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Giochi di potere: la dialettica politica tra centro e periferia

I vescovi di regio patronato: spazi, tempi e modalità di nomina

III.3. Giochi di potere: la dialettica politica tra centro e periferia

Una volta indicate le tappe dell’iter procedurale seguito per la nomina dei vescovi è opportuno dedicarsi a qualche considerazione sulla dialettica che si apriva tra centro e periferia per giungere alla scelta del candidato da destinare alle mense vescovili di nomina regia. Un discorso di questo tipo arricchisce anche il quadro delle eccezioni e dei casi singolari cui abbiamo in parte accennato finora, alcuni dei quali erano in realtà peculiarità specifiche di contesti che, volta a volta, scandirono il reclutamento dei vescovi di nomina regia. Si tratta, in effetti, di riflessioni che nascono da un’analisi condotta su un campione di dati molto esteso, sia dal punto di vista territoriale, investendo tutte e ventiquattro le diocesi del Trattato, sia di quello temporale, che copre i due secoli della presenza spagnola nel Regno. Solo un panorama così vasto ci può guidare all’individuazione dei differenti approcci relazionali tra i centri di potere chiamati a intervenire nel processo di nomina. Alla presentazione dei vescovi partecipavano, come abbiamo visto, soggetti politici ben definiti e distinti tra loro, ciascuno portatore di aspettative, interessi e fazioni determinate: il Viceré a Napoli, il Consiglio di Italia e il Re in Castiglia, il Papa a Roma30. Ad ognuno di essi si riconducono testimonianze certe, tramandate materialmente dalle carte da loro prodotte - viglietti vicereali, consulte, processi concistoriali e bolle di nomina -, ma ovviamente non si devono escludere quelle trame a noi “invisibili”, ma percettibili nei nomi e nelle carriere di ciascun candidato scelto nell’ambito delle reti di rapporti interpersonali e internazionali.

Un legame persistente tra tutti questi centri di potere si coglie anche nella “logica del ricambio” - come è stata definita da Aurelio Musi -, che sottendeva al sistema delle autorità di governo spagnole, alla carriera e alla formazione politico-amministrativa, per esempio, dei viceré di Napoli. Dalla carriera “itinerante” di questi funzionari riteniamo si possa rintracciare il trade union degli equilibri e delle alleanze tra centro e periferia e, dunque, degli ufficiali - fossero essi laici o ecclesiastici -, di volta in volta, candidati dagli stessi viceré o dai reggenti del Consiglio di Italia. Per chiarire, molti ambasciatori spagnoli a Roma avrebbero in seguito vestito i panni vicereali in uno dei reynos della Monarchia e, successivamente, sarebbero

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Sulla categoria storiografia della “fazione” e del “conflitto fazionale” si rinvia a F. Benigno, Conflitto

politico e conflitto sociale nell’Italia spagnola, in Nel sistema imperiale l’Italia spagnola, a cura di A. Musi, cit.,

pp. 115-146; Id., Specchi della rivoluzione. Conflitto e identità politica nell'Europa moderna, Roma, Donzelli, 1999; Id., Favoriti e ribelli. Stili della politica barocca, Roma, Bulzoni, 2011, pp. 21-42; O. Raggio, Faide e

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passati a occupare posti di prestigio presso la struttura polisinodale in Castiglia31. Proprio la mobilità nell’apparato di governo del sistema imperiale spagnolo permetteva agli ambasciatori, futuri viceré, di stabilire la rete relazionale cui attingere per segnalare il personale da indirizzare alla carriera politica o ecclesiastica.

Diversi sono stati gli studi finora dedicati al regio patronato, in Spagna più che in Italia, ma pochi - anzi nessuno - hanno posto l’attenzione sugli aspetti politici e, precisamente, sulle relazioni tra il centro e la periferia dell’Impero nell’ambito dei processi di nomina. Queste tematiche sembrano, talvolta, date per scontate o piuttosto, con una certa pertinenza, delegate alla ricostruzione del patronage, argomento che, per altro, incontra un ricca letteratura scientifica32. Per questo, avendo posto l’attenzione su un arco temporale molto esteso, riteniamo imprescindibile fissare i diversi momenti che hanno scandito la dialettica politica tra il centro, la corte castigliana con il Consiglio d’Italia e il sovrano, e la periferia, il Viceré, e capire, di volta in volta, dove pendesse l’ago della bilancia, quali fossero gli equilibri che orientavano le discussioni per le nomine vescovili. Fasi durante le quali, per altro, vediamo cambiare i profili degli ecclesiastici candidati, alla luce anche di una trasformazione più generale della fisionomia episcopale. Un discorso, quest’ultimo, altrettanto importante ai nostri fini, ma che rinviamo più avanti per una disamina più puntuale. Per il momento poniamo l’attenzione sul dialogo tra i centri di potere.

