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Due considerazioni finali: originalità filosofica di Kojève e letteratura secondaria

1. Lettore o Filosofo?

Nel percorso appena compiuto ci siamo mossi, come già anticipato in sede d’introduzione, seguendo un andamento “a spirale”, lungo il corso del pensiero di Alexandre Kojève (o almeno una consistente parte di esso), attraverso di esso e da esso guidati. Abbiamo inoltre assunto come centro di gravitazione della nostra indagine il testo delle lezioni parigine sulla Fenomenologia dello

Spirito, alla luce del quale abbiamo letto anche altre pagine

importanti della produzione kojèviana. L’unico momento di “eccentricità”, che ci siamo concessi, consiste nell’esame del giovanile saggio sull’Ateismo, al quale abbiamo dedicato un intero capitolo. Le intuizioni che vi abbiamo trovato, tuttavia, ci hanno ricondotto ancora una volta verso le pagine dell’Introduzione alla lettura di Hegel.

Il primo guadagno della nostra indagine, per altro già ben noto agli studiosi del campo, è stato notare come le emergenti esigenze sistematiche del giovane Kojève, trovando soddisfazione nel connubio con la riflessione hegeliana, si esprimano in una sintesi «inquieta», ma «efficace», di tradizione e novità1

, il cui esito più evidente e rilevante è dato dalla riflessione antropologica, che pervade tutta la produzione kojèviana.

In questa chiave, i concetti di Morte, Azione, Lotta e Lavoro assumono una centralità quasi esasperata: è attraverso questi, infatti, che s’introduce nel Mondo dato l’elemento del negativo, che risulta

1

A. Gnoli spiega che si tratta della sintesi «di vecchia e santa Russia, sulla quale aleggiava il senso del divino, e di nuova Europa, con la sua propensione alla sperimentazione, al rovesciamento, alla provocazione intellettuale. E fu proprio tale bizzarra sintesi, arricchita dall’esperienza della Rivoluzione sovietica, a prendere vita all’École Pratique con le lezioni su Hegel» [A. GNOLI, Kojève, l’occulto maestro del ‘900, cit., p. 254].

essere creatore nella misura in cui fa dell’Uomo un essere dialettico, capace cioè di elaborare e “mediare” ciò che in Natura è immediato. È l’elemento della Lotta a morte (di puro prestigio in vista del Riconoscimento) che innesca il meccanismo del processo storico; è il Lavoro (soprattutto quello servile, alla ricerca dell’affrancamento) che ne garantisce lo sviluppo; è nella circolarità del Sapere assoluto che si consuma la fine della Storia. Questo è esattamente l’arco che descrive l’antropologia kojèviana, il cui protagonista è un individuo

mortale, che sa che morirà e che è libero nella misura in cui dispone

della propria vita. Questi è l’Uomo, autore e conoscitore della Storia, che con Hegel diviene anche il Rivelatore della sua fine, il Saggio.

È stato scritto che le tracce lasciate da un libro di Kojève (e in particolare quello su Hegel) sono decisamente durature: «una sola opera […] lo ha consacrato come “il lettore” di Hegel. Da allora una gloria curiosa lo accompagna. Gloria contemporaneamente universale e unica, remota e reverenziale, indiscussa. Nessuno oggi s’incamminerebbe verso Hegel senza prendere in prestito le bussole di Kojève»2

.

Eppure queste “bussole” di Kojève potrebbero condurre il lettore lontano dallo stesso Hegel, potrebbero farlo smarrire dietro un linguaggio avvolgente ed una capacità argomentativa del tutto affascinante. È vero che Kojève si distende sul Sistema hegeliano, lo propugna e lo utilizza, ne fa la sua personale lente attraverso cui osservare il Mondo, quello dell’Uomo, mediato, lottato e lavorato, che con Hegel comprende di essere arrivato al suo epilogo… un epilogo che Napoleone ha prodotto. È questo che le pagine hegeliane rivelano a Kojève durante il corso all’École Pratique des Hautes Études:

ho riletto la Fenomenologia – confida a Lapouge – e solo quando sono arrivato al capitolo IV ho capito che si trattava di Napoleone.

