana.

Ricevuta la consulta del Consiglio di Italia Filippo IV sceglieva, finalmente, di nominare il Ferruzza.

Giovanni Battista Ferruzza era nato a Messina l’8 gennaio 1602 da Vincenzo Ferruzza e Giovanna Iornato e qui fu battezzato nella chiesa di S. Leonardo. Il 20 settembre 1625, all’età di ventitrè anni, fu ordinato suddiacono nella chiesa di S. Nicola a Messina e, il mese successivo, diacono. Fu poi nominato vicario generale della diocesi di Messina. Il 7 marzo del 1626 ottenne il presbiterato e l’8 agosto dello stesso anno si laureò in teologia. Un suo conoscente, Giacomo Coglitoris di Messina, in occasione del processo per la sua nomina a Trivento, interrogato sulle qualità del Ferruzza, diceva: «è pratico e versato nelle funzioni ecclesiastiche e nell’esercitio dell’ordini da lui presi e dal detto tempo è stato sempre devoto e frequente in celebrare. So che non solo è vissuto cattolicamente e nella purità della fede cattolica, ma anco esemplarmente da buon religioso. È di vita innocente, di buoni costumi, conversatione e fama per tal è tenuto pubblicamente da tutti. So ch’è persona grave, prudente et esperta delle cose del mondo et atto a governare ... so ch’è persona studiosa et ha sempre profissato et ha tanta dottrina quanta si ricerca in un vescovo et è atto ad insegnar ad’altri e questo lo so per la cognitione di tanto tempo e n’è pubblica voce e fama. So ch’è stato rettore di tre chiese parrocchiali nella città di Messina per spatio di anni sei»117. Dal 22 maggio 1643

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era entrato nell’ordine di san Filippo Neri e andò in Spagna, dove fu nominato amministratore dell’Ospedale degli Italiani a Madrid. Trovandosi, quindi, nella capitale castigliana, appena ricevette la notizia della nomina, come il suo predecessore, fece richiesta di un sussidio economico per affrontare il viaggio. Anche in questo caso il Consiglio accordò la somma di 600 ducati, raccomandando però il Viceré di trattare la questione con la massima segretezza per evitare che diventasse una vera e propria consuetudine118. In realtà, però, alla metà del XVII secolo, ricorrono anche altri episodi come quelli riferiti, di vescovi di regio patronato, spagnoli o residenti in Spagna, che si appellavano al Consiglio madrileno per ricevere aiuti economici al fine di sostenere le spese necessarie a raggiungere la sede diocesana loro assegnata. D’altronde, la promozione alla mitra era parecchio onerosa per l’ecclesiastico. L’eletto avrebbe dovuto pagare i tributi previsti dalla Curia romana per la spedizione della bolla, le spese di “media annata” calcolate sulle rendite annue della diocesi e, per chi si trovava in Spagna, anche le spese di viaggio per raggiungere il Regno119. Nominato all’età di cinquantatre anni, il vescovo potè governare la diocesi solo per tre anni. Morì, infatti, nel 1658. Sulla sua presenza a Trivento non sappiamo molto, se non che di certo preferì risiedere a Frosolone, comunità non molto distante dalla sede diocesana, posta in un territorio di montagna, lungo la rete tratturale che attraversavava la diocesi e che proprio in quell’epoca stava assurgendo a città agro-pastorale e piazza commerciale, con una ricca tradizione artigianale120.

La sede episcopale di Trivento rimase vacante nel difficile passaggio di consegne dal conte di Castrillo al nuovo viceré di Napoli Gaspar de Bracamonte y Guzmán, conte di Peñaranda121.

