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L’alternativa: una richiesta dalla periferia dell’Impero

I vescovi di regio patronato: spazi, tempi e modalità di nomina

III.5. L’alternativa: una richiesta dalla periferia dell’Impero

Sin dai tempi dei re cattolici si raccomandava alla Camara de Castilla - preposta al reclutamento episcopale nelle diocesi spagnole - che i vescovi fossero «naturales de sus reinos, honestas, estraidas de la clase media y letradas»158. Il requisito della “naturalità” dei candidati era necessario per ragioni di carattere politico, per essere certi che si scegliessero vassalli fedeli alla Corona e questo ancor dippiù in prossimità di luoghi di frontiera, «esta razon se esgrimiò con intransigencia en obispados fronterizos y litorales, mirando a la seguridad del estado»159. La scelta degli ecclesiastici in relazione alla loro origine spagnola - o ancor meglio castigliana - fu un criterio applicato con intransigenza nelle diocesi spagnole al tempo di Ferdinando d'Aragona, ma andò lentamente a dissolversi con i suoi successori che, talvolta, ricorsero a concessioni di “carte di naturalezza” per assegnare benefici ecclesiastici a loro piacimento, considerando che la prova di lealtà era data dai servizi, dai meriti e dagli incarichi conseguiti presso la struttura polisinodale dell’apparato di governo spagnolo, che di per sé era aperta solo ai “più fedeli” ed era, a sua volta, direttamente connessa al sistema di facciones esistente presso la corte.

La questione della “cittadinanza” degli ufficiali, civili o ecclesiastici, - espressione che utilizziamo con tutte le cautele del caso - animò a lungo il dibattito tra il centro e le periferie dell’Impero e riguardò anche le nomine vescovili nell’ambito, precisamente, della dialettica tra la corte reale e le forze politiche regnicole, la cui voce prendeva forma nelle lunghe serie di “grazie” e capitoli richieste al sovrano in occasione dei Parlamenti generali. In un contesto, diremo, di “contrattazione” con la Corona la nobiltà napoletana - così come quelle di tutti gli altri domini spagnoli in Italia -, in cambio dei lauti donativi via via concessi alla Corona, chiedeva come ricompensa una maggiore presenza dei napoletani e, in generale, dei regnicoli nell’apparato istituzionale del Regno160. In tal senso, la nazionalità dei vescovi di nomina regia, così come quella dei funzionari cui conferire i sette grandi uffici del Regno e di

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Historia de la Iglesia en Espana, dirigida por R. Garcia-Villoslada, III/I, J.L.Gonzales Novalin, La

Iglesia en la Espana de los siglos XV y XVI, Madrid, La editorial Catolica, 1979, p. 153.

159 Ibidem. 160

I testi e le discussioni parlamentari possono essere studiate anche a partire da Privilegj e capitoli con

altre grazie concedute alla fedelissima Città e Regno di Napoli dalli serenissimi re Filippo II, Filippo III, Filippo IV e Carlo II con altre nuove grazie concedute, confirmate e concesse dall’augustissimo imperadore Carlo VI sino all’anno 1719, Milano, Deputazione per l’osservanza dei Capitoli, Grazie e Privilegi della

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qualunque altro incarico di presentazione regia, fu oggetto di una trattativa serrata e costante tra Napoli e Madrid, che portò all’introduzione del privilegio dell’alternativa161.

