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2. L'Olocausto personale: tipologia di prigionieri, distanza critica e strategie retoriche

2.2. Distanza fra esperienza e scrittura

L'appartenenza a una tipologia particolare di internato, però, non ha influito sul secondo ambito di diversità, dei tre che voglio tracciare, e che riguarda il tempo trascorso tra la liberazione dei Lager e l'inizio della scrittura testimoniale.

Wiesel e Semprún, uno ebreo e l'altro politico, condividono infatti un bisogno: che il tempo passasse, prima di mettersi a scrivere. Wiesel nel ’54, dopo quasi dieci anni, inizia a scrivere rabbiosamente un grosso memoriale in yiddish,117 dopo l’incitamento di François Mauriac. Nella sua traduzione, e consistente riduzione, in francese, questo libro è noto oggi con il titolo di La notte.118 Pubblicato nel 1958, rimane uno dei testi più importanti sul genocidio nazista.

Anche Semprún decide di posticipare di diciotto anni, certo per motivi diversi dall’autore di La nuit, la scrittura dei momenti più drammatici della sua vita: pubblica nel 1963, per i tipi di Gallimard, Il grande viaggio, un’autobiografia romanzata sul suo arrivo a Buchenwald.119 Lo scrittore spagnolo chiarisce questo ritardo, in modo esemplare, cinquant'anni dopo la liberazione, in uno dei suoi libri più importanti, La

scrittura o la vita.120

Semprún vive un momento aporetico che dura quasi vent'anni: la scrittura è ciò che lo ha sempre legato maggiormente alla vita, perché attraverso di essa si dà comprensione e consapevolezza, ma avere consapevolezza della morte, della morte vissuta e dell'iperrealtà del campo, significa immergervisi e morire in vita.

«Le due cose che credevo mi avrebbero legato alla vita – la scrittura e il piacere – invece, giorno dopo giorno, mi hanno allontanato da essa, ricacciato nel ricordo della morte, respinto nell'asfissia di quel ricordo».121

Un ricordo dinamico, attivo nella memoria dello scrittore. Si tratta ovviamente di un paradosso, di un circolo vizioso: l'Erlebnis, la vivencia, un'esperienza che agisce

117

E. Wiesel, La nuit, les Éditions de Minuit, Paris, 2007, p. 14. Introduzione al testo non tradotta in italiano.

118

E. Wiesel, La nuit, les Éditions de Minuit, Paris, 1958 (trad. it. La notte, Giuntina, Firenze, 1980).

119

J. Semprún, Le grand voyage, Gallimard, Paris, 1963 (trad. it. Il grande viaggio, Einaudi, Torino, 1964).

120

J. Semprún, L'Écriture ou la Vie, Gallimard, Paris, 1994 (trad. it. La scrittura o la vita, Guanda, Parma, 1996).

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sulla vita e sui suoi fondamentali, non potrebbe coincidere con il suo contrario, con il suo annullamento nella morte. Ovviamente questo ragionamento porta a delle conseguenze su più livelli, e in particolare sul fatto che lo scrittore non prova la tipica colpa del sopravvissuto: «Non ero sicuro si essere un vero sopravvissuto. Avevo attraversato la morte, ed essa era stata un'esperienza della mia vita».122

Su questo argomento, Semprún aveva ragionato a suo dire fin da prima della guerra, poiché aveva annotato su una sorta di diario filosofico alcuni passi di Wittgenstein e i passi di Heidegger inerenti all'essere-per-la-morte. In particolare, si concentra su questo passo del Tractatus Logico-Philosophicus:123 «la morte non è un avvenimento della vita. La morte non può essere vissuta».124 Della seconda parte di questa sentenza, nel corso degli anni, lo scrittore aveva fornito altre due traduzioni, poiché il termine "vissuto" non può essere valido in francese (e per analogia anche in italiano) per rendere erleben e Erlebnis, o vicencia. Il verbo francese e italiano è scialbo, fiacco, e prima di tutto è passivo e al passato,125 «mentre l'esperienza della vita, che la vita fa di se stessa, di sé nel momento in cui la vive, è attiva. Ed è per forza di cose al presente».126 Quindi, "la morte non può essere vissuta" diventa «non si può vivere la morte» e in seguito «La morte non è un'esperienza vissuta».

