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Dall’uguaglianza all’uguaglianza-ragionevolezza

Il lungo cammino della ragionevolezza

2. Dall’uguaglianza all’uguaglianza-ragionevolezza

È oramai assunto indiscutibile che il canone della ragionevolezza sia sorto «nell’ambito del giudizio sull’uguaglianza delle leggi»4, i cui rapporti con quest’ultimo

«sono venuti alla luce solo in maniera graduale e non sempre secondo uno sviluppo storico lineare»5.

Ed è altrettanto noto che nelle prime decisioni di incostituzionalità, aventi come parametro l’articolo 3 Cost., era presente l’eco della «teoria espositiana della pari forza ed efficacia della legge»6, tesa a garantire la discrezionalità legislativa7.

4 F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007, 10. Fatto, questo, che, come afferma M. LUCIANI, Lo spazio della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, in AA.VV., Il Principio di ragionevolezza nella giurisprudenza della Corte costituzionale. Riferimenti comparatistici, Milano, 1994, 245, «non è certo sorprendente […] Non lo è perché, se si legge l’eguaglianza come un principio risolventesi nella massima secondo cui a situazioni eguali deve essere predicato un trattamento eguale, mentre a situazioni diverse deve essere riservato un diverso trattamento, ogni giudizio di eguaglianza costringe a porsi almeno due interrogativi, in entrambi i quali è in giuoco l’idea di ragionevolezza. L’uno, con il quale ci si chiede se il legislatore abbia ragionevolmente valutato la diversità e le analogie fra le varie categorie di destinatari del dettato normativo. L’altro che riguarda la ragionevolezza della scelta del trattamento legislativo da praticare, operata sulla base della preliminare valutazione di diversità/eguaglianza oggetto del primo interrogativo».

5

A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., 39.

6 Così ancora A. MORRONE, Il custode della ragionevolezza, cit., 41.

7 Il tema della discrezionalità legislativa sarà trattato nel par. 6 di questo capitolo. Per il momento, oltre alle altre opere che nel prosieguo indicheremo, si veda: C. ESPOSITO, Uguaglianza e giustizia nell’art. 3 della Costituzione, in ID. La Costituzione italiana. Saggi. Padova, 1954, 54 ss. Come mette in evidenza G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2001, 38, nota 32, la teoria espositiana ancora risente degli insegnamenti di C. SCHMITT, Unabhangigkeit der Richter, Gleichheit vor dem Gesetz und Gewahrleistung des Privateigentums nach der Weimarer Verfassung, Berlin-Leipzig, 1926 e ID., Verfassungslehre, Berlin, 1928, 154, il quale aveva ricondotto il significato del principio di uguaglianza ad un generale divieto di leggi eccezionali, concrete e personali. La ricostruzione di Esposito è lucidamente criticata da L. PALADIN, Il principio costituzionale d'eguaglianza, Milano, 1965, 143-145, con argomentazioni delle quali, per la chiarezza e l’acume delle considerazioni del Maestro, è utile darne conto diffusamente. Il Paladin, innanzitutto, rileva che la tesi dell’Esposito è in buona parte originale, poiché solo apparentemente richiama l’antica definizione della parità giuridica in termini di eguale sottoposizione alla legge di tutti i cittadini. La formula, infatti, «intende riferirsi ad una indispensabile eguaglianza della legge, non alla semplice legalità. Ma proprio nella novità che la distingue sembra consistere l’aspetto meno persuasivo della formula medesima». Fra i due ordini di critiche, che il Paladin muove alla tesi di Esposito, quello che qui si vuole riportare è solo il secondo, poiché si riferisce all’aspetto fatto proprio dalla prima giurisprudenza costituzionale sul punto. Riguardo a tale tesi l’Autore rileva che «facendo mostra d’opporre l’efficacia al contenuto degli atti legislativi, essa distingue in realtà gli uni dagli altri contenuti, secondo che regolino o meno l’efficacia stessa: per cui la sua differenza dalle tesi che essa combatte finisce per essere quantitativa. Né la separazione suggerita sembra tale da essere applicabile “de plano” (cioè senza ricorrere al criterio dell’arbitrio». Ed inoltre – continua l’Autore – essa, accostando esigenze tradizionalmente connesse all’eguaglianza con altre che storicamente non sono riferibili alla parità giuridica, si astiene «dal colpire molte classificazioni che per il senso comune dei moderni feriscono il bisogno d’eguaglianza; ed estraniandosi, di conseguenza, da svariati problemi che oggi preoccupano – anche in Italia – giurisprudenza e dottrina prevalenti» (corsivi nel testo).