Un recente lavoro di Francesco Benigno, dopo oltre trent’anni dai primi studi sull’argomento, ha di nuovo posto l’attenzione sui parlamenti generali dei domini spagnoli in Italia162. Il contributo è utile a mettere a confronto le istituzioni rappresentative dei tre reynos spagnoli in Italia, Regno di Napoli, Regno di Sicilia e Regno di Sardegna. Nel caso napoletano, come avvisa Giuseppe Galasso, è ormai largamente nota la scarsa misura in cui gli impegni parlamentari della corte reale si siano tradotti effettivamente nella realtà. Francesco Benigno definisce il parlamento del Regno di Napoli come “debole e inutile”. Il tenore delle “grazie” richieste si può dire che fosse sempre lo stesso, con l’eccezione di poche varianti da un parlamento all’altro. Non ci sono dubbi, però, che uno dei capitoli ripetuti con più insistenza, per tutta l’età spagnola, fu proprio quello della riserva degli uffici di nomina regia e dei benefici ecclesiastici del Regno in favore di napoletani; un capitolo che rimase, talvolta, del tutto eluso, dietro una dinamica dilatoria della Corona, che rispondeva il più delle volte con eccessiva ambiguità.

Nei lavori sul regio patronato nel Mezzogiorno d’Italia Mario Spedicato si è maggiormente preoccupato, con giusta causa data soprattutto l’ampiezza dei dati che tratta, a valutare, di volta in volta, la concreta attuazione dell’alternativa nell’ambito della dialettica tra centro e periferia. Eppure si trattò effettivamente di richieste giunte dalle “periferie” dell’Impero. Lo si vede, per esempio, in Sicilia, dove si raggiunse formalmente un accordo con la Corona, in occasione dei Capitoli del 1503, quando Carlo V stabilì che le nomine vescovili in tutte le diocesi dell’isola dovessero rispettare l’alternanza tra un naturale

161 Si trattò per altro di una discussione che non si esaurì neanche con l’età spagnola. La trattatistica giuridisdizionalista del periodo del viceregno austriaco, infatti, è ricca di spunti e interventi riguardo la “nazionalità” degli ecclesiastici nominati nel Regno che si chiedeva fossero napoletani. Cfr. per questo, ad esempio, F. Amenta, Lettera scritta a’ 12 d’aprile del 1708 agl’Ill.mi ed Ecc.mi signori eletti della fedelissima

Città di Napoli su la materia de’ benefici da conferirsi a’ nazionali, Napoli, 1710; BNNa, ms. X B 61, T. Carafa, Memorie, per la questione dei benefici da riservarsi ai soli nazionali, ff. 49-50; BNNa, ms. XI D 24, Memoria per Sua Eminenza dalla deputazione per la collazione dei benefici ai naturali di questa fedelissima città e Regno, 1708, f. 274.

162 F. Benigno, Favoriti e ribelli, cit., pp. 147-163. Punto di riferimento, seppur datato, per una ricognizione sulle istituzioni rappresentative in Italia è offerto da H. G. Koenigsberger, Parlamenti e istituzioni

rappresentative negli antichi stati italiani, in Storia d’Italia. Annali, I, Dal feudalesimo al capitalismo, Torino,

Einaudi, 1978, pp. 575-610. Per un profilo giuridico-istituzionale dei Parlamenti del Regno di Napoli si vedano G. D’Agostino, Parlamento e società nel Regno di Napoli. Secoli XV-XVII, Napoli, Guida, 1979 e A. Cernigliaro, Parlamento e feudo nel Regno di Napoli (1505-1557), II, Napoli, Jovene, 1983. A quest’ultimo, inoltre, rinviamo anche per una disamina molto attenta delle tappe più significative relative alla “provvista degli uffici”, ivi, pp. 629-642. Resta, infine, fondamentale per analizzare, di volta in volta, la dialettica tra centro e periferia in occasione dei parlamenti generali il lavoro di Galasso, al quale in seguito faremo riferimento più nello specifico, per ora citando l’opera nel suo insieme G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo

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(siciliano) e un forestiero (perlopiù spagnolo)163. Neanche il reclutamento episcopale nelle diocesi sarde fu esente da un dibattito parlamentare sulla provenienza degli ecclesiastici. Qui gli orientamenti vicereali erano propensi a non sottrarre in alcun modo la libertà di scelta dei presuli da parte del sovrano, difatti manca qualunque concessione a riguardo164. In Spagna, invece, l’alternativa fu introdotta, agli inizi del Seicento - epoca delle rivolte contro il potere centrale -, solo in Aragona e Valencia e, quindi, solo su diciannove delle cinquantaquattro diocesi spagnole. Stando agli studi di Barrio Gozalo, dalla Castiglia proveniva il 75,5% dei vescovi complessivamente eletti in tutta la Spagna dal 1556 al 1699. Avevano una provenienza extra-spagnola solo diciotto ecclesiastici, di cui otto erano italiani165.

