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Le rendite episcopali: il caso di Trivento

1529: la pace tra Carlo V e Clemente

II.4. Le rendite episcopali: il caso di Trivento

È noto che le diocesi del Regno di Napoli fossero tra le più povere all’interno del sistema imperiale spagnolo e questo, di per sé, giocava un ruolo determinante nella scelta degli ecclesiastici da destinare alle diocesi e arcidiocesi del Regno di Napoli. Infatti, il fattore economico, congiuntamente a quello politico, era determinante nelle nomine vescovili nei diversi domini della Monarquía. La conseguenza più evidente, allo scenario che andiamo ad esaminare, era caratterizzata dal diverso profilo degli ecclesiastichi e più, in generale, dei diversi cursus honorum cui essi potevano aspirare nella geografia episcopale dell’uno o dell’atro reyno spagnolo. Per avere un’idea della diversa importanza economica delle mense episcopali dei domini spagnoli in Italia, basti pensare che le otto tra diocesi e arcidiocesi del Regno di Sardegna avevano rendite che si aggiravano intorno ai 15.000 ducati per Cagliari e i 10.000 per tutte le altre; solo Bosa aveva le rendite più basse, che comunque erano di 5.000 ducati49. In Sicilia le rendite tendevano ad abbassarsi. Delle nove diocesi e arcidiocesi siciliane - compresa Malta - il valore più alto, alla metà del Seicento, era per Monreale di 15.700 ducati e quello più basso per Malta, con 1.300 ducati. Le altre mense episcopali avevano rendite che si aggiravano mediamente intorno ai 4.700 ducati50.

Spostandoci poi nei domini della penisola iberica le rendite episcopali aumentavano vertiginosamente, con l’arcidiocesi di Toledo che aveva entrate annue di 154.000 ducati, seguita da Siviglia con 76.000 ducati. Le rendite più basse le aveva la diocesi di Almeria con 4.000 ducati. Per le altre diocesi e arcidiocesi si dichiaravano valori tra i 30.000 e 10.000 ducati51.

Un panorama che non lascia dubbi, quindi, sui motivi per cui, talvolta, sussistevano delle difficoltà nella ricerca di un ecclesiastico, perlopiù castigliano, propenso ad accettare le diocesi del Mezzogiorno d’Italia. Diverse sono le carriere che si possono tracciate per i vescovi chiamati a governare le diocesi dei Regni di Sicilia e Sardegna, rispetto a quelli del Mezzogiorno peninsulare. Sempre e, comunque, impegnati in incarichi di regio patronato, in Sardegna e in Sicilia, gli ecclesiastici poteva ambire a carriere di più ampio respiro e prestigio nelle più alte sfere politiche e istituzionali. Molti dei vescovi nominati nelle diocesi della Sardegna e della Sicilia, in seguito, furono nominati viceré in uno dei due Regni, o presidenti

49 Cfr. Ivi, pp. 350-356.

50 AHNM, Estado, leg. 2042, Relacion de los prelacios e prebendas ecclesiasticas de Sicilia, 8 novembre 1671.

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AGS, Patronato eclesiastico, leg. 155; J. Rodrìguez Molina, Poder polìtico de los arzobispos de

nel Regno di Sicilia. Si trattava, in particolare, del corpo episcopale di Cagliari e Palermo, per esempio, città tra le più prestigiose, rispettivamente del Regno di Sardegna e del Regno di Sicilia, nonchè sedi delle corti vicereali dei due reynos. In queste capitali il corpo episcopale svolgeva un ruolo politico che era del tutto assente nel Regno di Napoli: costituivano il cosiddetto “braccio ecclesiastico” nei Parlamenti cittadini, avendo per questo un certo margine decisionale e di partecipazione politica52.

In parallelo agli avvicendamenti episcopali in ciascuna diocesi e arcidiocesi di regio patronato va tenuto nella giusta considerazione il valore delle entrate episcopali. Un dato su cui il Consiglio di Italia voleva essere sempre aggiornato e su cui discuteva in apertura di ciascuna consulta. D’altronde, proprio la forte disparità delle rendite delle mense episcopali nei diversi domini dell’Impero spagnolo non lascia dubbi sulla necessità di commisurare la nomina vescovile all’importanza strategica ed economica degli stessi episcopati.