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Nella prima fase, la giurisprudenza costituzionale ha adoperato, infatti, un’accezione ristretta del principio di uguaglianza, inteso soltanto come divieto di disparità formali. E su tale base riteneva che integrassero una violazione dell’art. 3 Cost. soltanto le leggi ad personam, le discriminazioni riconducibili ai criteri espressamente sanciti dallo stesso articolo o, infine, i casi di assimilazione e diversificazione di trattamento per situazioni considerate dallo stesso legislatore, rispettivamente, diverse o uguali.

Alla base della giurisprudenza dei primi anni era presente la preoccupazione di garantire la discrezionalità del legislatore, come inequivocabilmente si legge nella sentenza n. 3 del 1957: «la valutazione della rilevanza delle diversità di situazioni in cui si trovano i soggetti dei rapporti da regolare non può non essere riservata alla discrezionalità del legislatore, salva l'osservanza dei limiti stabiliti nel primo comma… [dell’] art. 3». E ciò perché «questo principio non va inteso nel senso, che il legislatore non possa dettare norme diverse per regolare situazioni che esso ritiene diverse, adeguando così la disciplina giuridica agli svariati aspetti della vita sociale. Ma lo stesso principio deve assicurare ad ognuno eguaglianza di trattamento, quando eguali siano le condizioni soggettive ed oggettive alle quali le norme giuridiche si riferiscono per la loro applicazione»8.

Ma ben presto la posizione della Corte costituzionale, accorta a che la sua verifica non trasmodasse in un controllo sull’esercizio della funzione legislativa, si viene attenuando.

E, infatti, già la sentenza n. 53 del 1958, nella quale il giudice delle leggi pure dichiara di rimanere saldamente nel solco della propria giurisprudenza, si configura come una vera e propria «svolta»9. In questa decisione la Consulta afferma che dalla propria giurisprudenza emerge anche l’implicita affermazione che a situazioni diverse non può essere imposta un’identica disciplina legislativa. La violazione del principio d’uguaglianza viene integrata, infatti, anche pareggiando «situazioni che sono oggettivamente diverse». E – continua la Corte – l’affermazione che la valutazione delle diverse situazioni, riservata al potere discrezionale del legislatore, è sottratta al giudizio

8 Così Corte cost. sent. n. 3 del 1957. Ed ancora più chiaramente, il giudice delle leggi, nella successiva sentenza n. 28 del 1957, afferma che, fino a quando i limiti espressamente indicati dall’art. 3, I co., Cost., non siano violati e non vengano adottate leggi ad persanam, «ogni indagine sulla corrispondenza della diversità di regolamento alla diversità delle situazioni regolate implicherebbe valutazioni di natura politica, o quanto meno un sindacato sull’uso del potere discrezionale del Parlamento, che alla Corte costituzionale non spetta esercitare, anche a norma dell'art. 28 della legge 11 marzo 1953, n. 87». 9 F. MODUGNO, La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, cit., 11.

Gli automatismi legislativi nella giurisprudenza costituzionale

di legittimità costituzionale non viene contraddetta e «né si compiono valutazioni di natura politica, e nemmeno si controlla l’uso del potere discrezionale del legislatore, se si dichiara che il principio dell’eguaglianza è violato, quando il legislatore assoggetta ad una indiscriminata disciplina situazioni che esso stesso considera e dichiara diverse»10.