Ma che la morte non possa essere un'esperienza vissuta, dice Semprún, è cosa nota da molto tempo, perché la morte non può essere «un'esperienza della coscienza pura, del cogito. La morte sarà sempre esperienza mediata, concettuale; esperienza di un fatto sociale, pratico». E infine non può trattenersi dal proporre non un'ulteriore traduzione, ma una lieve, drammatica modifica all'enunciato di Wittgenstein: «la mia morte non è un avvenimento della mia vita. Io non vivrò la mia morte».127

Questa interpretazione alternativa trova la sua conferma dopo poche pagine, quando lo scrittore si trova davanti a un suo compagno morente, Diego Morales. Jorge decide di recitargli una poesia di César Vallejo, e continua a pensare a quei versi anche dopo che la morte ha preso l'amico: «"No mueras, te amo tanto!" / Pero el cadáver ¡ay! Siguió muriendo...».128 Non morire, ti amo tanto, però il cadavere continuò a morire:

122

J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., pp. 131-132.

123

Ludwig Wittgenstein, Logisch-Philosophische Abhandlung, UNESMA, Leipzig, 1921 (trad. it.

Tractatus logico-philosophicus, Fratelli Bocca, Roma-Milano, 1954).

124

J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., p. 162.

125 Ivi, p. 132. 126 Ibidem. 127 Ivi, p. 162. 128 Ivi, p. 180.

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come se la morte non fosse una soglia ma un percorso. In effetti, la morte è una soglia solo per chi è morto, ma per chi osserva un morente, per chi ancora vive, la morte è un percorso. Lasciando da parte una possibile obiezione a questa mia conclusione, ovvero lo status del Muselmann, l'uomo ai minimi termini in campo di concentramento, la morte è per i vivi un divenire. È vero che, passata la soglia, tutto ciò si annulla. Ma è invece possibile per Semprún vivere la morte di un altro, per Vallejo è possibile che un cadavere ai suoi occhi continui a morire. Jorge conclude con una battuta:

«A quel punto mi ricordo di Wittgenstein. "La morte non è un avvenimento della vita. La morte non può essere vissuta", aveva scritto quel fesso di Wittgenstein. Eppure, io avevo vissuto la morte di Morales. [...]. Non avevo forse vissuto l'orrore, la pena di tutti quei morti? Di tutta la morte? Come pure la fratellanza che essa metteva in gioco?».129

Per questo, poche pagine prima, lo scrittore aveva inserito i possessivi nella frase di Wittgenstein: la mia morte non è un avvenimento della mia vita; io non vivrò la mia morte.

La scrittura diventa quindi un modo per vivere il proprio senso di morte – e non la propria morte – che si alimenta della morte reale degli altri. Semprún esprime la propria aporia esistenziale in maniera definitiva in un passo in cui questo concetto, il senso di morte, appare nella sua chiarezza:

«Aveva ragione Vallejo. Io non possiedo altro che la mia morte, che l'esperienza della mia morte, per dire la mia vita, per esprimerla, portarla avanti... Bisogna che costruisca della vita con tutta questa morte. E il modo migliore per riuscirvi è la scrittura. Ma la scrittura mi riconduce alla morte, mi rinchiude in essa asfissiandomi. Ecco il punto a cui sono giunto: non posso vivere se non facendomi carico di questa morte attraverso la scrittura, ma la scrittura mi impedisce letteralmente di vivere».130

La scrittura è quindi l'unico modo per tornare alla vita, ma attraverso una catabasi teorica, filosofica eppure profondamente drammatica nella propria morte, intesa come senso di morte, lento deperimento spirituale. Per poter dare inizio – voce – a quest'impresa, a questa catabasi, Jorge Semprún rimane sull'orlo della discesa per quasi

129

Ibidem.

