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Dall’io cosciente alla dialettica Signoria-Servitù

Il Servo e il Padrone “eternamente” fatti l’uno per l’altro

1.1. Dall’io cosciente alla dialettica Signoria-Servitù

Si potrebbe teatralmente dare il «benvenuto nel regno della vita», ma significherebbe certamente fare arrossire in un colpo solo tanto Kojève quanto Hegel stesso. L’autocoscienza che diventa “cosciente” di se stessa, l’Io, la prima negazione andata a buon fine nei confronti della “coscienza” indistintamente intesa, è in realtà, più che il regno, l’unico e ineludibile teatro della vita “umana”. È qui che si apprendono gli strumenti perché la realtà possa apparire nella sua forma più piena, nella sua forma storica. La vita appunto, la quale si realizza a partire dalla sua entelechia fino a formare una totalità articolata; questa poi ritorna ogni volta nella totalità inarticolata. La vita può riconoscere se stessa e ciò avviene nell’uomo che è consapevole di sé e del mondo. Come si «realizzi» tale consapevolezza e verso qual «mondo» sia rivolta è proprio l’obiettivo di questo capitolo. Infatti, il riconoscimento di se stessa è per la vita, allo stesso tempo, anche il riconoscimento dell’autocoscienza, l’approdo accettato non come definitivo ma come inevitabile del suo sviluppo dialettico.

Esaminiamo, allora, sotto la guida di Kojève, il capitolo IV della Fenomenologia dello Spirito, intitolato La verità della certezza

di se stesso (Die Wahrheit Der Gewissheit Seiner Selbst). In esso,

attraverso l’educazione della “coscienza” incolta, sembra doversi rendere esperibile il fatto che i momenti strutturali, non solo della vita, ma anche e soprattutto del conoscere determinino la realtà e

che, di conseguenza, possa essere raggiunta “la verità della certezza di sé”. In realtà, è solo in un secondo momento che Hegel ha indicato questo processo esperienziale come momento dell'autocoscienza, ovvero della vita autocosciente o dell'autocoscienza vivente.

È d’uopo, a questo punto, precisare preliminarmente che l’analisi del testo hegeliano che si svilupperà nel corso del presente capitolo, lungi dall’avanzare pretese esegetiche di sorta, in realtà sarà totalmente guidata dalla lettura che ne fornisce Kojève nelle sue lezioni. In effetti, il nostro intento qui non è quello di offrire una nuova pista interpretativa dell’opera hegeliana, bensì di rintracciare la possibilità di scorgere, non solo le aderenze fra i due pensatori, ma soprattutto le discordanze, che in realtà determinano quelle fessure ermeneutico-speculative, nelle quali proliferano le questioni, tanto teoretiche quanto storiografiche, di cui cercheremo volta per volta di mettere brevemente a parte il lettore. La qual cosa è resa possibile dallo spessore indiscutibile della riflessione di Kojève, che gli consente d’instaurare con Hegel un rapporto fecondo, che, travalicando la mera articolazione di autore-interprete, si rivela per certi aspetti decisamente paradossale, nella misura in cui il russo arriva a ritorcere l’hegelismo contro lo stesso Hegel1

.

L’esperienza cui si accennava sopra si articola, nella

Fenomenologia dello Spirito, essenzialmente in due parti:

innanzitutto, è trattata l'autonomia dell'autocoscienza nella vita naturale; quindi, la sua libertà o “ipseità”, nella quale però il singolo resta collegato con la totalità onnicomprensiva della vita stessa e dell'autocoscienza.

