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La morte come hiatus irrationalis e differenza

1.3 “Dio non è non-Dio”: la datità di Dio fuori dal mondo

2. Verso l’ homo religiosus

2.1. La morte come hiatus irrationalis e differenza

Il problema più ostico in cui ci si imbatte, nel tentativo di sciogliere questo nodo, sembra dunque essere quello dell’eterogeneità ontologica, e non semplicemente modale, dell’ “uomo nel mondo” rispetto all’ “uomo al di fuori del mondo”. Com’è possibile, cioè, parlare di identità tra i due, se ontologicamente sono reciprocamente altri?

Secondo Kojève, il paradosso si dirime a partire dall’esame dell’esperienza, del tutto unica, della morte. L’ “uomo nel mondo” ha consapevolezza della propria morte, perché egli non si limita a

vivere nel mondo, ma in esso muore anche: cioè egli è dato a se

stesso sia in quanto vive nel mondo sia in quanto vi muore.

Ora, sebbene l’uomo riconosca di essere mortale, tuttavia, occorre precisare che egli non è dato a se stesso in quanto morto. È innegabile, infatti, che l’uomo vivo non sia il medesimo rispetto all’uomo morto, giacchè la morte, che è per definizione cessazione d’essere, segna il limite oltre il quale s’innesca quell’alterità ontologica, che è stata appena individuata tra l’io nel mondo e l’io fuori dal mondo. La discontinuità, che è segnata dalla morte, rende, infatti, impossibili affermazioni del tipo “penso di essere morto”, dal momento che il transito tra “l’io pensante” e “l’io morto” è decisamente vertiginoso: l’essere di “essere morto” si presenta come una sorta di giuntura macante, un salto incolmabile, che di fatto esclude che “l’uomo nel mondo” possa essere dato a se stesso come attualmente morto.

Ciò significa – precisa il testo kojèviano – che l’ «uomo nel

mondo» non può essere dato a se stesso in quanto morto, o,

condizione a cui guardare, e cioè dire «dal di dentro» che a parlarne è lui, l’ «io». L’uomo dato a se stesso come «io» è per ciò stesso dato a sé in quanto vivo, cioè quale «uomo nel mondo».25

Da ciò, tuttavia, non consegue necessariamente che a questo non sia data la morte in generale, ed in particolare quella di se stesso. Certo, il se stesso morto non gli si darà mai in quanto io, ma neanche il mondo gli si dà in quanto io, ciononostante gli si dà. In vero, la morte si configura come un fenomeno del tutto peculiare e assolutamente diverso da qualunque altro fenomeno si presenti all’ “uomo nel mondo”, perché l’ “io in quanto morto” è ovviamente diverso dall’ “io vivo”, non solo per contenuto qualificativo (come avviene per “l’io in situazione”: ad es. “l’io matematico” e “l’io fisico”), ma soprattutto nell’essenza: «io come morto non sono più nell’essere, non sono più “uomo nel mondo”, sono diverso da me stesso, e tra me vivo e me morto si spalanca l’abisso della morte»26

. Pertanto, la morte si presenta come un limite e tutto ciò che è al di qua di essa si connota come “uomo nel mondo”, mentre tutto ciò che è al di là sarà “l’uomo al di fuori del mondo”.

È, d’altronde, vero che, nel riconoscere la morte, “l’uomo nel mondo” distingue tra la propria morte e quella degli altri, ha cioè una certa cognizione d’identità del “se stesso morto”, sebbene ovviamente non ne faccia un’esperienza diretta: «ciò non di meno, questo tutt’altro è allo stesso tempo uguale a me, giacché io so che il morto sono io, e non qualchedun altro»27

. E in questo senso, malgrado l’alterità ontologica che sembra aprirsi tra “l’uomo nel mondo” e “l’uomo al di fuori del mondo”, si può affermare che questo sia in qualche modo dato a quello:

25Ivi , p. 65. 26 Ivi, p. 67. 27 Ibidem, pp. 67-68..