Questo è stato, in altri termini, il primo passo verso l’introduzione della «valutazione di ragionevolezza del trattamento discriminatorio»11, che era destinato a trasformare l’art. 3 Cost. in uno strumento di garanzia di fronte all’irrazionalità dell’ordinamento12

, facendo assumere all’uguaglianza – e nonostante la deferenza formale ancora dimostrata dalla Corte verso il pieno rispetto della discrezionalità legislativa13 – la veste di strumento di controllo della discrezionalità legislativa14.

Processo che viene definitivamente portato a compimento nella sentenza n. 7 del 196215, nella quale la Corte afferma che «mentre è da ritenere implicita nel principio predetto l’esigenza di disporre trattamenti differenziati per situazioni obiettivamente diverse, rimane, tuttavia, aperto al giudice della costituzionalità l’accertamento delle

10 Così Corte cost. sent. n. 58 del 1953 cons. dir. punto 2. 11 G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza, cit., 41.

12 Così A. CERRI, L’eguaglianza nella giurisprudenza della Corte costituzionale, Milano, 1976, 62, il quale così scrive: «sembra che l’antica tutela del cittadino di fronte ai privilegi […] si sia dissolta in una più ampia garanzia di fronte all’irrazionalità dell’ordinamento». L’Autore, in realtà, riconosce un’ambivalenza del principio in parola, il quale sarebbe costituito da un «“nucleo forte” corrispondente a quella che è stata la sua funzione storica nello Stato liberale e liberal-democratico», vale a dire la tutela del cittadino contro i privilegi e gli atti discriminatori, e «un contenuto più ampio corrispondente all’esigenza attuale di garantire un minimo di razionalità all’ordine legislativo». E, inoltre, il Cerri afferma che sebbene «assai più numerose sono le fattispecie in cui si discute piuttosto di oggettiva irrazionalità e non di subiettivo privilegio […] ciò non toglie che il principio è nato con riguardo a questa secondo ipotesi» (p. 63) e, soprattutto, come dimostra con dovizia di esempi, che «la distinzione assume pratica rilevanza» (p. 64 ss.).

13 E ciò lo si ricava nel passo nel testo citato in cui la Corte espressamente afferma che così operando non compiva valutazioni di natura politica e nemmeno controllava l’uso del potere discrezionale del legislatore.

14 Così G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza, cit., 43, il quale in relazione all’affermazione contenuta nella successiva sent. n. 46 del 1959 (nella quale la Corte afferma che «accertata questa idonea ragione della legge, ogni altra critica non può avere qui ingresso» poiché «porterebbero a giudicare non se la legge sia conforme alla Costituzione, ma se la legge sia giusta, equa, opportuna, completa, tecnicamente ben fatta, ecc.: campo, questo, riservato all'esclusivo apprezzamento del legislatore, che ne assume piena ed intera la responsabilità politica») mette in evidenza che «l’excusatio non petita mostrava meglio di ogni rilievo critico della dottrina come il sindacato condotto alla stregua dell’art. 3 Cost. si fosse aperto oramai uno spazio potenzialmente illimitato di intervento».

15 Ma si veda anche la sentenza n. 16 del 1960, nella quale la Corte ha affermato che la sua giurisprudenza era «costante nel senso che il principio di eguaglianza è violato anche quando la legge, senza un ragionevole motivo, faccia un trattamento diverso ai cittadini che si trovino in eguali situazioni». Come ha avuto modo di chiarire G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza, cit., 42, si afferma, in tal modo, un’uguaglianza che potrebbe dirsi «materiale […] che imponeva uno scrutinio di costituzionalità più complesso e pervasivo di quello diretto a sanzionare le solo discipline internamente contraddittorie».

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circostanze dalle quali si desuma l’inesistenza di ogni presupposto idoneo a giustificare la diversità del trattamento»16.