Nel settembre 1659, non arrivando ancora da Napoli alcuna proposta vicereale, il Consiglio di Italia decideva di avviare le consultazioni per Trivento. Il presidente del Consiglio, il marchese de Velada, in apertura della consulta ricordava quali erano le

118 AGS, Secretarias provinciales, leg. 27, Consulta del 25 marzo 1654. 119

Cfr. I. F. Terricabras, Felipe II y el clero secular, cit., p. 226. A titolo di esempio ricordiamo anche un caso che ci sembra ancora più emblematico. L’arcivescovo di Nasso, Niceforo Melissano, ricordando la sua discendenza dall’imperatore di Costantinopoli e quindi il contributo dato dai suoi antecessori al servizio della Corona nella lotta agli infedeli, avendo avuto una grave infermità si ritrovava senza guardaroba e dovendosi trasferire a Crotone, dove era stato eletto nel 1626, chiedeva dei vestiti per poter degnamente prendere possesso della nuova diocesi. Anche a lui si concedeva quanto richiesto, provvedendo a dargli gli abiti prelatizi e dei vestiti per il viaggio oltre a un calice per poter dire messa. Lo stesso si verificò per il cappellano reale Annibale Mascabruno eletto a Castellamare nel 1627 che per la sua riconosciuta povertà ricevette un sussidio di 700 ducati, AGS, Secretarias provinciales, leg. 14, Consulte del 23 dicembre 1626 e dell’8 febbraio 1627.

120 ASDT, Bollari di nomina, vol. V-VI. Sulla prosperità di Frosolone nel corso del Seicento e poi del Settecento rinviamo a G. Brancaccio, Il Molise medievale e moderno, cit., in particolare pp. 267, 289-290.

121 Cfr. G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734), cit., pp. 579- 580; Id., Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica, cultura, società, I, Firenze, Sansoni, 1982, pp. 53-68.

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raccomandazioni del sovrano per «il real servicio y buen gobierno». Con differenti ordini Filippo IV aveva prescritto ai Viceré di Napoli di inviare le nomine dei benefici ecclesiastici entro due mesi dalla vacanza della diocesi, così come per qualsiasi altra piazza o ufficio. Superato quest’arco di tempo, l’iter di nomina sarebbe stato svolto integralmente a Madrid122. Per questi motivi, ai ritardi del conte di Peñeranda, già avvisato in più occasioni, il Consiglio avanzava, questa volta senza ordine di preferenza, un terna di candidati regnicoli, ritenendo che dopo il Ferruzza, un siciliano residente in Spagna e per questo probabilmente ritenuto extra-regnicolo, la diocesi dovesse toccare a un ecclesiastico nato nel Regno. Nello stesso giorno il Consiglio si trovò a discutere anche per l’arcidiocesi di Reggio e la diocesi di Mottola, proponendo terne pressoché identiche.

A Trivento veniva presentato per primo il francescano Bartolomeo Pettorano. Questi era un ecclesiastico di buona «doctrina y religion», come precisava il Consiglio. All’epoca, il Pettorano si trovava a Toledo come provinciale del suo Ordine per il capitolo generale e svolse molti incarichi in Spagna, a Napoli e presso la Santa Sede. Era stato, infatti, tre volte guardiano e custode del capitolo generale dell’Ordine, oltre che provinciale in Abruzzo. Per ordine di Urbano VIII era stato missionario apostolico in Oriente e, considerati i buoni risultati della sua missione, fu nominato maestro e lettore di lingue orientali, correttore di libri e interprete presso la Congregazione del Sant’Uffizio. I larghi consensi ottenuti presso la Curia Romana gli fecero avere la nomina, da parte di Innocenzo X, alla diocesi di Penne e, in seguito, per l’arcidiocesi di Santa Severina, ma in nessuno dei due casi egli accettò.