2

Ho iniziato le mie lezioni. Non preparavo nulla, leggevo e commentavo, ma tutto quello che scriveva Hegel mi sembrava luminoso. È vero ho provato un piacere intellettuale eccezionale.3

Eppure già questo ci porta ben al di là di Hegel. Il che c’induce a proporre un primo rilievo conclusivo. La sua interpretazione penetrante e raffinata fanno di Kojève ben più che «il lettore di Hegel». La sua capacità di ragionamento, così acuta e ricca, lo spingono a forzare le giunture del sistema hegeliano, indicandone nuove soluzioni, del tutto inattese. Egli è ben consapevole di ciò che l’universo intellettuale europeo sta dando alla luce in quegli anni. Ha piena coscienza dell’antropologia progettuale che Sein und Zeit

traccia attraverso la nozione del Dasein. Il perimetro esistenziale che quel Da disegna, costituisce per Kojève una ricchezza incommensurabile, perché non solo espone l’Esser-ci alla sua finitezza, definendo l’uomo come essere per la morte, ma lo pone in situazione, il che per il russo significa che lo mette in azione. Certo questo non è l’esito heideggeriano, ed il suo rimprovero al filosofo di Freiburg sarà quello di non aver considerato gli elementi della Lotta e del Lavoro. È piuttosto un’intuizione tutta kojèviana che, ispirata dall’hegeliana dialettica Signoria-Servitù, trae conseguenze nuove e assenti tanto in Hegel quanto in Heidegger.

Questi due pensatori, insieme a Marx, offrono gli stimoli più significativi per la maturazione e lo sviluppo delle idee che costituiscono la nervatura centrale della speculazione di Alexandre Kojève. Sebbene Hegel ricopra un ruolo predominante, tuttavia, l’interazione conflittuale con gli altri due, impreziosita da ascendenze tanto russe quanto orientali, avviene sul campo di una conoscenza enciclopedica, che produce una serie di elementi teorici peculiarmente kojèviani e del tutto originali.

3

Così, ad esempio, dal lavorio costante sull’idea delle autocoscienze che si fronteggiano nasce quell’idea di desiderio del

desiderio, che fonda la dimensione umana, tanto da assumere

l’attributo di «antropogeno», che lo stesso Kojève individua come un apporto del tutto nuovo alla speculazione filosofica in generale, di cui neanche Hegel aveva avuto sentore. Ma altrettanto avviene per la nozione di fine della Storia: essa è il prodotto della radicalizzazione dell’interpretazione paradossale che Koyré ha offerto qualche anno prima in merito all’idea hegeliana di Tempo. Probabilmente Koyré non comprende mai Hegel fino in fondo, ma la genialità di Kojève si manifesta proprio nell’utilizzare il fraintendimento dell’amico per ricavare elementi nuovi, trasformando un’apparente aporia in una nuova chiave di lettura della Fenomenologia dello Spirito, da cui trarre conseguenze del tutto inattese4

.

Ma come potrebbero comprendersi questi esiti teorici, senza avere coscienza della profonda critica che Kojève muove ad Hegel in merito al monismo ontologico, di matrice parmenidea, su cui il tedesco, a detta del nostro, sembra impantanarsi? E lo stesso dualismo ontologico, tra l’Essere dato e naturale (Sein) e l’Esserci, il

Sé (Selbst), che egli vi contrappone, non affonda forse le radici della

sua intuizione nella lezione heideggeriana di Essere e Tempo?

Per questo qualcuno l’ha definito un «Hegel postheideggeriano», intendendo con ciò che egli ha letto Hegel attraverso il filtro di Essere e Tempo, mentre altri l’hanno etichettato come un «hegeliano postheideggeriano» volendo sottolineare invece il contrario. Egli stesso individua una convergenza netta tra le antropologie di Hegel e di Heidegger, di cui abbiamo cercato di rendere conto nella parte centrale del quarto capitolo.

Ovviamente, non si potrebbe pensare a Kojève, per come lo conosciamo, senza l’interazione costante di questi due poli: da una

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Cfr. D. AUFFRET, Alexandre Kojève. La philosophie, l’État, la fin de l’Histoire, cit., pp. 321- 322.

parte, probabilmente la sua inquietudine sistematica non avrebbe mai trovato requie, se non si fosse imbattuto in Hegel; dall’altra, neanche la sua antropologia avrebbe mai assunto una forma definitiva senza l’imbeccata del Dasein heideggeriano. Certo, non avendone la controprova, ci stiamo muovendo sul piano della pura ipotesi. Ciò che, invece, senza tema di smentita possiamo affermare è che, malgrado i suoi debiti strutturali nei confronti dei due grandissimi filosofi tedeschi, Kojève non può definirsi propriamente né hegeliano né heideggeriano. Piuttosto, la sua forza peculiare risiede nella capacità di trarre dall’interazione problematica di entrambi quegli elementi più originali della sua stessa speculazione, che lo innalzano al disopra del semplice grado di “lettore”, conferendogli piena dignità di “filosofo”.