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La Storia dall’inizio alla fine

1. Genesi della nozione

1.4. Debiti heideggeriani

In merito all’esempio dell’anello d’oro, è stato sottolineato che la nozione kojèviana di “Natura” reca in sé un certo carico di complessità: se essa, infatti, designasse semplicemente una sfera autonoma, che potrebbe essere compresa originariamente nei suoi principi costitutivi, l’ontologia di Kojève si ridurrebbe ad un ingenuo naturalismo pre-critico. A ben vedere però, il termine “Natura”, nella riflessione del russo, si pone come un concetto umano, «designato teticamente come polo d’indifferenzazione primordiale e innominabile»23

.

Ora, nell’ipotesi dualistica proposta da Kojève, l’ontologia «descriverebbe separatamente l’Essere che si realizza in quanto Natura e l’Azione che nega l’Essere e si realizza (nella Natura) in quanto Storia». Se il primo a proporre un tentativo di ontologia

dualistica è stato Kant, fra i suoi contemporanei Kojève individua

22

Ivi, p. 604.

23

Così secondo l’analisi penetrante di D. Pirotte, che continua affermando che «la natura è dunque questo “reale dato” che, dal di fuori (fuori di lui), l’uomo è portato a negare, rivelando mediante questo stesso atto di negazione la sua propria irrealtà, o negatività, e, al contempo, il dato naturale nella sua realtà o positività» [D. PIROTTE., Alexandre Kojève. Un système anthropologique, cit., pp. 55-56].

senza esitazione alcuna in Heidegger «il primo a porre il problema d’una duplice ontologia».

Per certi aspetti i debiti heideggeriani di Kojève sembrano del tutto evidenti24

: si pensi, ad esempio, a quanto l’idea di riduzione di ciò che è “fuori dal mondo” (inizialmente escluso nell’Ateismo) richiami il concetto dell’in-der-Welt-sein, esposto da Heidegger in

Essere e Tempo.

Questa espressione composita, come spiega il filosofo friburghese, partendo dalla considerazione dell’Esser-ci (Da-sein) «in quanto essere tenuto immerso nel nulla dell’Essere, tenuto come rapporto»25

, rivela già che si riferisce ad «un fenomeno unitario». Infatti, il Da-sein (che, com’è noto, in questa grafia col trattino denota l’apertura costitutiva dell’Esserci proprio in quanto «essere-nel- mondo») indica la costituzione ontologica della vita umana in quanto “poter essere”, ovvero un «ente che fintanto che è, ancora non è», la cui radice ontologica ultima risiede nella Zeitlichkeit, la «temporalità originaria» (e se si richiama la definizione hegeliana di tempo, che abbiamo citato sopra, ci si rende conto di quale omogeneità accompagni lo sviluppo dell’analisi kojèviana). Da qui la distinzione tra l’Esserci e gli enti da esso difformi, il cui modo d’essere è la mera “presenza” (Vorhandenheit), che può declinarsi nella dimensione pratico-poietica sottoforma di “utilizzabilità” (Zuhandenheit). Ecco con quali parole Heidegger pone questa distinzione, sviluppando il tema dell’analitica dell’Esserci:

24

E d’altronde egli stesso è molto esplicito nel riconoscere i meriti di Heidegger nel suo approccio ad Hegel: «devo segnalare che non avrei ceratmente profittato delle lezioni di Koyré come invece ho potuto fare se non avessi disposto di una “cultura generale” molto vasta (e di carattere “enciclopedico”) e di una conoscenza approfondita dei classici della storia della filosofia (compresi quelli dell’India e della Cina). Ma neppure tutto ciò sarebbe stato sufficiente se non avessi letto Sein und Zeit di Heidegger» [A. KOJÈVE, Le Concept, le Temps et le Discours, a cura di B. Hesbois, Paris, Gallimard 1990, pp. 32-33]. Altrove egli precisa che, sebbene l’antropologia heideggeriana «indubbiamente notevole e autenticamente filosofica» non aggiunga nulla all’antropologia della Fenomenologia dello Spirito, pur tuttavia questa «probabilmente non sarebbe mai stata compresa se Heidegger non avesse pubblicato il suo libro» [A. KOJÈVE, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 654 (n.1)].