Nell’esame del capitolo IV della Fenomenologia dello Spirito

ci s’imbatte immediatamente in una difficoltà di natura strutturale: in effetti, se la sezione dedicata alla Coscienza si sviluppa perfettamente

1

È D. Auffret che fa notare che il Seminario sulla Fenomenologia dello Spirito, che Kojève tenne all’École Pratique des Hautes Études tra il 1933 e il 1939, «nella sua totalità, fu fondato su questo paradosso, difficoltà non solo teorica, ma a bella posta ben reale, e cioè quello di oltrpassare Hegel pur essendo più hegeliano di lui» [D. AUFFRET, Alexandre Kojève. La philosophie, l’État, la fin de l’Histoire, cit., p. 337].

secondo un’articolazione triadica, con i tre momenti della certezza sensibile (cap. I), della percezione (cap. II) e di forza e intelletto (cap. III), la sezione relativa all’Autocoscienza, invece, sembra disporsi in due parti, Signoria e servitù (sezione A) e Libertà dell’autocoscienza

(B), raggruppate sotto il movimento indicato dal titolo del capitolo,

La verità della certezza di se stesso. Secondo qualche interprete, in

questo luogo dell’opera di Hegel si esprimerebbe un’asimmetria del tutto evidente2

; altri studiosi, invece, sostengono che le pagine che precedono la figura dialettica di Signoria e Servitù, ben lungi dall’essere una mera introduzione ad essa, esprorrebbero, in realtà, un vero e proprio travaglio filosofico e costituirebbero il primo momento dello svolgimento di tutta la sezione dedicata all’Autocoscienza, che in questo modo ovviamente seguirebbe anch’esso un andamento triadico3

.

È noto che le prime tre figure dell'autocoscienza mostrano che, nella Lotta per la vita e per la morte, il Padrone è colui che afferma la brama di voler essere se stesso (ed essere riconosciuto), ma in seguito la necessità di salvaguardare la vita (e contestualmente la passività dell’autocoscienza che lo riconosce) pone il Servo sullo stesso livello del Padrone. Questa contrapposizione è infine risolta nel Lavoro che dà agli uomini il dominio sulle cose e sulla vita. Tale sviluppo dialettico introduce una seconda serie di figure, che affrontano ora il problema della libertà dell'autocoscienza, e s’identificano con lo Stoicismo, lo Scetticismo e la Coscienza infelice. S’intravede, già da questo schema generale, come la Lotta per il puro prestigio assuma centralità nel capitolo della Fenomenologia dello Spirito che ci accingiamo a ripercorrere: è in essa, infatti, che si performa l’azione umana, intesa in termini di negazione, la quale, negando l’immediatezza della dimensione naturale e data, innesca lo sviluppo

2

Si veda, ad esempio, R. C. SOLOMON, In the Spirit of Hegel, Oxford University Press, New York – Oxford 1983, p. 401.

3

Così, invece, secondo J. STEWART, The Architectonic of Hegel’s Phenomenology of Spirit, in Philosophy and Phenomenological Research, LV-4, 1995, pp. 747-776.

dialettico del mondo storico, che è la dimensione mediata in cui si esprime il Geist. Ed è proprio questo aspetto che c’interessa particolarmente approfondire, dal momento che costituisce uno dei punti nevralgici di tutta l’opera hegeliana, su cui si sofferma l’interpretazione di Kojève e dal quale trae spunto la parte più originale e feconda della su speculazione4

.

A partire dalla filosofia sociale e dalla storia dello Spirito Hegel propone una serie di esempi tutti volti ad illustrare (e già era accaduto precedentemente con il “questo”) come la realtà sia tanto oggettività e vita, qui intesa nella sua immediata datità, quanto autocoscienza.

Nonostante tutte le sue esigenze di libertà, infatti, l’autocoscienza resta comunque vincolata all’immediatezza dell'essere e della vita, vincolo dal quale deve liberarsi attraverso una scelta di

negazione. Kojève, al riguardo, puntualizza che se in senso “largo” la

Dialettica è la presenza simultanea di tre elementi (l’astratto, il negativo-razionale e il positivo-razionale), in senso “stretto” è il negativo il momento decisamente dialettico5

. Ma la coscienza “naturale” e non ancora coltivata (non ancora negata) fraintende questa negazione, concependola, in modo troppo limitativo, come una soppressione.