In definitiva, questa decisione rappresenta solo la logica conseguenza del cammino già intrapreso dalla Consulta, come risulta dalle parole di Carlo Esposito17 il quale, in senso critico, rilevava che il giudice delle leggi ha adottato «l’interpretazione dell’art. 3 da essa preferita», affermando «il proprio potere a sindacare la arbitrarietà o la ininquadrabilità delle disposizione di legge nel sistema logico dell’ordinamento»18.

In questa decisione, in definitiva, il giudice delle leggi mette nero su bianco quello che fino a quel momento era rimasto ancora inespresso nelle sue decisioni: il suo potere di valutare se la scelta di introdurre una determinata disciplina sia o meno giustificata mediante una valutazione che non si chiude nei confini di quanto dalla legge è astrattamente previsto, ma che si estende alle valutazioni delle fattispecie concrete e ai loro profili di analogia, in modo da valutare se la compiuta parificazione o diversificazione legislativa sia o meno giustificata19.

Superata in tal modo l’interpretazione restrittiva della portata precettiva dell’art. 3 Cost., la Corte ha recepito quelle indicazioni dottrinarie espresse, fra gli altri, da due grandi maestri, Crisafulli20 e Mortati21, che avevano auspicato il superamento della

16 Corte cost. sent. n. 7 del 1962 cons. dir. punto 3.

17 C. ESPOSITO, La Corte costituzionale come giudice della «non arbitrarietà» delle leggi, in Giur. cost. 1962, 81.

18 …Pur – continua l’Esposito – non portando alle logiche conseguenze questa sua affermazione, poiché la Corte non aveva riconosciuto nessuna disparità di trattamento. Fatto quest’ultimo che rende tale filone giurisprudenziale ancora più pericoloso, poiché la Corte «affermando in astratto il proprio potere a sindacare l’arbitrio o l’inconsequenzialità del legislatore, e negando in pratica assai spesso la inconsequenzialità là dove essa esisteva, o sostenendo che essa rientrava nel potere discrezionale del legislatore, abbia aperto a se stessa la via a giudicare liberamente o a proprio piacimento della Costituzionalità di molte leggi»; così ancora C. ESPOSITO, La Corte costituzionale come giudice della «non arbitrarietà» delle leggi, cit., 82. Critico verso la decisione è anche M. GIORGIANNI, Le norme sull’affitto dei canoni dei cereali. Controllo di costituzionalità o di ragionevolezza delle norme speciali?, in Giur. cost., 1962, 82 ss., il quale, dopo aver riconosciuto che questa decisione ha applicato l’indirizzo espresso dal Mortati, paventava il pericolo che tale applicazione dell’art. 3 comportasse «un controllo eccessivamente penetrante delle ragioni che abbiano indotto il legislatore a diversificare le situazioni», il quale «finirebbe con il riferirsi necessariamente alle ragioni politiche o di opportunità delle norme». 19 Come ha avuto modo di chiarire L. D’ANDREA, Ragionevolezza e legittimazione del sistema, Milano, 2005, 60, a partire da questo momento la Corte ha «saldamente incardinato lo “statuto” del sindacato di uguaglianza formale sulle leggi sul terreno del controllo finalistico, risolvendolo in un controllo sulla giustificazione delle distinzioni, delle classificazioni, in ultima analisi delle scelte del legislatore». 20 V. CRISAFULLI, Eguaglianza dei sessi, requisiti e sindacato della Corte, in Giur. cost., 1958, 868-869 affermava che precludere alla Corte la valutazione dei motivi di differenziazione o di parificazione della disciplina recata dalla legge significava non permettere il sindacato sul rispetto del principio di uguaglianza. E, infatti, l’Autore, scriveva che «o […] nel timore di riconoscere al giudice della costituzionalità un sindacato così penetrante, da poter sconfinare nei giudizi politici, si esclude che le valutazioni legislative […] possano mai essere oggetto della Corte […] ed allora molti limiti

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concezione formale del principio in parola a favore di un controllo più penetrante delle scelte legislative.