25

M. HEIDEGGER, Essere e Tempo, a cura di F. Volpi sulla vers. Di P. Chiodi, Longanesi, Milano 200118

L’ente che ci siamo proposti di esaminare è il medesimo che noi stessi sempre siamo […]. Da questa caratterizzazione dell’Esserci derivano due ordini di conseguenze: 1) l’«essenza» di questo ente consiste nel suo aver-da-essere. L’essenza (essentia) di questo ente, se mai si possa parlare di essa, deve essere intesa a partire dal suo essere (existentia) […]; 2) l’Essere di cui ne va per questo ente nel suo essere, è sempre mio. Questi due caratteri dell’Esserci, il primato dell’existentia sull’essentia e l’essere- sempre-mio, indicano già che […] questo ente non ha e non può mai avere il modo di essere proprio di ciò che è semplicemente- presente nel mondo.26

È ben vero, d’altronde, che, malgrado sia stato definito un «Hegel postheideggeriano»27

(ma probabilmente sarebbe meglio definirlo un «hegeliano postheideggeriano»28

), in realtà Kojève non si può dire sia stato né hegeliano né heideggeriano nel senso più stretto del termine. Egli ha certamente intrattenuto rapporti profondi con entrambi i filosofi, analizzandone i risultati speculativi più rilevanti, nonché facendoli interagire in modo del tutto originale nel suo pensiero. Era profondamente convinto che «non è che confrontandola con l’opera di Hegel che si può comprendere la portata filosofica dell’opera di Heidegger»29

, perché il primo volume

di Essere e Tempo gli sembrava in modo inequivocabile «un

tentativo di produrre – rettificandola – l’antropologia fenomenologica della Fenomenologia dello Spirito»30

, in vista di un’ontologia che rimpiazzasse quella di stampo parmenideo, presente nella Logica di Hegel. E questo rapporto stretto emerge ancora di più dal testo di

26Ivi

, pp. 60-62.

27

Cfr.J.WAHL, A proposito dell’Introduzione alla Fenomenologia (1955), in M.CIAMPA –F.

DI STEFANO (a cura), Sulla fine della Storia, Liguori, Napoli 1985, pp. 47-69.

28

Cfr. M.FILONI,Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, cit., p.

211.

29

A. KOJÈVE, Recensione a A.DELP, Tragische Existenz, in Recherches philosophiques, vol. 5, 1935-36, p. 416.

30

una nota inedita, che costituisce la parte di appunti e di materiale rimasta fuori dalla recensione appena citata, nella quale egli afferma:

che l’essere umano (Dasein) è essenzialmente un essere-nel-

mondo (In-der-Welt-sein); che il mondo dell’uomo (Welt)

differisce essenzialmente dalla Natura (Vorhandensein) per il fatto che esso è modificato, o almeno rivelato/considerato come da modificare con il lavoro (Zuhandensein); […] tutto questo, e molte altre cose ancora, è puramente hegeliano.31

Ciononostante, Kojève individua una grave mancanza anche nello sviluppo heideggeriano di queste idee: «Heidegger – afferma lucidamente – ha ripreso i temi hegeliani della Morte, ma trascura i temi complementari della Lotta e del Lavoro; perciò la sua filosofia non riesce a rendere conto della Storia»32

.

È questo il punto nevralgico che divarica la distanza tra l’antropologia kojèviana e quella di matrice heideggeriana, che ha il demerito, secondo il russo, di aver attenuato il valore costitutivo dell’Azione negatrice (che è incarnata dalla Lotta e dal Lavoro), che, invece, egli vede hegelianamente come atto dell’Aufheben, inteso come Azione che distrugge il dato naturale e, al contempo, lo conserva sublimandolo in questa distruzione, in vista del “Riconoscimento”:

31

A. KOJÈVE, Note inédite sur Hegel et Heidegger, presentazione di B. Hesbois, Rue Descartes, n. 7, 1993, p. 37.

32

A. KOJÈVE, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 717 (n. 1). A tal riguardo è molto

interessante la notazione di M. Vegetti: «Essere e Tempo – scrive lo studioso – rovina allora proprio laddove vorrebbe fondare l’apertura ontologica della prassi storica e dell’esistenza comunitaria: anziché disporre il soggetto ad una originaria partecipazione all’altro, la “angoisse de la contemplation passive” determina l’individualità in una forma sostanzialmente solipsistica […]. In una parola all’esperienza heideggeriana della morte manca la funzione dialettica, essa decentra efficacemente il soggetto ma dimentica l’originario legame che ne aliena il senso dell’altro, trasformando in pari tempo l’avvenire nella prima categoria dell’esistenza sociale, dell’essere-per-un-altro» [M.VEGETTI, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, cit., p. 116].

il movimento dialettico del potere – conclude Kojève – che mantiene nell’Essere il Nulla che è l’Uomo, è la Storia. E questo potere stesso si realizza e si manifesta come Azione negatrice: Azione negatrice del dato che è l’Uomo stesso, o azione della

Lotta che crea l’Uomo storico; e Azione negatrice del dato che è il

Mondo naturale in cui vive l’animale, o azione del Lavoro che

crea il Mondo culturale, al di fuori del quale l’Uomo non è che Nulla puro, e nel quale egli differisce dal Nulla solo per un certo tempo.33

È esattamente nella temporalità che si gioca il dualismo kojèviano: quella temporalità scandita dall’antecedenza della Natura rispetto all’Uomo (o meglio lo Spirito), la cui Storia non può essere dedotta dalla Natura, ma ne segna una rottura, perché deriva dall’Azione negatrice e trasformatrice della Natura stessa.