4

Come abbiamo accennato nel capitolo precedente, gli esiti della lettura kojèviana della Fenomenologia dello Spirito furono diversi e ramificati in ogni ambito della vita culturale della Francia del tempo. In alcuni casi, com’è inevitabile, si verificarono esagerazioni, che provocarono reazioni anche aspre, come quella di Châtelet: «da quando Hegel figura come “autore” o “argomento” dei concorsi per l’abilitazione dell’insegnamento (l’avvenimento conta meno di vent’ani!) e l’hegelismo è stato integrato dall’accademismo, la parte B, IV, a della Fenomenologia è divenuta – riassunta, verificata e chiarita – la torta alla crema di ogni insegnamento risolutamente progressista. Ne è il pezzo di bravura! Dimenticando, o fingendo di dimenticare, che questa dialettica è soltanto un momento della costituzione dello Spirito e che, nell’opera hegeliana, essa conduce a una forma ancora del tutto astratta di “libertà”, le viene conferita la virtù di rivelare congiuntamente tutte le dimensioni della condizione umana. Ed è verissimo che con un po’ di abilità retorica e qualche “fatto” ben scelto vi si può scorgere un’illustrazione di molteplici problemi “esistenziali”: il desiderio e l’Altro, il desiderio e la morte, la guerra e la paura, la sessualità animale e quella umana, la guerra e la rivoluzione, la lotta di classe» [F.CHÂTELET, la philosophie des professeurs, Paris 1970, pp. 72-73].

5

Secondo questo modo di vedere le cose, l’affermazione della vita e la negazione della sua immediatezza sono completamente opposte tra di loro allo stesso modo di come, nella Lotta per la vita e per la morte, lo sono il vincitore e il morto, di cui non resta che il cadavere, come Hegel farà notare successivamente nell’analisi della dialettica tra il Servo e il Padrone6

. E proprio questo è il punto. Sarà solo compito successivo dell’esperienza dimostrare che la negazione dell'immediatezza presente nell’autocoscienza deve essere concepita altrimenti e non può essere contrapposta astrattamente all'affermazione della vita. Tutt’altro. È la vita stessa che torna a se stessa. Nell'autocoscienza la vita-data negata deve perdere, sì, la sua immediatezza, ma deve anche continuare a sussistere come base dell’autocoscienza stessa, senza la quale ogni positività ulteriore sarebbe inutile. L’autocoscienza finirebbe per svuotarsi alla prima negazione della sua stessa immediatezza passando così dall’affermazione di esistenza al suo annientamento. Occorre una mediazione, una “razionale” quanto “reale” (e questa e quella) mediazione, che abbia gli strumenti per fornire negatività all’autocoscienza (che si vuole affermare) e positività a una coscienza immediata (che deve pur continuare ad esistere). È messo in gioco, qui, il circuito stesso dell’affermazione dell’autocoscienza

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In effetti è ormai convinzione comune che in questa figura Hegel ponga il tradizionale problema del passaggio dallo stato di natura a quello sociale, proponendone una soluzione altrettanto tradizionale, quale l’evento bellico da cui scaturisce l’articolazione dominazione- sottomissione, che s’incarna perfettamente nella dialettica tra Signoria e Servitù. La questione che si pone, tuttavia, al di là di questa considerazione, è la seguente: se è vero che la Fenomenologia dello Spirito offre delle indicazioni precise circa lo il percorso storico di sviluppo fenomenologico (e vedremo più avanti che il nostro filosofo parlerà esplicitamente di Stoicismo e Scetticismo, ma anche di ebraismo e cristianesimo medioevale), è possibile che Hegel alluda ad una realtà storica ben precisa, quando descrive la dialettica Signoria-Servitù? Landucci individua nelle pagine delle Lezioni sulla storia della filosofia un luogo ben preciso in cui Hegel stesso propone una soluzione: «la finitezza del volere è la caratteristica degli Orientali […]. C’è quindi solo lo stato del signore e del servo. È la sfera del dispotismo. La paura è la categoria dominante». Dunque, secondo Landucci, «il correlato che avrà avuto in mente Hegel per la figura in questione […] è il dispotismo, come formazione socio-politica caratteristica del mondo orientale» [S. LANDUCCI, Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazione alla “Fenomenologia dello Spirito”, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 102].

(SelbstBewußtsein), dell’Io, e questo deve avvenire in condizioni di perpetualità, di ripetitività senza pur essere ripetitivo.