all’“uomo nel mondo” la morte è data come limite, come abisso (hiatus) che separa tutto ciò che gli è dato in quanto vivente da ciò che si trova oltre i confini della vita. La morte gli è data, qui, quale

sua morte, nel senso che ciò che si trova al di là della morte è comunque lui, ma – indipendentemente dal suo contenuto qualificativo – l’oltretomba gli è sempre dato come “al di là”, come qualcosa di completamente altro dove lui stesso in quanto morto dato a sé vivo è radicalmente diverso da lui stesso dato a sé vivo in quanto vivo: non è più “l’uomo nel mondo” dato a se stesso, ma “l’uomo al di fuori del mondo” dato all’“uomo nel mondo”.28

È qui che si scopre la natura paradossale della morte, il suo essere uno hiatus irrationalis che separa e, allo stesso tempo, unisce questi due termini, istituendo tra di essi un’interazione che, ben lungi dall’essere omogenea (come tra l’io e il mondo), dal momento che l’oltre-tomba è dato all’ “uomo nel mondo” come «completamente altro», si presenta piuttosto come eterogenea.

E, d’altro canto, a questo punto appare chiaro quale sia la natura della morte stessa: essa non si connota affatto come un “qualcosa”, inteso come un qualcosa dotato di essere che sia tanto “nel mondo” quanto “fuori dal mondo”, ma individua il confine tra questi due livelli che, pur non avendo una reale esistenza, tuttavia, ne determina comunque la loro diversa unità:

la morte – esplicita Kojève con parole molto evocative – è come quel punto irrazionale estratto da una retta, che non c’è ma che separa due segmenti e li genera in quanto tali, un punto a cui non si arriva dai segmenti ma che da tali segmenti è determinato.29

28Ivi

, p. 70.

29

Ne consegue che, non essendo un “qualcosa”, né avendo alcun contenuto qualificativo, la morte si darà solo in termini di differenza

tra il mondo, inteso esattamente come insieme uomo-mondo, e il suo “al di fuori”. E questo risulta altrettanto valido per il teista, che ritiene che esista qualcosa oltre la morte, che per l’ateo, per il quale, invece, l’ “al di fuori del mondo” coincide con il nulla (o meglio, non è nulla). Quest’ultimo, però, pur considerando la morte come nulla

(e proprio per questo), le riconosce uno statuto del tutto speciale: ovvero, essa individua quel particolare nulla che egli stesso identifica in ciò che segna la sua vita, quel nulla cioè che definisce i contorni della sua medesima finitezza. Tanto che è solo a partire dalla consapevolezza della propria morte, pur non avendone alcuna esperienza diretta30

, che egli giunge a riconoscere se stesso come un essere mortale.

Ogni “qualcosa” nel suo darsi evidentemente ha bisogno di distinguersi dall’altro, perché, in caso contrario, sarebbe privo di contenuto qualificativo, decontestualizzato e astratto. Il darsi di qualcosa pertanto è sempre legato alla datità della differenza, sia anche la sua differenza da nulla (come ad esempio nel caso del mondo dell’ateo), per cui la datità a se stesso dell’uomo vivente reca con sé la sua mortalità, ovvero la datità della sua morte. La conclusione che ne trae Kojève, seguendo una non celata ascendenza heideggeriana, è che la vita si riscopre, tanto per il teista quanto per l’ateo, come una «vita per la morte», tanto da giungere fino ad affermare senza alcuna esitazione che «la vita non è morte, ma senza morte non c’è vita»31

.

30

Secondo Spinoza, la consapevolezza della propria morte rientra in quell’alveo particolare del primo genere di conoscenza, che è parziale ed inadeguata, che egli definisce esperienza vaga, «cioè un’esperienza che non viene determinata dall’intelletto […]. So per esperienza vaga che morirò: infatti lo affermo perché ho visto altri miei simili morire» [B. SPINOZA, Trattato sull’emendazione dell’intelletto (1661), trad. it. E. De Angelis, SE, Milano 1990, p. 16].

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