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ESPRESSIONI DELLA VERGOGNA

1.3 Danza macabra

«Un giorno, un gruppo di prigionieri nudi stavano in fila davanti alla camera a gas, pronti ad entrarci. Non si sa come, uno degli ufficiali delle SS di servizio venne a sapere che una delle prigioniere era stata una ballerina. Egli le ordinò di danzare per lui; lei obbedì, e danzando gli si avvicinò, gli prese il fucile e gli sparò, uccidendolo. Anche lei fu immediatamente uccisa».355

Leggendo questo breve passo di Bettelheim, sorge spontanea una considerazione sullo stile, il quale, nonostante l’estrema tragicità dell’evento, risulta piano e analitico: non a caso, si tratta di un testo di seconda generazione scritto da un medico. Anche perché si tratta di un evento del quale l'autore non è testimone diretto, ma che è stato ripreso da un testo di Eugen Kogon, Der SS-Staat,356 che qui riporto in traduzione inglese:

«On another occasion Roll Call Officer Schillinger made an Italian dancer perform naked before the crematory. Taking advantage of a favorable moment, the woman approached him, seized his gun, and shot him down. In the ensuing struggle she herself was killed, at least escaping death by gas».357

La sua lettura di questi passi, scritti con estrema ucidità, non risulta meno utile per comprendere come hanno operato narratori dotati di uno stile esteticamente più complesso. Questo episodio, infatti, rappresenta uno degli esempi più lampanti di come la tecnica di sottomissione messa in atto dai nazifascisti – fallita in questo caso – faccia perno sulla vergogna.

L’immagine di una donna nuda, probabilmente ormai ridotta a uno scheletro, che balla di fronte a un’autorità poco prima di andare a morte insieme a una moltitudine di individui, mette in scena, in modo drammatico, una volontà di depersonalizzazione agìta attraverso la dinamica del potere che Battacchi rinviene nell’emozione della vergogna.

Quando la pretesa di non esser visti nudi viene a tal punto elusa, si crea un ambiente in cui la nudità corrisponde alla quotidianità e alla vessazione, a una continua

355

B. Bettelheim, Il prezzo della vita, cit., p. 232. Cfr. Eugen Kogon, Der SS-Staat, Frankfurt, 1946.

356

Eugen Kogon, Der SS-Staat, Alber, München, 1946. Testo non tradotto in italiano.

357

Eugen Kogon, The Theory and Practise of Hell, Farrar, Straus and Giroux, New York, 2006, p. 234. Cito l'edizione in inglese perché più diffusa e meglio comprensibile.

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pietrificazione e spersonalizzazione. L’io interiore deve separarsi dall’io corporeo per

poter sopravvivere, accentuando in tal modo uno stato schizoide che, se raggiunge lo stadio di psicosi, rende a sua volta impossibile il sentimento della vergogna.

Lévinas sostiene che «ciò che appare nella vergogna è dunque precisamente il fatto di essere inchiodati a se stessi, l’impossibilità radicale di fuggirci per nasconderci a noi stessi, la presenza irremissibile dell’io a se stesso»:358 situazione inattuabile nello schizoide. Se il soggetto è ancora sano e, come la nostra ballerina, ha solo degli atteggiamenti schizoidi, vale ciò che dice Agamben, ovvero che «quella del nostro corpo non è la nudità di una cosa materiale antitetica allo spirito, ma la nudità del nostro essere totale in tutta la sua pienezza e solidità, della sua espressione più brutale di cui non possiamo non prendere atto».359

Evidentemente questo aspetto sfugge all’ufficiale che ha chiesto alla donna di ballare, perché proprio in quella richiesta è implicito un principium individuationis. Nuda tra i nudi, pietra tra le pietre, in quella richiesta della SS la donna si riappropria di ciò per cui la sua volontà si è spesa lungo tutta la propria vita precedente all’ingresso nel Lager e, inoltre, si riappropria della propria nudità individuale, per la quale ora può provare vergogna.

Avere riconosciuto nella donna una ballerina, e non un semplice corpo spossessato dell’io interiore, costa la vita all’ufficiale: fucilandolo, la donna fa un atto soltanto simbolico (sa bene che non c’è scampo alla morte) ma che le restituisce l’autonomia e le permette di morire per una propria azione, non certo di quella non- morte rappresentata dal meccanismo che porta, un giorno, alla camera a gas.360 Tale atto viene agìto in due condizioni estremamente individuative: la nudità per come è definita da Agamben, in cui ci mostriamo nel nostro essere totale, e la danza, che restituisce immediatamente la totalità al soggetto.

Il racconto di Bettelheim/Kogon è di fondamentale importanza, perché si tratta di una rappresentazione evidente del nuovo ingresso del logos nel territorio di un'esistenza

358

Emmanuel Lévinas, De l’evasion, Montpellier, Fata Morgana, 1982, p. 86. Traduzione di Giorgio Abamgen. Cfr. G. Agamben, Quel che resta di Auschwitz, cit., p. 97.

359

Ivi, p. 87.

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Illuminante a questo proposito il quadro che Agamben ci offre, rifacendosi a Arendt, sulla “fabbricazione dei cadaveri”, nella quale non viene offesa propriamente la vita, ma soprattutto la morte. «Ad Auschwitz non si moriva, venivano prodotti cadaveri. Cadaveri senza morte, non-uomini il cui decesso è svilito a produzione in serie. E propri questa degradazione della morte costituirebbe anzi, secondo una possibile e diffusa interpretazione, l’offesa specifica di Auschwitz, il nome proprio del suo orrore». Ivi, p. 57.