Dal momento in cui la Corte ha iniziato a declinare l’uguaglianza come non contraddizione delle scelte legislative, e seppure mediante un percorso che non ha avuto un andamento lineare, che ha registrato diverse battute di arresto, passi indietro e, in definitiva, è risultato tendenzialmente asistematico22, il giudizio di uguaglianza diviene la forma argomentativa più utilizzata dalla Corte23 e, alla luce dell’evoluzione successiva, può dirsi che ha assunto la veste di «livello minimale del sindacato di ragionevolezza»24.

costituzionali […] finirebbero per vanificarsi, essendone rimessa l’osservanza alla mera libertà di apprezzamento degli organi politici, oppure si considera prevalente l’esigenza di far valere effettivamente il limite, e si dovrà ammettere di conseguenza il sindacato della Corte»; in questo senso anche ID., Ancora in tema di eguaglianza, in Giur. cost., 1959, 745 ss. e spec. 747-748.

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G. SCACCIA, Gli strumenti della ragionevolezza, cit., 42, nota 39, scrive che «in dottrina la concezione dell’eguaglianza come imperativo di ragionevolezza delle qualificazioni legislative discriminatorie era accreditata soprattutto da Costantino Mortati […] che riprendeva e sviluppava consolidate dottrine germaniche intendendo l’art. 3, primo comma, come espressivo di un divieto di arbitrio (Willkürverbot) nella valutazione della diversità delle situazioni poste a fondamento di una regolamentazione giuridica differenziata». E, infatti, C. MORTATI, Istituzioni di diritto pubblico, Milano, 1958, 715, reputava l’interpretazione dell’Esposito, e della prima giurisprudenza costituzionale sull’art. 3 Cost. «troppo restrittiva», poiché «è […] da chiedersi se, lasciando all’assoluto arbitrio del legislatore la valutazione delle diversità delle situazioni nonché della sufficienza di questa a porre una differenziazione di regolamentazione giuridica, non si finisca con lo svuotare il principio di cui si parla di gran parte del suo valore». Sulla base di ciò, e pur escludendo un controllo sul merito delle scelte legislative, il Mortati continuava affermando che si deve «ritenere esistente a carico del legislatore quello stesso obbligo di non violare le leggi della logica (che costituisce un limite giuridico all’esercizio di ogni attività discrezionale)». Lungo questa direttrice si collocava anche P. BARILE, Leggi e regolamenti discriminatori per motivi di sesso, in Giur. cost., 1958, 1245, il quale scriveva che il principio di eguaglianza «imporrà sempre, al sovrano organo di giustizia costituzionale, il controllo del buon uso del potere discrezionale dal parte del legislatore […] per cui potranno essere annullate per eccesso di potere legislativo tutte le leggi che violino in concreto (e ciò apparirà da fattispecie sintomatiche quali, ad. es., il travisamento dei fatti e la manifesta contraddizione) il principio di eguaglianza, questo cardine fondamentale che deve dettare il comportamento sia del legislatore sia dell’amministratore» (corsivo nel testo). Come si vede dal lungo passo citato – e il tema verrà ripreso più avanti nel testo – il Barile legava il controllo sulla ragionevolezza delle leggi alla figura dell’eccesso di potere.

22 È, infatti, proprio in materia di ragionevolezza che la giurisprudenza costituzionale è connotata – ci sia consentito il gioco di parole – dalla più alta irrazionalità dei moduli argomentativi.