Le relazioni, contenenti indicazioni sulle entrate delle singole diocesi e arcidiocesi, che il Cappellano Maggiore di Napoli trasmetteva periodicamente a Madrid erano dei veri e propri strumenti di lavoro per il Consiglio di Italia. A partire proprio da questi dati il Consiglio di Italia avviava le discussioni per la scelta dei candidati cui affidare il governo delle diocesi di nomina regia.

Un confronto sui valori, di volta in volta, dichiarati consente di ricostruire l’andamento delle rendite episcopali di regio patronato che riportiamo di seguito, distinguendolo, per comodità, tra arcidiocesi e diocesi (figg. 3 e 4).

52 Per la Sardegna cfr. R. Turtas, Storia della chiesa in Sardegna, cit., pp. 343-350; J. Day, B. Anatra, L. Scaraffia, La Sardegna medioevale e moderna, in Storia d’Italia, X, a cura di G. Galasso, Torino, Utet, 1984, pp. 388-390; A. Marongiu, I parlamenti sardi. Studio storico, istituzionale e comparativo, Milano, Giuffrè, 1979. Per la Sicilia cfr. F. D’Avenia, La feudalità ecclesiastica nella Sicilia degli Asburgo, cit. Sia nel caso siciliano che in quello sardo mancano lavori che mettano in evidenza quanto stiamo dicendo. Alcune deduzioni possono essere fatte confrontando le cronotassi delle diocesi sarde e siciliane con le serie dei viceré di sardegna e dei viceré e presidenti di Sicilia, per questo si veda C. Eubel, Hierarchia catholica, cit.; R. Pirri Sicilia sacra.

Disquisitionibus et notis illustrata, Panormi, apud Hieronymum de Rossellis, 1773, I, p. 241-244; G.

Evangelista, Storia cronologia de’ viceré, luogotenenti e presidenti del Regno di Sicilia, Palermo, dalle Stampe di Solli, 1791; G. E. Di Blasi, Storia cronologica de’ vicerè, luogotenenti e Presidenti del Regno di Sicilia, Palermo 1790-91; J. Mateu Ibars, Los virreyes de Cerdena. Fuentes para su estudio, Padova, CEDAM, 1964- 1967, 2 vv.

Le fonti cui abbiamo attinto - relative agli anni 1566, 1574, 1591, 1620, 1627, 1661, 1669, 1675 - contengono le entrate calcolate sui valori medi del triennio precedente alla stesura delle singole relazioni. Nella maggior parte dei casi le stesse relazioni indicavano anche la natura delle rendite. Ed è proprio l’analisi della natura e delle tipologie delle entrate episcopali a costituire un primo discrimine utile per un’analisi economica della geografia episcopale di regio patronato nel Regno di Napoli. La maggior parte delle entrate episcopali derivava dalle decime esatte in denaro o, più diffusamente, in derrate alimentari. Per altro, in questo ultimo caso, le rendite erano calcolate sulla base della vendita delle derrate, con le conseguenti variazioni per gli altalenati valori delle rendite in funzione dei buoni e cattivi raccolti oltre che degli stessi prezzi dei prodotti. Già quando i commissari della Sommaria iniziavano a raccogliere le prime informazioni, per la relazione del 1574, avvisavano di aver trovate le diocesi:

«diminuit[e] d’entrate il che arbitramo sia causato atteso che nell’anno 1564 fu grandissima penuria et li grani, vettovaglie et altre cose valsero gran prezzo et come che l’intrate di detti iuspatronati regii la maggior parte consistono in grani, orzi, vettovaglie, vini, ogli et altre cose da mangiare. Dall’anno 1568 per tutt l’anno 1572 hanno valuto al prezzo raggionevole si come cista per l’informazione che ne sono state preso et nell’anno 1569 che fu la penuria a tempo della raccolta valsero manco prezzo di quello fu stabilito per la regia pragmatica per tal causa come è detto arbitramo posser causato detto mancamente estado»53.

Proventi di diversa natura potevano derivare oltre che dall’affitto di terreni anche dall’esercizio di giurisdizioni feudali. Sono nove le diocesi di regio patronato da ascrivere a quest’ultimo caso, con gli esempi più rilevanti nella Terra d’Otranto, dove gli arcivescovi di Otranto e Taranto avevano anche la titolarità di sette feudi la prima e cinque la seconda, nell’ambito delle rispettive circoscrizioni territoriali. Seguivano, secondo un ordine decrescente, le arcidiocesi di Reggio, Salerno e Brindisi, con tre feudi la prima e due feudi le altre due. Avevano uno o al massimo due feudi anche i vescovi di Ariano, Cassano e Monopoli54.