L’introduzione dell’alternativa nel Regno di Napoli segue una parabola pressoché identica a quella del Mezzogiorno insulare. Ricordando i privilegi già concessi dai re cattolici, dalla periferia dell’Impero giungevano richieste di confermare quanto già ottenuto in passato. Per tutta la prima metà del Cinquecento le risposte del sovrano furono, quasi sempre, molto vaghe. Un passo decisivo e concreto si ebbe solo nel 1550, quando da Bruxelles, Carlo V emanava la prammatica de officiorum provisione, assumendo un impegno stabile e concreto. Con quest’ultima il Re fissò una quota stabile di regnicolis oriundis cui assegnare gli incarichi di nomina regia, elencando puntualmente gli uffici cui applicare la prammatica e i relativi criteri di massima.

A proposito dei benefici ecclesiastici, secondo il sistema già introdotto in Sicilia, si diceva di distribuirli in modo alternato, metà a regnicoli e l’altra metà a beneplacito della corona, con il tenore seguente:

«archiepiscopatus, episcopatus, abbatiae, prioratus, canonicatus, praebendae et cetera benefica quaecumque spectantes et spectantia ad collationem, seu nominatione, et praesentationem Caesarea Majestatis conferantus pro medietate regnicolis, pro alia ad beneplacitum, et cum vacaverint alternatum provideantur prout servatur in Regno Siciliae ultra pharum, hoc videlicet modo et forma: quod beneficia per exeteros quomodolibet vacantia regnicolis

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Cfr. M. Spedicato, Il mercato della mitra, cit. Sul caso siciliano rinviamo a D. Ligresti, Sicilia aperta

(secoli XV-XVII), cit., pp. 188-198, ma, soprattutto, si vedano gli studi di F. D’Avenia, La feudalità ecclesiastica nella Sicilia degli Asburgo, cit., p. 284; lo stesso Autore sta ampliando le sue ricerche a proposito dell’attuazione

dell’alternativa nelle diocesi siciliane in un lavoro in corso di stampa nel volume sulla corte di Filippo IV a cura di Martínez Millan e Musi.

164 Rinviamo per la Sardegna a R. Turtas, Storia della chiesa in Sardegna, cit., pp. 350-356.

165 Per un quadro più puntuale sulla provenienza geografica dei vescovi nominati nelle diocesi spagnoli cfr. M. Barrio Gozalo, El real patronato y los obispos españoles, cit., pp. 132-136, M. Rosa, Clero cattolico e

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conferantus; cum vero per regnicolas vacare contigerit provideantur ad Caesarea et Catholicae Majestatis arbitrium et beneplactum»166.

In apertura alla prammatica, il sovrano precisava anche l’uso del termine “oriundo”, dicendo che si riferiva a coloro che, anche se nati extra-Regnum, risiedevano nel Regno di Napoli da più di dieci anni e possedevano privilegi feudali, beni stabili o allodiali. In seguito, le discussioni parlamentari avrebbero cercato chiarimenti di varia natura anche sulla “questione della cittadinanza” - come l’ha definita Giuseppe Galasso - con il fine di garantire ai “veri” napoletani una fetta sempre più grande di uffici. Diversi furono gli interventi dei sovrani volti a qualificare meglio il termine “regnicoli”. Filippo II, per esempio, avviò una sorta di “classificazione” delle possibili categorie di regnicoli oriundi, alcune delle quali finirono per essere troppo generiche e includesero un infinito numero di persone, a scapito degli effettivi regnicoli167.