Sembra chiaro che tra il Trattato di Barcellona e gli anni Settanta del Cinquecento si possa collocare una fase di vero e proprio “rodaggio”, segnata da una sostanziale incertezza. Sono gli anni di Carlo V, sottoscrittore del Trattato e del figlio Filippo II, che mise mano concretamente all’impalcatura burocratica del consolidamento della Monarchia, preoccupandosi, tra l’altro, di trovare sedi, soggetti istituzionali e criteri per il reclutamento ecclesiastico andando via via a rafforzare secondo logiche e tempi comuni i diversi comparti della macchina istituzionale dell’Impero33. Un momento di svolta in questo periodo, quale

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Come è stato definito da Hernando Sánchez l’ufficio dell’ambasciata a Roma era una “pietra miliare” della carriera dei Viceré, cfr. C. J. Hernando Sánchez, Los virreyes de la monarquía española en Italia.

Evolucíon y práctica de un oficio de gobierno, cit., p. 57. Tra i viceré che avevano precedentemente ricoperto la

carica di ambasciatori ricordiamo, per esempio, Juan de Zuñiga y Requensens, Manuel de Zuñiga y Fonseca conte di Monterrey, il Cardinale d’Aragona e il fratello Pietro Antonio d’Aragona, per questo cfr. M. A. Visceglia, L’ambasciatore spagnolo alla Corte di Roma, cit., pp. 3-28; Ead., Roma papale e Spagna, cit., pp. 15- 48. In generale sulla formazione politica e sulle tappe della carriera vicereale si veda A. Musi, L’Italia dei

Viceré, cit., in particolare pp. 195-197; Istruzioni di Filippo III ai suoi ambasciatori a Roma, a cura di S.

Giordano, cit., pp. LIX-LXXXIX.

32 Rinviamo, per esempio, ai recenti lavori di F. D’Avenia, Partiti, clientele, diplomazia, cit., pp. 445- 490; Id., La feudalità ecclesiastica nella Sicilia degli Asburgo, cit., pp. 277-292.

33 Cfr. El Reino de Nápoles y la monarquía de España entre agregación y conquista (1485-1535), a cura di G. Galasso e C. J. Hernando Sánchez, Madrid, Real Accademia de España en Roma, 2004.

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termine post quem per porre le basi agli sviluppi successivi, va sicuramente fissato al 1579 quando vennero impartite le istruzioni per il Consiglio di Italia. È da quel momento che si passò effettivamente dal despacho a boca a quello scritto, avviando l’incremento, che sarebbe stato via via crescente, delle “carte burocratiche”. Le variazioni sostanziali delle consulte sono per noi l’unità di misura di come nel tempo mutò il sistema decisionale e, con esso, gli orientamenti dei centri di potere napoletani e spagnoli nell’assegnazione degli incarichi laici ed ecclesiastici. Il cambiamento del linguaggio politico, degli interessi e, in generale, delle relazioni tra centro e periferia è tangibile tanto nella consistenza materiale della documentazione, quanto per i suoi stessi caratteri intrinseci. Per intenderci, le discussioni delle prime nomine, negli ultimi decenni del Cinquecento, quando iniziò ad essere effettivamente operativo il Consiglio di Italia, si svolgevano direttamente sul viglietto del Viceré, in un sovrapporsi cronologico di scritture, tra proposta napoletana, rettifiche spagnole e nomina regia. Nel corso del Seicento le consulte, invece, divennero sempre più corpose, fino a includere dei veri e propri verbali delle sedute, che registravano il voto di ciascun reggente rispetto ai singoli candidati.