130

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vent'anni, perché «solo un grido proveniente dal profondo delle viscere, solo un silenzio di morte avrebbe potuto esprimere la sofferenza».131

Scrivere per lui è "asfittico",132 un verbo usato più volte nel suo libro, che indica la mancanza d'aria e che si riconnette idealmente allo spirito vitale, all'alito di Dio dentro il corpo d'argilla di Adamo. L'aria deve cambiare, il significato dell'urlo ha bisogno di essere sussurrato per diventare comprensibile, e per fare questo occorre del tempo.

Ma c'è chi per natura non grida, chi non vive nell'urlo. Una figura simile è rintracciabile a mio parere in Primo Levi, il quale è capace di scrivere immediatamente dopo i fatti. Al contrario di Semprún, ne ha bisogno. È proprio lo spagnolo che, nel suo libro, sembra dividere i libri di testimonianza della Shoah in testi di prima e di seconda generazione:

«Tutti i racconti degli ex deportati le descrivono [le angosce], sono stati composti nell'urgenza della testimonianza immediata, che talvolta si smorza e s'impoverisce nella ricostruzione minuziosa di un passato poco credibile, effettivamente inimmaginabile, oppure più tardi, col distacco imposto dal tempo, nel tentativo infinito di render conto di un'esperienza che si allontana nel passato, e i cui contorni tuttavia diventano in parte più nitidi, i cui territori s'illuminano di una luce nuova fra le nebbie dell'oblio».133

Scrivere immediatamente, quasi da convalescente, con le immagini più nitide nei contorni ma mischiate e sovrapposte l'una all'altra, o scrivere dopo molto tempo, magari in vecchiaia, descrivendo immagini più sbiadite ma libere da ogni confusione? In questo senso, sembra che la scrittura abbia due funzioni: uno sfogo emotivo, ma anche uno sforzo conoscitivo. Un fine catartico, quindi, e un fine euristico. Ma questa è solo una comoda divisione delle teleologie, per meglio vederle, perché in fondo non c'è testo di prima o di seconda generazione che non le accolga entrambe, in minore o maggior misura. La scrittura o la vita è in primo luogo un testo conoscitivo, ma non è difficile vedere tra le sue righe alcune occasioni di sfogo emotivo direttamente connesso all'esistenza quotidiana nel Lager. Levi scrive subito per dire la sua sofferenza ed è per questo che torna alla vita, ma non mi sembra che in lui non si mantenga la volontà di conoscere, lo sforzo dell'interrogazione; vale lo stesso per Antelme.

131 Ivi, p. 151. 132 Ivi, pp. 105, 155, 230. 133 Ivi, p. 217.

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Sono loro, Antelme e Levi appunto, ad aver scritto per primi, immediatamente dopo la Liberazione. Antelme pubblica per Gallimard, nel 1947, La specie umana,134 un importante libro sulla sua esperienza a Gandersheim, un piccolo campo per prigionieri politici. Viene tradotto quasi subito in italiano, nel 1954, da Lorenza e Ugo Bosco per Einaudi. Nell’introduzione all’edizione del 1997, Alberto Cavaglion afferma che «a questo libro di Robert Antelme si attribuisce di solito una pesante, quanto ingiusta responsabilità. Aver indirettamente ritardato la scoperta di Se questo è un uomo».135 Infatti il libro di Levi, come è noto, fu pubblicato a bassa tiratura nel 1947 da Franco Antonicelli,136 certo non a causa del suo “concorrente” francese, ma probabilmente per colpa di Cesare Pavese.137 Poi Einaudi lo pubblicherà nel 1958: da questa data si misura il successo planetario di questa preziosa testimonianza.