Per questi motivi, nel lungo elenco di candidati al regio patronato ricorrono ecclesiastici candidati, per espressa decisione del Consiglio, tanto nelle terne di regnicoli quanto in quelle di forestieri. Si trattava perlopiù di figli di spagnoli nati nel Regno dove risiedevano stabilmente con la loro famiglia. Riportiamo alcuni dei casi a noi noti per il Seicento. L’arco temporale non vuole essere un discrimine, ma piuttosto è legato alla maggiore quantità di informazioni a nostra disposizione a partire proprio dal XVII secolo. D’altronde prima del Seicento il reclutamento dei vescovi ancora non era soggetto ad alcun criterio di alternanza. Vigeva, piuttosto, un regime di totale arbitrarietà nella scelta degli ecclesiastici. Dei 135 vescovi eletti dal Trattato di Barcellona a tutto il XVI secolo, solo trentanove - il 28,89% - erano spagnoli. Diverso, come vedremo, fu invece lo scenario che si presentò dal Seicento in poi.

Tra i “regnicoli oriundi” vi erano Juan de Salamanca, figlio dello spagnolo Juan Thomas de Salamanca - consigliere del Sacro Regio Consiglio, giudice della Vicaria e reggente della Cancelleria - nato a Napoli, dove per altro fu anche nominato Cappellano

166 Nuova collezione delle prammatiche del Regno di Napoli, XI, Napoli, Stamperia Simoniana, 1805, p. 38; rinviamo anche a quanto si dice a proposito dell’apparato amministrativo del Mezzogiorno d’Italia e dunque del mantenimento degli equilibri socio-politici del Regno in A. Musi, Mezzogiorno spagnolo. La via napoletana

allo stato moderno, Napoli, Guida, 1991, in particolare p. 98; Id., L’Italia dei Viceré, cit., p. 198-200.

167 Si rinvia a G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), cit., pp. 741-745 e pp. 765-769. Sulla questione della “cittadinanza” cfr. P. Ventura, Le ambiguità di un privilegio: la cittadinanza

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Maggiore168. Egli fu proposto indistintamente come regnicolo e come spagnolo nelle diocesi di Mottola, Giovinazzo, Crotone e Matera. Lo stesso si dica per Ambrogio de Cordova, nato a Napoli da genitori spagnoli - era figlio di Pietro Fernandez de Cordoba e Anna Ossoria - proposto, dapprima, come forestiero a Trivento poi come regnicolo a Mottola e Oria; in seguito nominato a Giovinazzo da una terna di stranieri e, infine, divenne vescovo di Tropea, nel 1631, unica diocesi che accettò e che governò fino alla sua morte, avvenuta nel 1638169. O ancora Juan de Montero, figlio di un reggente del Collaterale, proposto tra il 1651 e il 1663 prima come regnicolo a Gallipoli e poi eletto a Gaeta come forestiero, ma non accettò l’incarico. Ultimo caso, riguarda il domenicano Ambrogio de Arilza, altro spagnolo oriundo presentato tra il 1657 e il 1670 prima ad Ariano e poi a Giovinazzo. La sua prima candidatura da parte del Viceré in una terna di forestieri veniva bocciata a Madrid per ritenere l’ecclesiastico naturale del Regno. In seguito, però, il Consiglio lo avrebbe proposto in una terna di forestieri.