Alla candidatura del Pettorano a Trivento si affiancarono quelle di due teatini napoletani, Francesco Carafa e Vincenzo Lanfranchi. Il primo, in religione fra’ Placido, apparteneva ai Carafa della Stadera ed era unico figlio di Giovanni Battista e Porzia Gambacorta. Era stato per cinque anni lettore di teologia a Roma presso la casa teatina di Sant’Andrea della Valle. Nello stesso anno in cui fu candidato a Trivento fu proposto anche per l’arcidiocesi di Reggio e le diocesi di Castellamare e Mottola. Fu scelto per quest’ultima,

122 È quanto per altro emerge dalla relazione che il viceré conte di Monterrey lasciava al suo successore duca di Medina de las Torres, come si legge dal passo che riportiamo: «ho inviato a Sua Maestà le proposte di nomina per tutti gli uffici che sono vacati nel tempo del mio governo: e, giunte quelle alla Corte, sono rimaste alcune senza che vi abbia Sua Maestà preso risoluzione, ho avuta grandissima cura di sollecitarle, perché importa che ogni ufficio abbia il proprio impiegato. E Sua Maestà persuasa di questo ha comandato che per gli uffici a tempo che sono di sua real provvisione se le mandino le proposte di nomina quattro mesi che abbiano da vacare, acciocchè, fattosene risoluzione, s’evitino i sostituti», in Relazione diretta al sig. duca di Medina de las Torres

intorno allo stato presente di varie cose del Regno di Napoli ed altri avvertimenti che occorrono, dovendosi adempiere il tutto in conformità degli ordini di Sua Maestà, a cura di S. Volpicella, in «Archivio storico per la

province napoletane», 4 (1879), pp. 488-489; sulla relazione del Monterrey si rinvia a G. Galasso Il Regno di

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ma non accettò l’incarico. L’anno successivo, nel 1662, fu poi nominato ad Acerra, diocesi che governò fino alla sua morte nel 1674123.

Vincenzo Lanfranchi, invece, era parente del già vescovo di Trivento Girolamo di Costanzo. La madre, infatti, era nipote in primo grado del marchese di Corleto, per essere figlia della sorella di quest’ultimo. Figlio di Marcello Lanfranchi e Laura Gironda - della nobiltà di Bari dei marchesi di Cannito - Vincenzo nacque a Napoli, dove conseguì la laurea in teologia e divenne anche lettore. Il suo vero nome era Giuseppe Antonio Lanfranchi, che cambiò in don Vincenzo quando entrò, come tutti gli altri ecclesiastici della sua famiglia, nel convento di San Paolo Maggiore di Napoli dell’Ordine dei chierici regolari teatini il 7 marzo 1626124. La famiglia Lanfranchi di origine pisana si era stabilita a Napoli nel corso del XV secolo e vantava nella genealogia molti personaggi che avevano percorso prestigiose carriere nelle sfere tanto politiche, quanto ecclesiastiche. Il padre, primo di otto figli, dottore nelle due leggi, fu l’unico dei fratelli a condurre una carriera politica tra incarichi alle dirette dipendenza della Corona, prima a Napoli, come giudice della Vicaria e commissario generale di Campagna nel Regno di Napoli, poi in Spagna come consigliere del Consiglio di Italia. I suoi fratelli e sorelle, invece, furono tutti destinati alla carriera ecclesiastica, perlopiù nell’Ordine dei teatini gli uomini e in monasteri napoletani le donne. Lo stesso può dirsi dei figli di Marcello, in tutto dieci uomini e due donne, molti dei quali seguendo Marcello e Laura, si trasferirono in Spagna. Tra loro ricordiamo il primogenito Girolamo, che sfruttando la parentela con il cardinale d’Aquino, entrò nelle grazie del cardinale Barberini, salito al soglio pontificio come Urbano VIII. Girolamo divenne prima cameriere segreto, poi maestro di camera e, infine, fu nominato vescovo a Cava, distinguendosi per l’impegno logistico e militare reso alla Corona durante i tumulti napoletani del 1647.