53 AHNM, Estado, L. 394, f. 691.

54 Per l’analisi delle entrate delle diocesi e arcidiocesi sono state consultate le relazioni redatte dal Cappellano Maggiore di Napoli per il Consiglio di Italia di cui si dirà più avanti. Per ora, cfr. G. Brancaccio,

Arcivescovati, vescovati, abbazie e benefici ecclesiastici di giuspatronato regio, cit. Sulle giurisdizioni feudali

esercitate delle istituzioni ecclesiastiche e, in particolare, dal corpo episcopale di regio patronato si veda E. Novi Chavarria, La feudalità ecclesiastica: fenomeno “residuale” o feudalesimo moderno? in Studi storici dedicati a

Lungo tutto il Cinquecento e fino ai primi decenni del Seicento si registrò un graduale aumento delle rendite che raggiunsero il picco massimo negli anni venti del Seicento55. Al 1627 l’arcidiocesi con le maggiori entrate era Taranto con 10.000 ducati, seguita da Cassano con 8.000 ducati.

In seguito le rendite subirono una lenta decrescita arrivando a registrare, nel 1669, valori pari alla metà, nel caso di Taranto, e inferiori alla quarta parte, nel caso di Cassano, che dichiararono rispettivamente rendite di circa 5.500 ducati la prima e di 2.050 ducati la seconda.

In una graduatoria delle ventiquattro Chiese di regio patronato la diocesi di Trivento si collocava in un’area, potremmo dire, mediana con valori pari alle arcidiocesi di Trani e alle diocesi di Ariano, Mottola e Ugento. Le rendite più basse erano dell’arcidiocesi di Lanciano e della diocesi di Castellamare, che nel 1620 raggiunsero appena i 750 ducati.

Di seguito riportiamo l’andamento delle rendite di Trivento nel corso dell’età spagnola, dedotto dalle relazioni del Cappellano Maggiore di Napoli (fig. 5).

Fig. 5 - Rendite della diocesi di Trivento

feudalità ecclesiastica, cit., pp. 353-386, da quest’ultimo lavoro sono state tratte le notizie qui riportate,

sull’estensione delle giurisdizioni feudali nelle diocesi di regio patronato, in particolare pp. 369-386.

55 Cfr. L. Palermo, Il denaro della chiesa e l’assolutismo economico dei papi agli inizi dell’età

moderna, in Chiesa e denaro tra Cinquecento e Settecento. Possesso, uso, immagine, a cura di U. Dovere,

Diverso è, invece, l’esito del confronto delle rendite della diocesi di Trivento con quelle delle altre diocesi del Molise moderno, come mostriano di seguito (fig. 6)56. La diocesi di Trivento superava tutte le altre del 10-20% sul totale delle rendite.

Fig. 6 - Rendite delle diocesi del Contado di Molise57

Come dichiarava il Cappellano Maggiore in una relazione sui “ministri e officiali” del Regno di Napoli, presumibilmente dei primi anni del Seicento:

«Il vescovado di Trivento è pure di jus patronato regio et esigge le sue intrate: da un jus chiamato quarta in pecunia che s’esigge in detta Città e sua diocesi ogn’anno nella festività dei SS. Nazario e Celso; dal censo d’otto castrati che ogn’anno pagano otto abati; dal prezzo di libre 113 ½ di cera che pagano le predette chiese; all’infrascritto mortori, cioè d’Agnone, Alfidena, Caccavone, dalla terra di Casali e Celenza; da grani che pervengono dalli territori di detto vescovato, orgio e vini, in tutto nell’anno 1591 vend[ut]i ducati 2.378»58.

La forte lacunosità dell’Archivio Storico Diocesano, in cui manca una documentazione seriale utile a un’attenta disamina delle rendite episcopali, in parte è colmata da alcuni documenti della Camera della Sommaria nei periodi di vacanza della diocesi. Da quest’ultimi raccogliamo informazioni più dettagliate sulla natura delle rendite, che in realtà finiscono per confermare la nostra tesi di una realtà diocesana davvero molto povera, i cui

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Sul panorama diocesano del Molise moderno rinviamo a L. Donvito, B. Pellegrino, Organizzazione

ecclesiastica degli Abruzzi e Molise, cit.; G. Brancaccio, Il Molise medievale e moderno, cit., pp. 42-45, 112-

113; E. Novi Chavarria, Comunità e istituzioni ecclesiastiche in Molise, cit., pp. 411-429. 57 Dati ricostruiti a partire da C. Eubel, Hierarchia catholica, cit., ad vocem. 58

proventi derivavano dalla riscossione in natura del cosidetto cattedratico. Quest’ultimo era esatto ogni anno nel giorno patronale dei Santi Nazario e Celso, il 18 luglio, davanti la cattedrale cittadina ed era riscosso esclusivamente con beni in natura che, nell’ordine, erano grano, orzo, speltra, olio e vino e che, poi, sarebbero stati venduti dalla Mensa 59.