Insomma, ci sembra quasi di poter dire che l’introduzione dell’alternativa sia stata quasi un “ripiego” - l’unica via d’uscita - per provare a soddisfare, almeno in parte, le pretese del Regno che, agli occhi della corte castigliana, era eternamente insoddisfatto, ma al quale si doveva necessariamente dare qualche segno di riconoscenza per la lealtà sempre dimostrata. Rivendicazioni da parte di alcuni esponenti napoletani per la nomina di regnicoli ricorrono anche nelle nomine del Cappellano Maggiore di Napoli, altra carica di regio patronato per la quale si sarebbe dovuta rispettare l’alternativa; nella realtà dei fatti, invece, furono nominati sempre spagnoli. Per questo, nel 1662, il reggente del Collaterale Donato Antonio de Marinis, in occasione della nomina di un nuovo Cappellano Maggiore a Napoli, facendosi portavoce del dissenso popolare scriveva al Consiglio di Italia dicendo che i sovrani spagnoli da «felice memoria [avevano] stabilito che nelli benefici ecclesiastici di regal patronato et particolarmente nella Cappellania Maggiore si dovesse osservare l’alternativa, cioè una volta a naturali et l’altra al regal beneplacito, soggiunge et declaro che anco nelle provviste di beneplacito et arbitrio s’haverebbe tenuto pensiero di gratificarne li naturali regnicoli»170.

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Per il profilo degli incarichi assunti da Juan Thomas de Salamanca si veda G. Intorcia, Magistrature

del Regno di Napoli, cit., p. 373; AHNM, Estado, leg. 2109, Consulta per la nomina del Cappellano Maggiore di

Napoli del 6 dicembre 1632.

169 Per il profilo biografico di Ambrogio de Cordova cfr. V. Capialbi, Memorie per servire alla storia

della santa chiesa tropeana, Napoli, Nicola Porcelli, 1852, pp. 71-76 e F. Torraca, G.M. Monti, R. Filangieri di

Candida, Storia della Università di Napoli, cit., p. 347.

170 AHNM, Estado, leg. 2109, Istanza del Consiglio Collaterale al Consiglio di Italia del 7 luglio 1662. Sull’argomento si veda anche G. Galasso, Momenti e problemi di storia napoletana nell’età di Carlo V, in Id.,

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Per tutti questi motivi, nel dialogo tra i viceré a Napoli e il Consiglio di Italia a Madrid, si percepiscono costantemente le attenzioni e le preoccupazioni, dell’uno e dell’altro, sull’effettiva attuazione dell’alternativa nel reclutamento episcopale che, talvolta, sfociavano in un clima di totale incertezza. D’altro canto, però, si denotano, altresì, gli interessi della Monarchia a garantirsi il controllo di alcuni avamposti militari. Nell’ambito degli stessi processi di nomina le iniziali discussioni del Consiglio di Italia ebbero ad oggetto, per l’appunto, la possibilità di escludere alcune diocesi dal privilegio dell’alternativa. Delle ventiquattro diocesi, infatti, quattro erano libres de alternativa (Fig. 7).

Fig. 7 - Privilegio dell’alternativa

Una decisione maturata all’indomani della prammatica de officiorum provisione e via via che i meccanismi di nomina prendevano avvio, durante la messa a punto dei criteri da seguire per il reclutamento episcopale rispetto ai contesti socio-economici e, diremo anche, geografici delle singole diocesi nella più ampia rete del regio patronato. Per motivi di Antonio de Marinis - Prime note biografiche, in «Rivista Storica del Sannio», 2 (2005), pp. 87-106 e De Marinis, Donato Antonio in DBI.

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carattere “compensativo” - stando alle dichiarazioni del Consiglio di Italia - si scelse di rendere libere dall’alternativa le arcidiocesi di Brindisi e Gaeta e le diocesi pugliesi di Mottola e Oria. In realtà, ci sembra piuttosto evidente che questa scelta rispondesse alla necessità della Corte di garantirsi il pieno controllo delle nomine nei punti strategici del Regno in un’epoca di massima allerta per la politica europea e della Spagna in particolare, preoccupata a difendere il Regno dal pericolo turco nel Mediterraneo e dalle pretese francesi sull’Italia. Per questo, per esempio, si decise di nominare solo spagnoli a Gaeta e Brindisi. Si trattava di due punti di accesso al Regno, rispettivamente, a nord, Gaeta diretto collegamento con lo Stato pontificio e, a sud, Brindisi via marittima di ingresso dal Mediterraneo. Al contempo, però, per compensare questa decisione si rendevano libres de alternativa le diocesi di Mottola e Oria, destinandole a regnicoli. Sicuramente la scelta di queste ultime due fu determinata da fattori di scarsa appetibilità economica, oltre che di estrema perifericità.