Procedendo con ordine, proprio dalle prime consulte, ancora “acerbe” dal punto di visto di un dibattito politico, emergono maggiormente gli indirizzi e gli orientamenti della corte vicereale. In questa fase il Consiglio di Italia si limitava semplicemente a convalidare la proposta napoletana, in veste di semplice intermediario tra il Viceré e il sovrano. L’intervento dell’organo consiliare, in qualche caso, consisteva nell’integrare la proposta giunta da Napoli con informazioni specifiche in merito ad alcuni candidati, ma ancora non era partecipe a pieno titolo alla scelta del presule. Erano ancora assenti le posizioni del Consiglio di Italia o dei suoi singoli reggenti. Certamente anche per questi motivi, le scelte ricadevano quasi sempre su personaggi dell’aristocrazia napoletana e romana, risultando ancora incerta l’applicazione dell’alternativa e, quindi, l’inserimento di spagnoli nel corpo ecclesiastico del Regno.

Esaurito questo periodo di sperimentazione, si aprì una fase di “assestamento procedurale”, durante la quale l’iter procedurale era ormai maturo dal punto di vista burocratico e i criteri per le nomine vescovili potevano essere attuati senza troppi ostacoli. Gli anni di Filippo III viderono svilupparsi il dibattito politico che andò via via accentuandosi con il radicamento aristocratico e, in particolare, castigliano nei centri di potere della monarchia. Si assistette in questa fase alla comparsa del ministro privato del re - il valido -, attorno al quale si riunì una fazione che, pur dipendendo sempre dalle grazie del sovrano, d’ora in

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avanti ebbe il controllo anche del sistema delle nomine episcopali34. Il dibattito politico trovò allora la sua forma di espressione nelle consulte, che divennero gli atti ufficiali con cui siglare gli orientamenti del Consiglio di Italia, assumendo la forma di veri e propri verbali delle sedute. L’organo madrileno non era più un semplice intermediario che “istruiva” la pratica reale, ma divenne da questo momento parte attiva nella selezione dei vescovi. La terna vicereale veniva effettivamente discussa dai reggenti del Consiglio di Italia, che vagliavano la proposta, approvandola, integrandola, dando un diverso ordine di preferenza ai candidati e, il più delle volte, contrapponendo una propria proposta. I termini e gli esiti di queste discussioni variarono nel tempo. Nel corso della seconda metà del Cinquecento, sembra evidente il prevalere delle preferenze del Viceré, che vengono controllate e ratificate in Spagna. In seguito, nell’età di Filippo III, fase di apogeo della Monarquía, subentrarono fattivamente gli indirizzi del Consiglio di Italia e, più in particolare, del gruppo politico riunito intorno al valido.

La “relativa parsimonia di patronage” del Rey prudente - come è stata definita da Francesco Benigno - era ormai lontana; la consolidata partecipazione politica delle strutture statali aveva aperto la strada all’incremento sempre maggiore della corresponsione di mercedes alla fedele aristocrazia. Una consuetudine, ormai, che - a dire di Carlos José Hernando Sánchez - era alla base del mantenimento dell’equilibrio tra gli spazi politici che si andavano formando attorno alla corti vicereale e reale e necessari al funzionamento della monarchia35. In un contesto del genere le diocesi di regio patronato erano humus fertile per coltivare alleanze e consolidarne di già esistenti, concedendo la dignità prelatizia come ricompensa di meriti conseguiti per i servizi prestati alla Corona, tanto dal diretto interessato quanto, e soprattutto, dai suoi familiari. Per questo, Viceré e reggenti del Consiglio di Italia, proponevano con insistenza propri conoscenti o candidati a loro segnalati, in una dialettica sempre più vivace che si legge nella febbrile mobilità degli ecclesiastici tra le varie diocesi del Regno. Alcuni prelusi all’indomani della designazione erano già trasferiti in sedi ritenute più prestigiose.

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Sull’origine del valimiento, sulle carriere e sui profili dei validi cfr. Los validos, editado por J. A. Escudero, Madrid, Dykinson, 2004; F. Benigno, L’ombra del re, cit.; Id., Favoriti e ribelli, cit., pp. 21-100; M.A. Visceglia, L’ambasciatore spagnolo alla Corte di Roma, cit., p. 6.

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Un riscontro diretto è offerto da C. J. Hernando Sánchez, Los virreyes de la monarquía española en

Italia, cit. Tutto questo fu l’esito di un lungo travaglio intorno alla gestione del potere apertosi già sotto Carlo V

e fortemente accentuatosi con il regno di Filippo II, per questo cfr. G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il

Mezzogiorno spagnolo (1494-1622), cit., pp. 852-860; F. Benigno, L’ombra del re, cit.; E. Novi Chavarria, Corte e Viceré di Napoli nell’età di Filippo IV, in corso di stampa.