L’imposizione del cattedratico non era uguale in tutte le comunità della diocesi, ma non abbiamo alcuna notizia sulle modalità della sua imposizione60. A partire da alcune fonti a nostra disposizione abbiamo potuto stimare che, nel 1571, per esempio, furono riscossi 1.016 tomoli di grano, 40 tomoli di orzo, 15 di spelta, 20 tomoli di olive, 25 barili di vino. Tutti questi beni avevano fruttato complessivamente la somma di 150 ducati e mezzo.

Solo nel corso della prima metà del Seicento si ha notizia dell’attività di alcuni vescovi intenzionati a impegnare parte degli introiti della diocesi in beni stabili. Ricordiamo, per esempio, l’attenzione con cui il vescovo Paolo Bisnetti de Lago, tra gli anni 1615 e 1618, rinnovò alcuni contratti di enfiteusi perpetua per alcune vigne di proprietà della mensa episcopale. Per esse fu stabilita la corresponsione annua, nello giorno patronale, di 5 carlini, oltre alla riscossione della decima parte del raccolto. Il vescovo, probabilmente, intendeva risollevare le sorti della diocesi, aumentandone le rendite, Egli, per questo, si preoccupò di migliorare anche le condizioni delle vigne che versavano in cattive condizioni a causa della totale incuria dei suoi ultimi affittuari. Nel 1617, per poter stipulare un nuovo contratto in enfiteusi per una vigna sita al luogo detto le Pischiole, nel territorio di Trivento, il de Lago, a proprie spese, fece «vitare, impalare et accomodare di fratte, rasole fossi et d’ogni cosa necessaria» l’intera vigna. Lo stesso vescovo vendette, sempre a Trivento, una casa di più membri nella piazza della Città, sostenendo che la stessa non avesse alcuna utilità per la mensa episcopale.

In seguito, solo negli anni Sessanta del Seicento torniamo ad avere notizie sull’acquisto e, poi, sull’affitto di beni stabili, per iniziativa del vescovo Vincenzo Lanfranchi. Quest’ultimo, infatti, fece un lascito testamentario in favore della mensa episcopale di Trivento per la somma di 40 ducati annui con l’onere di celebrare una messa in suo suffraggio nell’anniversario della sua morte. Le somme così ottenute furono utilizzate per l’acquisto di due case di più membri a Trivento e in altre vigne nelle campagne circostanti61. Ed ecco, quindi, che nel rendiconto delle entrate episcopali del 1676 si potevano distinguere: il

59 È quanto emerge dalle relazioni ad limina, dalle visite pastorali e dai documenti della mensa episcopale di Trivento ASDT, Visite ad limina, b. 1; Ivi, Visite pastorali, bb. 1-2.

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ASNa, Regia Camera della Sommaria, Liquidazione dei conti, Dipendenze della Sommaria, I serie, b. 309/I.

61 ASCb, Notai, Trivento, De Letis Maurizio, scheda 4, 18 marzo 1615, ff. 149r-150v; 8 marzo 1618, ff. 9r-10r; 27 marzo 1618, ff. 13r-14r.

cattedratico pari a oltre 580 ducati; i censi derivanti dagli affitti delle case a Trivento per altrettanti 582 ducati e, infine, altri 589 ducati derivanti dai censi sulle vigne62.

Mancavano del tutto proventi da qualunque diritto probitivo o di giurisdizione feudale, a dimostrazione di una povertà probabilmente già latente all’inizio dell’età spagnola, ma che non lasciò spazio a riprese nel corso del XVII secolo, segnando per la diocesi un declino senza ritorno63.

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ASNa, Regia Camera della Sommaria, Liquidazione dei conti, Dipendenze della Sommaria, I serie, b. 309/I.

63 Alla metà del Settecento, infatti, la diocesi aveva rendite ancora più basse, pari a 900 ducati, cfr. V. Ferrandino, Patrimonio e finanze degli enti ecclesiastici di Trivento, cit..

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CAPITOLO III