Il movente di queste iniziative risale alla designazione proprio del vescovo di Mottola. Infatti, con consulta del 28 agosto 1583, anziché promuovere un forestiero come dettava il privilegio, veniva scelto un napoletano e nella stessa occasione - per compensare - si promuoveva uno spagnolo a Gaeta. Da qui le nomine nell’una e nell’altra sede furono segnate, rispettivamente, da regnicoli nel caso di Mottola e da spagnoli a Gaeta. Pochi anni dopo, nel 1587, in occasione del distacco di Oria dall’arcidiocesi di Brindisi si lasciarono anche queste due mense vescovili alla libera presentazione del sovrano, che avrebbe poi riservato a spagnoli l’arcidiocesi di Brindisi e solo a napoletani la diocesi di Oria. È chiaro dunque che si trattò di motivi strategico-militari, come d’altronde si può leggere in tutte le consulte che vennero prodotte in ciascuna di queste quattro diocesi, di cui per esempio riportiamo una dell’arcidiocesi di Brindisi del 1638:

«en el Reyno de Napoles [V.M.] ay dos iglesias libres de alternativa que se proveen siempre en forasteros que son la de Brindiz y la de Gaeta, por ser estas ciudades puestos tan importante que se tienen por llaves del Reyno, estando Brindisi a la parte del mar Adriatico con puesto muy grande, capaz de una muy gruessa armada y tiene dos castillos uno en tierra y otro en mar y Gaeta a la entrada del Reyno por la parte del Estado ecclesiastico y por la recompensa desto esta a justado con el Reyno que las iglesias de Motula y de Oria se ayan de dar siempre a naturales»171.

171 È quanto dice il Consiglio di Italia per giustificare l’occasionale nomina di un regnicolo a Brindisi nella persona di Francesco Surgente, AHNM, Estado, leg. 2049, Consulta per la nomina dell’arcivescovo di Brindisi del 26 agosto 1638.

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Nelle altre venti diocesi del Regno, invece, si doveva osservare il privilegio dell’alternativa, con tutti i limiti ad esso connessi, rivelandosi, talvolta, più difficile del previsto darne attuazione, per la frequente indisponibilità dei prelati, ma in generale anche per la scarsa chiarezza in merito all’alternativa. Stando alle richieste della aristocrazia napoletana l’alternativa doveva essere applicata in qualunque circostanza vacasse la diocesi, «giacchè non mancano mai soggetti meritevoli tanto napoletani, quanto regnicoli»172. Diversamente, in un regime di totale arbitrarietà della Corona, la Corte madrilena si atteneva all’alternativa solo nei casi di morte dei vescovi. Le discussioni del Consiglio sono ancora una volta la guida per ricostruire contesti, situazioni ed eccezioni del reclutamento episcopale. Prendiamo, ad esempio, il caso della nomina del vescovo di Cassano, discussa a Madrid il 28 gennaio 1613.

La diocesi di Cassano risultava vacante per la promozione dell’allora vescovo, il cardinale romano Bonifacio Caetani, all’arcidiocesi di Taranto, chiamato a reggere la diocesi calabrese quattordici anni prima come forestiero173. Con l’occasione il sovrano chiedeva al Consiglio di Italia di proporre Diego de Arzes, semmai la diocesi di Cassano fosse toccata a un forestiero. L’osservazione del Re lascia intendere qualche segno di incertezza sull’effettiva applicazione del privilegio. Il Consiglio, coglieva il pretesto per una disamina sul rispetto dell’alternativa fino a quel momento, passando in rassegna alcuni casi precedenti e