Ciò che accomuna i due libri è, oltre all’estrema vicinanza tra esperienza e scrittura, il fondamentale insuccesso. È il sogno di Levi138 che si avvera: nell’Italia e nella Francia della fine degli anni Quaranta nessuno era disposto ad ascoltare i sopravvissuti dei Lager. La smania di raccontare di cui parla Calvino nella sua famosa introduzione al Sentiero dei nidi di ragno139 era valida per tutti, soldati, cittadini, contadini, sopravvissuti, ma la voglia di ascoltare evidentemente no. Sia in Italia che in Francia, paesi che hanno espresso una Resistenza, i discorsi si sono inizialmente concentrati sui partigiani, e sulla progettualità della ricostruzione dei rispettivi paesi. «I partigiani piacevano, ma i deportati no»,140 sostiene Wiesel. La spiegazione potrebbe essere semplice: i partigiani sono personaggi narrabili seguendo un classico intreccio tragico, o epico, perché agiscono attivamente, si tendono verso un destino, mentre i deportati erano perlopiù personaggi (e li chiamo personaggi perché sto parlando di narrazioni) che avevano subìto qualcosa, un qualcosa di innominabile e tetro. Non a caso, ad Améry sembra ridicolo “vantarsi” di aver subìto qualcosa.

Libri composti immediatamente, quindi, entrambi dimenticati e poi riportati al successo dopo qualche anno, dopo che il tempo ha affievolito l’irrequietezza di chi non è disposto a sentire una storia che non abbia un lieto fine: la liberazione dei campi,

134

Robert Antelme, L'espèce humaine, Gallimard, Paris, 1947 (trad. it. La specie umana, Einaudi, Torino, 1997).

135

Alberto Cavaglion, Introduzione, in Robert Antelme, La specie umana, cit., p. V.

136

P. Levi, Se questo è un uomo, Francesco Da Silva, Torino, 1947.

137

Capolavori bocciati. Levi o Grass, un rifiuto non si nega a nessuno, La Repubblica, 17 settembre 2012, p. 50.

138

P. Levi, Se questo è un uomo, cit., pp. 74-75. Id., La tregua, Einaudi, Torino, 1963, p. 254.

139

Italo Calvino, Prefazione in Il sentiero dei nidi di ragno, Einaudi, Torino, 1964.

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infatti, non è mai stata narrata dai testimoni in termini positivi, nessuno di loro si è sentito immediatamente liberato. Tanto che definirla “liberazione” risulta quasi improprio, perché dopo aver letto le testimonianze, sia di prima che di seconda generazione, potrebbe apparire come un'ingenua proiezione di ciò che vuole un lettore.141

Esiste un punto di incontro tra tutti gli autori che ho citato, e questo punto coincide con l'opera di Primo Levi: scrittore della prima ora che ha continuato a scrivere anche negli anni a venire, l'unico vero autore di testi di prima e di seconda generazione – dato che Antelme, David Rousset, Eugen Kogon e altri non hanno fatto testimonianza dopo gli anni Quaranta e si sono limitati a singole pubblicazioni.

Il nodo di connessione rappresentato da Levi è chiarito da Semprún nella sua teoria della scrittura infinita:

«A me capita un fatto singolare, per quanto riguarda la memoria, l'angoscia dell'oblio. Più scrivo [...], più mi ritorna la memoria. In altre parole, dopo l'ultimo libro scopro di avere più cose da dire di quante ne avessi quando ho cominciato il primo. Come se l'oblio fosse stato così profondo da richiedere il lavoro della scrittura, della memoria volontaria, della ricerca volontaria del passato. Riaffiorano le immagini, i volti, i ricordi, gli aneddoti. Le sensazioni, perfino. Da qui nasce la mia teoria di una scrittura inesauribile: possibile e al contempo inesauribile. Si può dire, ma al tempo stesso non sarà mai possibile dire tutto. Si può dire ogni volta di più».142

E l'autore spagnolo sa bene che questo è il punto in comune tra lui, che si è imposto l'aporia della scelta tra la scrittura o la vita, e chi invece ha sposato la comunione tra scrittura e vita, scrittura come unica via alla vita. Nelle pagine del suo libro, infatti, Semprún parla direttamente di Levi e di come lo ha colpito profondamente la notizia della sua morte, tanto da immaginare, lui più giovane di cinque anni, di avere ancora quei soli cinque anni di vita davanti. Ma il punto non è questo.