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privata: in breve, una rappresentazione di quello che potrebbe essere il raggiungimento dello scopo della Daseinanalyse.

La morte di Mala Zimetbaum ha molto in comune con la morte della balleria. Male, ebrea polacca, riuscì momentaneamente a scappare dal campo di Auchwitz- Birkenau insieme a un prigioniero politico, Edek Galiński. La loro esecuzione è raccontata da più voci, ma qui ovviamente diamo la precedenza a quella di Primo Levi:

«Edek venne impiccato subito, ma non volle attendere che, secondo l’accanito cerimoniale del luogo, venisse letta la sentenza: infilò il capo nel cappio scorsoio e si lasciò cadere dallo sgabello.

Anche Mala aveva risoluto di morire la sua propria morte. Mentre in una cella attendeva di essere interrogata, una compagna poté avvicinarla e le chiese «Come va, Mala?» Rispose: «A me va sempre bene». Era riuscita a nascondersi addosso una lametta da rasoio. Ai piedi della forca si recise l’arteria di un polso. L’SS che fungeva da boia cercò di strapparle la lama, e Mala, davanti a tutte le donne del campo, gli sbatté sul viso la mano insanguinata. Subito accorsero altri militi, inferociti: una prigioniera, un’ebrea, una donna, aveva osato sfidarli! La calpestarono a morte; spirò, per sua fortuna, sul carro che la portava al crematorio».361

Com'è chiaro, Mala e Edek sono prigionieri particolarmente motivati, tanto da tentare una fuga disperata. Quando stanno per essere giustiziati, non accettano di essere sottoposti al lungo rituale che le SS mettono in pratica in queste occasioni. Mostrano quindi, in punto di morte, la loro autonomia nei confronti dei loro carcerieri.

A differenza della ballerina però, non hanno bisogno che qualcuno riattivi la loro personalità dall'esterno, perché il logos non è mai scomparso dal loro Dasein, non c'è bisogno di un suo rinvenimento. In breve, la ballerina avrebbe avuto bisogno della

Daseinanalyse, Mala e Edek certamente no. Il risultato è lo stesso, perché tutti e tre

muoiono di una morte personale, ma ci arrivano per vie diverse.

Un dato importante sul quale soffermarsi è che ciò avviene in un contesto in cui le esecuzioni e le marce sono inserite all’interno di una particolare coreografia. Una condizione ben descritta da Primo Levi sin da Se questo è un uomo, per quel che concerne soprattutto l’utilizzo della musica, «la voce del Lager, l’espressione sensibile della sua follia geometrica, della risoluzione altrui di annullarci prima come uomini per

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ucciderci poi lentamente».362 Cioè annullare la sicurezza ontologica dei prigionieri, per poi ucciderli come degli automi. In ogni marcia, «le loro anime sono morte e la musica li sospinge, come il vento le foglie secche, e si sostituisce alla loro volontà».363 Le SS legano quindi l’espressione artistica, soprattutto quella non verbale e immediata, a questa volontà di depersonalizzazione, che prende corpo in modo particolare durante le marce. È questo uno dei momenti più tragici, a mio avviso, della rilettura che il nazismo ha fatto di Nietzsche: l’utilizzo attivo di una concezione dell’arte dionisiaca che mette in crisi il principium individuationis in modalità inedite, e cioè non per mettere in contatto il soggetto con una realtà esterna non mediata, non per squarciare il velo di Maya, ma per mettere in crisi ogni singola possibilità di reciprocità tra l’individuo e il mondo. Per dirla con Sartre, il dionisiaco viene messo in campo per creare una relazione additiva costante, sia nel rapporto tra SS e prigionieri, sia nel rapporto tra prigioniero e prigioniero.

«Alla marcia di uscita e di entrata non mancano mai le SS. Chi potrebbe negare loro il diritto di assistere a questa coreografia da loro voluta, alla danza degli uomini spenti, squadra dopo squadra, via dalla nebbia verso la nebbia? quale prova più concreta della loro vittoria?».364

Se i detenuti fossero chiamati per nome, se non si utilizzasse un numero per identificarli, o un simbolo di un certo colore per separarli in classi sociali, queste marce probabilmente non si sarebbero svolte così. Legato al racconto di Bettelheim, questo passo risulta potenziato nella sua ragione di testimonianza, perché ormai ci è chiaro il motivo che può portare a una rivolta dei prigionieri: il ritrovamento inaspettato di una

sicurezza ontologica, il nuovo ingresso del logos nell’esistenza del singolo, che rende

nuovamente il mondo esteriore un universo di senso. Ma siamo anche nelle condizioni di comprendere a fondo, purtroppo, come un atto di rivolta sull’esempio di quello agìto dalla ballerina sia stato solo un’eccezione: perché per l’SS l’individuazione di una prigioniera attraverso un riferimento al suo passato non è soltanto un errore fatale, ma un vizio di forma nella «coreografia da loro voluta». Un vizio di forma che viola la nebbia verso la quale muove chi viene dalla nebbia.

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P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 61.

363

Ivi, p. 62.

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