Ora, il fraintendimento è ben appostato, quasi in agguato: si potrebbe, infatti, leggere senza apparenti contraddizioni nel dualismo kojèviano una sorta di duplicazione ontologica della realtà in Storia, da una parte, e Natura, dall’altra, laddove questa risulterebbe fattualmente trascendente rispetto a quella.

33 Ivi

, pp. 716-717. M. Filoni commenta che per Kojève «l’essenza dell’uomo non è determinata solamente dall’individuo», come, invece, sembrerebbe suggerire il Dasein heideggeriano, il quale potrebbe ben costituirsi senza entrare in contatto con l’altro uomo. Nella riflessione kojèviana, al contrario, tale essenza umana è determinata soprattutto dal «Sociale» e dallo «Storico». «Come pensare – nota M. Filoni in conclusione – il sein del Dasein se non come ciò che si manifesta in quanto azione? E questa azione può essere altro dall’azione negatrice?» [M. FILONI, Il filosofo della domenica. La vita e il pensiero di Alexandre Kojève, cit., p. 214]. M. Vegetti spiega la divaricazione tra Kojève e Heidegger alla luce del fatto che «un istanza marxiana attraversa trasversalmente la teoresi di Kojève ponendo nel lavoro l’elemento in cui il non-essere dell’uomo, in quanto negazione attiva dell’ente, si scambia con quest’ultimo risultando alla fine equiparato all’essere, vale a dire a ciò che nega»

[M.VEGETTI, La fine della storia. Saggio sul pensiero di Alexandre Kojève, cit., p. 59 (n. 56)].

D’altra parte, la conclusione del brano appena citato rivela che Kojève riconoscesse a Marx il merito di conservare «i temi della Lotta e del Lavoro, e la sua filosofia è perciò essenzialmente “storicistica”», ma ne denuncia anche la mancanza del tema della morte: «ecco perché non vede che la Rivoluzione è non solo di fatto, ma anche essenzialmente e necessariamente, cruenta» [A. KOJÈVE, Introduzione alla lettura di Hegel, cit., p. 717 (n. 1)]. A. Patri, quasi con candida ingenuità, scrive: «M. Kojève, per quanto ne sappiamo, è il primo […] ad aver cercato di costituire il ménage à trois intellettuale e morale tra Hegel, Marx e Heidegger, che da allora ha avuto un tale successo» [A. PATRI, Dialectique du maître et de l’esclave, cit., p. 234].

Così, ad esempio, l’ha intesa Tran-Duc-Thao, secondo il quale l’opposizione dell’essere naturale rispetto alla Storia, crea uno spazio vitale per la teologia, proprio quando vorrebbe escluderla34

. In una lettera privata, Kojève ribatte alla critica, illustrando con estrema chiarezza l’articolzione del suo dualismo, attraverso l’utilizzo della già citata immagine dell’anello d’oro:

Io non dico che vi siano simultaneamente due modi di Essere, Natura e Uomo. Dico che fino alla comparsa del primo uomo (che si è creato in una lotta di puro prestigio), l’Essere nella sua interezza non era che Natura. A partire dal momento da cui esiste l’uomo, l’Essere nella sua interezza è Spirito, poiché l’ Spirito non è altra cosa se non la Natura che implica l’uomo, e dal momento che il mondo reale implica, in effetti, l’uomo, la Natura, nel senso stretto del termine, non è più di un’astrazione. […] Ora, io credo che, se l’insieme dell’evoluzione naturale possa, in principio, essere dedotta a priori, la comparsa dell’Uomo e della sua Storia non possono essere dedotte che a posteriori, cioè precisamente non già dedotte, ma soltanto comprese. […] Ecco perché preferisco parlare di dualismo tra la Natura e l’Uomo, ma sarebbe più corretto parlare di un dualismo tra la Natura e lo Spirito, laddove lo Spirito è questa stessa Natura che implica l’Uomo.35

34

Cfr. TRAN-DUC-THAO, La «Phénomenologie de l’esprit» et son contenu réel, in Les Temps modernes, 36, 1948, pp. 492-519.

35

Cfr. A. KOJÈVE a TRAN-DUC-THAO, Paris 7.10.1948, in G. JARCZYK –P.-J.LA BARRIÈRE, De Kojève a Hegel, cit., pp. 65-66. D. Auffret muove un rilievo critico nei confronti del dualismo kojèviano: «da parte nostra – scrive – Kojève non sembra aver notato che il suo dualismo dialettico deve, esso stesso, essere ridotto ad un non-dualismo, nella misura in cui solo lo Spirito può porre la Natura prima dello Spirito. Ed è perché non l’ha fatto che egli è obbligato a dualizzare, senza spiegare veramente la propria comprensione di Hegel» [D.