141

Rimando a un solo, significativo, esempio, cioè alla conversazione tra Semprún e Wiesel. Quest’ultimo dice che «nel Campo Piccolo […] non c’è stato nessun segno di gioia, nessuna celebrazione. Poi è arrivata la liberazione, e noi eravamo lì, a guardarci in faccia, a pregare. […]. [Semprún] Nessuna gioia, dici tu? Ma che gioia poteva esserci? Voi eravate al di là. […]. [Wiesel] Eravamo incapaci di gioire. Eravamo ancora immersi nella morte. […] La gioia non esisteva». J. Semprún, E. Wiesel, Tacere è

impossibile, cit., p. 43.

142

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Dopo aver elogiato il libro di Levi («un capolavoro di pudore, di straordinaria nudità della testimonianza, di lucidità e di compassione»),143 dopo aver disegnato i contorni del suo modo di scrivere («Primo Levi ha parlato più volte [...] delle severe gioie della scrittura», «la scrittura strappava Primo Levi al passato, e rasserenava la sua memoria»),144 dopo aver precisato che il sogno dello scrittore italiano si è avverato perché nessuno inizialmente voleva leggere il suo libro, si sofferma su una coincidenza per lui molto significativa, connessa simbolicamente alla sua morte:

«Nonostante la radicale differenza del percorso biografico, delle esperienze vissute, rimane una coincidenza sconcertante. Lo spazio di tempo storico che intercorre, effettivamente, fra il primo libro di Levi [...] e il secondo, La tregua, è lo stesso che separa la mia incapacità di scrivere nel 1945 e Il grande viaggio. Questi ultimi due libri sono stati scritti nello stesso periodo, e pubblicati quasi contemporaneamente [...]. Come se, al di là di ogni circostanza biografica, una capacità di ricezione fosse maturata oggettivamente, nell'opacità quasi indecifrabile dell'avanzare della Storia. Una maturazione sorprendente e interessante, tanto più che coincide con le prime testimonianze sul Gulag sovietico».145

Il sogno di Levi si disintegra nell'improvvisa attenzione che le scritture della Shoah suscitano nel pubblico. Allora, dopo quasi vent'anni di silenzio e di lavoro da chimico, Levi torna a scrivere e diventerà scrittore a tempo pieno nel 1975.

La stessa sorte avversa alla prima pubblicazione è quella che colpisce La notte di Wiesel. La prima edizione in inglese fu pubblicata nel 1960 con una tiratura di 3000 copie e fu esaurita in tre anni.146 Di lì a pochissimo tempo però, anche questo libro avrebbe avuto la risposta di pubblico che meritava.

«Malgré une critique favorable, le livre se vendait mal. Le sujet, jugé morbide, n'intéressait personne. [...]. Depuis, les choses ont changé. Mon petit volume remporte un accueil auquel je ne m'attendais pas. Aujourd'hui, ce sont surtout les jeunes qui le lisent en classe et à l'Université. Et ils sont nombreux. Comment expliquer ce phénomène? Tout d'abord, il faut l'attribuer au changement survenu dans la mentalité du grand public. Si, dans les années cinquante et soixante, les adultes nés avant ou pendant la guerre manifestaient à l'égard de ce que l'on nomme si pauvrement l'Holocauste une sorte d'indifférence

143

J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., p. 230.

144

Ibidem.

145

Ivi, pp. 230-231.

146

Winfrey selects Wiesel's 'Night' for book club, Associated Press, 16 gennaio 2006. In particolare, alcuni passi riportati da un'intervista, non reperibile, rilasciata al Chicago Tribune nel 2002.

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inconsciente et indulgente, cela n'est plus vrai maintenant. [...]. Désormais, le thème d'Auschwitz fait partie de la culture générale».147

147

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