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Su questa scia, la dialettica tra Napoli e Madrid si fece sempre più vivace. Durante il regno di Filippo IV, infatti, si registrò il maggior numero di consulte e un’accesa dialettica tra il potere vicereale e il potere regio in Castiglia. Delle circa 380 consulte - discusse dagli anni Ottanta del Cinquecento al primo decennio del Settecento - il 45% si colloca nella seconda metà del Seicento. I dibattiti erano più attivi all’interno del sistema consiliare e tra i soggetti chiamati a reclutare gli ecclesiastici. Eppure ci sembra di poter dire che si trattasse in definitiva di una dinamica tutta castigliana. Infatti, pur registrando scelte da parte del Re nei confronti di candidati proposti dal Viceré, questi erano sempre prima approvati dal Consiglio. Difficilmente accadeva che il sovrano indirizzasse le proprie preferenze verso ecclesiastici non approvati o depennati dal Consiglio di Italia. I verbali delle sedute di questo periodo furono sempre più densi e ricchi, registrando questa volta il voto dei reggenti contrari alla terna di preferenze avanzata dalla maggioranza del Consiglio di Italia e che quindi chiedevano di far conoscere al sovrano le proprie singolari preferenze.

Era chiaramente una dialettica serrata e che a lungo andare risultò fin troppo frenetica, richiamando l’attenzione di Filippo IV che provò a moderare questi eccessi. Il sovrano più volte, infatti, annotò sulle consulte richiami informali al Consiglio, chiedendo di ridurre la mobilità dei presuli nella rete del patronato regio, per permettere agli stessi di stabilirsi in diocesi, di conoscerne il territorio e la popolazione per governarla adeguatamente. Al perseverante atteggiamento del Consiglio, il Re rispose con un decreto nel 1656, del tenore che segue:

«Haviendose me representado en diferentes tiempos y ocasiones los graves incovenientes que se siguen de la facil y breve mudanca de los obispos, promoviendo los tan de ordinario y frequentemente de una iglesias a otras con que viene a estar en todas cassi de passo y sin el tiempo suficiente y necessario para que se le establezca el amore y cariño que devien tener a las iglesias que dios le ha dado por esposas, con quien tienen contracto verdadero y spiritual matrimonio. Como tampoco pueden ad quieren a quel conoscimiento practico y seguro que como verdadero pastores deven tener de sus operas ni cobrarlas a quel amor paternal que se engendra y perficiona con el tracto y enseñanza al largo tiempo para curar sus emfermedades spirituales y el remedio de las temporales que padecieren. Por lo que he considerado que no se deven continuar estas translacciones tan de ordinario como por lo passado se ha hecho y que si tal vez se juzgaré conveniente hacer alguna translacion de una iglesia a otra a desen por a quellas iustas y bien examinadas causas que disponen y señalan los sacros canones y el comun sentar de los teologos encaminado todo al mejor governo de las iglesias y de las almas que le

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estan encargadas y no anidar mayores rentas al prelado que se halla en iglesia mas pobre cuando sin las causas de ellas se hacen las promociones.

Siendo tambien de reparo aunque en consideracion de orden inferiore por ser temporal los gastos continuos que se hacen de nuevas bullas y niundanza de cassa y familia en lo qual sin necessidad y sin fructo ninguno se consume mucha parte de hacienda de haciendose causal de las iglesias que esta dedicado para el socorro y alcuno de los pobre faltandose poreste medio al complimento de tan principal obligacion.

Deseando yo por el descargo de mi conciencia y por el mayor bien de mis vassallos que Dios ha puesto a mi obediencia que las presentaciones de prelados para las iglesias se hagan con la devida circunspecion asistiendome los consejos a quien tocan las provissiones con el desuelo de Dios y mio si bien no se puede dar regla general en esta materia que la comprehenda enteramente pues de las occasiones circustancias depende la excepcion o limitacion que puede tener.

Ordeno que de acqui adelante se tenga particular cuidad de no proponerme semesante transalcion sin mui calificador y justa caussa; pues demas de hacerse en esto lo que piden las consideraciones arriba defendas. Es bien que entiendan todos los prelados que no an de tener ascensso ni dar por sentado las translacciones como se ha practicado pro lo passado quitadole las occasiones de que estan as pirundo a mayo ascensso y con poca quietud y sosiego y desconsuelo en la que dios les ha dada. Pues mi animo y voluntad es que guardando las disposiciones referida de los sacros canones y a justando las causas de las translaccione se atienda en ellas solamente al magnifico dien de la iglesias el que deve prepondera a todo»36.