Le carriere di Vincenzo e Andrea, un altro fratello, invece, scorsero parallele. Entrambi, infatti, trasferitisi in Spagna si occuparono della diffusione dell’ordine teatino nella penisola iberica al seguito di Placido Mirto Frangipane. Di Vincenzo sappiamo che per dodici anni rimase in Spagna, perlopiù tra Saragozza e Madrid e, quando, in un primo momento l’Ordine gli propose di tornare in Italia, rifiutò preferendo continuare il suo operato in Spagna. Qui fu anche impegnato come lettore in arte e teologia presso le Università di Alcalà e di

123 Cfr. B. Aldimari, Historia genealogica della famiglia Carafa, II, Napoli, nella stamperia di Giacomo Raillard, 1691, p. 392; G. Caporale, Ricerche archeologiche, topografiche e biografiche su la diocesi di Acerra, Napoli, Jovene, 1893, pp. pp. 483-485; I teatini, a cura di M. Campanelli, cit., p. 108; E. Novi Chavarria, I

teatini e il “governo delle anime” (secoli XVI-XVII), in Sant’Andrea Avellino e i teatini, a cura di D. A.

D’Alessandro, cit., pp. 273-286.

124 Nomi e cognomi de’ padri e fratelli professi della Congregazione de’ Chierici Regolari, Roma, Stamperia del chracas, 1722, p. 36.

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Saragozza e, infine, nel 1652 fu nominato qualificatore del Supremo Tribunale del Sant’Uffizio e l’anno seguente predicatore reale, seguendo le stesse orme del fratello Andrea che fu nominato nel 1649125. Quest’ultimo, poi, nel 1650, tornò in Italia chiamato a reggere la diocesi di Ugento126. Tutte le volte che il Consiglio di Italia si trovava a discutere della candidatura di uno dei fratelli Lanfranchi ricordava sempre i meriti familiari conseguiti oltre che dal padre, Marcello anche dal loro fratello, Girolamo «obispo de la Cava cuyos meritos y servicios son muy dignos de remuneracion porque en el de V. M. hizo grandes demonstraciones en los tumultos de scomulgando a los se di crosos para que se solegassen y passandole a Napoles y despues de la reducion quando llego a Vietri la armada de Francia armò el clero y juntó los pueblos ammandolos a la defensa con que se retiró el enemigo»127. Si ricordavano anche i meriti e i servizi di un altro loro fratello, Antonio, che fu capitano al servizio della corona spagnola nei Paesi Bassi, in Germania e a Milano e morì nella difesa di Valencia del Po128.

La candidatura di Vincenzo Lanfranchi a Trivento fu in parte oggetto di discussione. Infatti, alla presentazione della terna - composta da Bartolomeo Pettorano, Vincenzo Lanfranchi e Matteo de Gennaro - seguirono le votazioni dei reggenti, alcuni dei quali disapprovarono parte delle candidature. I reggenti conte de Mora e duca de la Montaña, per esempio, chiedevano di sostituire il Lanfranchi con un altro teatino Matteo de Gennaro, del seggio di Porto. Il de Gennaro era proposto in ragione, del recente lutto occorso alla famiglia per il decesso di Felice de Gennaro, suo parente, cavaliere gerosolimitano, avvocato di fama, che per cinquant’anni aveva servito come consigliere il Sacro Consiglio di Santa Chiara. Matteo de Gennaro era il secondogenito di Giovan Angelo e Popa de Santis. Dapprima indirizzato alla carriera militare, come i suoi fratelli, divenne capitano della cavalleria a Orbetello. In seguito prese l’abito dei chierici regolari minori e fu nominato primicerio della cattedrale di Napoli. Si era distinto per le capacità e il suo comportamento esemplare al tempo del contagio della peste del 1656, quando entrò nel lazzaretto di S. Gennaro in Napoli per confessare gli infermi. Suo fratello Marco Antonio de Gennaro aveva, invece, seguito la carriera militare, fino a diventare maestro di campo e servire la Corona per oltre trent’anni a

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Sulla nomina di Vincenzo Lanfranchi a predicatore reale si veda AHNM, Inquisicion, leg. 1453, exp. 11, AGP, Personal, caja 7726, exp. 6. Nello stesso anno fu nominato predicatore anche il fratello Andrea, AGP,

Personal, caja 7723, exp. 7.

126 AHNM, Estado, leg. 2026, Consulta per la nomina del vescovo di Ugento dell’11 marzo 1650. 127

Ivi, leg. 2049, Consulta per la nomina del vescovo di Trivento del 16 settembre 1650.