23 Molto critico sull’applicazione del principio di eguaglianza si è mostrato G. FERRARA, Dell’eguaglianza, in M. LUCIANI (a cura di), La democrazia alla fine del secolo, Roma-Bari, 1994, 54, il quale afferma che «da pretesa dei destinatari del potere normativo statale e del potere sociale, l’eguaglianza, dopo essere diventata qualità ed efficacia generale del precetto normativo sempre condizionato dai sottostanti rapporti sociali, è diventata l’ingrediente da mescolare tra le motivazioni decisorie utili per consentire la più sicura efficacia degli atti di esercizio del diritto individuale, soprattutto privato». Dello stesso Autore, sempre in senso critico rispetto sia alla veste che ha assunto il giudizio di uguaglianza nella giurisprudenza costituzionale sia con specifico riferimento alla ragionevolezza, si veda ID., Corte costituzionale e principio di eguaglianza, in N. OCCIOCUPO (a cura di), La Corte costituzionale tra norma giuridica e realtà sociale. Bilancio di vent’anni di attività, Padova, 1984, 89 ss.

24 Secondo l’espressione di A. CERRI, voce Ragionevolezza delle leggi, in Enc. giur., vol. XXV, Roma, 1994, 16. Oltre alle opere qui citate, sull’eguaglianza si vedano anche: C. ROSSANO, Il principio d’eguaglianza nell’ordinamento costituzionale, Milano, 1966; P. BISCARETTI DI RUFFÌA, voce

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Il giudizio di uguaglianza-ragionevolezza si configura comunemente come un giudizio «trilaterale»25, nel quale sono presenti tre termini: la norma oggetto, il parametro e il tertium comparationis26. La valutazione non si svolge, infatti, secondo uno schema binario, in cui si instaura un confronto fra la norma impugnata e il parametro di costituzionalità, ma è necessario un elemento di raffronto27, per mezzo del quale valutare la ragionevolezza della disciplina legislativa posta al vaglio di costituzionalità28.

Uguaglianza (principio di), in Noviss. dig. it., XIX, Torino, 1973, 1088 ss.; G. VOLPE, L’ingiustizia delle leggi, Milano, 1977, B. CARAVITA DI TORITTO, Oltre l’eguaglianza formale, Padova, 1984.

25 Ricostruzione, questa, che si deve al L. Paladin, il quale dapprima in ID., Considerazioni sul principio costituzionale d’eguaglianza, in Riv. trim. dir. pub., 1962, 897 ss; poi nello studio monografico ID., Il principi costituzionale di eguaglianza, cit., e infine, nel saggio ID., Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza: aprile 1979-dicembre 1983, in Scritti in onore di Vezio Crisafulli, I, Padova, 1985, 657, nel quale ha ulteriormente precisato il modello qui richiamato.

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Sulle caratteristiche che questo deve presentare si veda la sintetica e chiara ricostruzione di P. CARNEVALE-A. CELOTTO, Il parametro «eventuale». Riflessioni su alcune ipotesi atipiche di integrazione legislativa del parametro nei giudizi di legittimità costituzionale delle leggi, Torino, 1998, 100 ss. Qui non si può fare a meno di ricordare, però, che l’individuazione del termine di comparazione non solo è un momento molto delicato e complesso del giudizio di uguaglianza (così G. SERGES, Questione di legittimità costituzionale alla stregua del principio di eguaglianza ed individuazione del tertium comparationis, in Giur. it., 1989, 383 ss.), ma è primariamente un compito gravante sul giudice a quo, che deve svolgerlo in modo preciso e univoco, pena l’inammissibilità della questione.

27 Come ha avuto modo di chiarire L. PALADIN, Corte costituzionale e principio generale d’eguaglianza, cit., 609, «la disparità di trattamento, denunciata con riferimento alla disciplina di certe fattispecie o di certe categorie di soggetti, dev’essere apprezzata in rapporto alla disciplina che l’ordinamento riserva ad altre categorie o ad altre fattispecie del tutto o in parte distinte da quella che forma l’oggetto della norma impugnata». E negli stessi termini si è espressa la Corte costituzionale, nella sent. n. 10 del 1980, affermando che «le valutazioni di legittimità costituzionale sul rispetto del principio di eguaglianza […] comportano per definizione che la normativa impugnata venga posta a raffronto con un’altra o con altre

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