È probabile che gli indirizzi del sovrano derivassero da alcune disposizioni della Curia romana. Infatti, da una consulta del luglio 1656 per la nomina dell’arcivescovo di Brindisi, alla proposta del viceré Conte di Castrillo di proporre il trasferimento del vescovo de L’Aquila Francisco Tello, leggiamo la risposta del Consiglio di Italia che non accolse la candidatura perchè non erano trascorsi tre anni dall’insediamento dell’ecclesiastico nella diocesi dell’Abruzzo Ultra37.

Il caso, però, si presenta abbastanza isolato. In effetti, i repentini trasferimenti degli ecclesiastici da una diocesi all’altra continuarono ancora per qualche tempo.

Messa da parte l’ennesima preoccupazione “pastorale” dei sovrani spagnoli di rispettare i dettami della Chiesa romana, quasi a garantirsi il consenso della stessa, è necessario segnalare, tra gli anni Sessanta e Settanta del Seicento, una fase politica parecchio

36 AHNM, Estado, leg. 2049. 37

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delicata nel confronto tra i poteri politici del centro e della periferia del sistema imperiale spagnolo. Si tratta del periodo che più di ogni altro, incontrò la totale autonomia e il distacco del potere decisionale del Consiglio di Italia e, con esso, del sovrano, dalle proposte che giungevano da Napoli.

Indipendentemente dai motivi di vacanza delle mense episcopali il Consiglio di Italia, nella maggior parte, dei casi bocciò ripetutamente le terne trasmesse da Napoli, preferendo in molti casi non interpellare proprio il Viceré e procedere autonomamente nelle proposte da inviare al Re. Le consulte vedono, in questo periodo, una distinzione costante tra terna vicereale e candidati del potere regio. A volte, le proposte napoletane non venivano neanche discusse o bocciate, ma semplicemente si “verbalizzava” l’avvenuta trasmissione del viglietto vicereale, per procedere alla proposta di ecclesiastici tra i favoriti della Corte castigliana. Il responso del sovrano si rivolgeva sempre in favore dei candidati del Consiglio o, con una frequenza di gran lunga maggiore rispetto al secolo precedente, per cooptazione diretta. Sono gli anni in cui la potenza spagnola, dopo Westfalia, stava volgendo verso il declino e continuava a essere minata da emergenze di diverso tipo e su diversi fronti, a partire proprio dai focolai rivoluzionari che dalla Catalogna interessarono via via anche il Regno di Napoli con i moti rivoluzionari masaniellani, poi il Regno di Sicilia con la rivolta di Messina e fino al Regno di Portogallo. Il culmine di questa situazione politica fortemente precaria si raggiunse nel 1668, apice della crisi e del processo di restaurazione dopo i moti masaniellani, nei mesi più difficili del viceregno del cardinale d’Aragona e del golpe da parte di don Giovanni d’Austria38. Nell’ambito della dialettica tra centro e periferia per le nomine vescovili si assistette a un vero e proprio isolamento politico del potere decisionale del Viceré. In tutte le diocesi che a quell’anno si trovarono vacanti, il Consiglio procedette senza consultare il Vicerè39.

I momenti immediatamente successivi ai moti rivoluzionari che interessarono il Regno di Napoli, videro chiaramente la preferenza di ecclesiastici che avevano personalmente servito la Corona o i cui familiari avevano contribuito alla difesa del potere regio nel Regno40.

38 Un’analisi attenta della Napoli spagnola dai moti rivoluzionari del ’47 alla fine dell’età spagnola è contenuta in G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello. Politica, cultura, società, Firenze, Sansoni, 1982, 2 vv..

39 Sulla situazione politica, economica e sociale del Regno di Napoli al 1668 Cfr. G. Galasso, Il Regno

di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco (1622-1734), cit., pp. 600-621.

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Sulle “rivoluzioni contemporanee” - come le ha definite Francesco Benigno - che coinvolsero negli anni Quaranta e Cinquanta del Seicento i diversi reynos della Corona si rinvia a F. Benigno, Specchi della