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2. L'Olocausto personale: tipologia di prigionieri, distanza critica e strategie retoriche

2.3. Verità o retorica?

Il terzo ambito di diversità riguarda la strategia retorica che l'autore ha ritenuto opportuna per meglio comunicare la propria esperienza, la quale si concentra prima di tutto su un problema: è opportuno fare uso del principio di finzione? Ognuno di questi

Geheimnisträger, di questi portatori di segreti,148 ha una visione molto caratterizzata del segreto stesso, del modo di comunicarlo, di distruggerlo nella sua sostanza nascosta tramutandolo in notizia e in racconto.

In questo senso, sembra che l'appartenenza a una certa tipologia di prigionieri abbia influenzato questo parametro, dato che i politici sembrano più direttamente aperti all'uso della retorica finzionale, mentre gli ebrei tendono invece, con le naturali eccezioni del caso, a mantenere per le loro scritture uno status più direttamente testimoniale, collegato alla tradizione dell'autobiografia. Questo aspetto è assai evidente nelle opere dei quattro autori che ho proposto – Se questo è un uomo, La specie umana,

La notte e La scrittura o la vita.

Primo Levi, nell'introduzione posta al suo primo libro, sembra ricalcare in parte il modello dell'autobiografia moderna europea, Le confessioni di Rousseau. Inizia il suo discorso con un tipico espediente della captatio benevolentiae, ovvero la professione di modestia («questo mio libro [...] non aggiunge nulla a quanto è ormai noto ai lettori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei campi di distruzione»)149 ma poi continua con parole che sembrano prese direttamente dalla confessione del grande svizzero: «[questo libro] potrà piuttosto fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell'animo umano».150 Mentre in Rousseau: «un'opera che può servire come prima pietra di paragone per quello studio degli uomini che è ancora certamente da cominciare».151 Le stesse parole torneranno nelle prime pagine del romanzo maggiore di Giuseppe Berto, Il male oscuro, del quale mi occuperò nel terzo capitolo.

148

P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 6. Cfr ricorrenza anche in Le Benevole. Il Geheimnistrager nel Terzo Reich indicava un individuo in possesso di informazioni dettagliate sui campi di sterminio e sul progetto della soluzione finale. Quindi poteva designare sia l'internato che la guardia, sia il comandante del campo che l'alto funzionario impiegato negli uffici dell'RSHA. Anche Eichmann infatti era un portatore di segreti e, in quanto tale, avrebbe potuto subire la pena capitale per ordine di Himmler se avesse fatto trapelare notizie sui Lager.

149

P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 7.

150

Ibidem.

151

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Per introdurre il proprio lavoro Levi si rifà quindi, coscientemente o meno, a un modello di confessione, e tale modello prevede anche una professione di verità, in cui i dispositivi della finzione vengono automaticamente espulsi dalla scrittura: «Mi pare superfluo aggiungere» afferma in explicit «che nessuno dei fatti è inventato».152 Nessun dubbio quindi: l'autore ha intenzione di dire esclusivamente la verità. Che poi utilizzi i dispositivi narrativi tipici della scrittura finzionale, e non di quella storiografica, poco importa. La sua intenzione intima è quella di non mentire e di non "barare", di non cercare l'effetto retorico ma di scrivere prendendo le mosse, per analogia, dal suo modo di vedere il mondo, quello dello scienziato che osserva, scompone, semplifica, comprende ed espone.

Tali intenzioni non vengono condivise del tutto da Robert Antelme. Sebbene il suo libro sia, a parte alcune splendide eccezioni, piuttosto puntuale e lontano dall'idea della bella prosa, l'autore afferma nella prefazione alcune cose molto significative sulla sua propensione alla scrittura. Inizialmente si pone il problema del linguaggio da adottare per narrare i fatti, una questione che tocca praticamente tutti i testimoni della Shoah, e giunge alla conclusione che tale linguaggio non esiste perché i fatti di cui si parla sono inimmaginabili:

«la sproporzione tra l'esperienza che avevamo vissuto e il racconto che ci era possibile farne non fece che confermarsi in seguito. Si era dunque di fronte a una di quelle realtà che superano l'immaginazione. Era ormai chiaro che solo scegliendo, solo cioè

attraverso l'immaginazione, potevamo tentare di dire qualcosa».153 (corsivo mio)

Come è chiaro, anche se gli esiti formali possono avere qualcosa in comune con la scrittura leviana, le scelte di Antelme sono opposte, il francese si siede allo scrittoio in una posizione diversa rispetto a quella in cui si siede Levi. Il solo fatto che in sede introduttiva si dichiari la possibilità della finzione, o meglio, l'ausilio dell'immaginazione per completare i vuoti del linguaggio, rovescia la tipica pretesa di verità degli autobiografi moderni.

La scrittura di Antelme si vuole certamente presentare come scrittura della verità, ma se in sede paratestuale la finzione viene giustificata come corroborante della verità, il lettore si trova di fronte a una posizione ambigua: in quali modalità l'autore ricorrerà alla finzione nelle pagine che mi accingo a leggere? Nel linguaggio, evidentemente. Ma

152

P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 8.

153

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se il linguaggio non è portatore di verità a livello costitutivo, come posso credere a tutto ciò che il linguaggio mi dice anche quando l'autore pretende di dire la verità nella sua purezza e senza artifici?

Sembra che un reduce della Shoah si interroghi sul valore morale della propria scrittura in un modo assai più profondo e pressante rispetto a uno scrittore che ha sempre vissuto "al sicuro" e racconta la propria vita. Usare qualsiasi modello retorico che si allontani dalla cruda realtà del campo viene avvertito come un atto di importanza capitale, perché si tratta di una seconda scelta, forzata dall'impossibilità di comunicare il valore integro della propria storia attraverso una scrittura di tipo documentario.

Antelme, per dare un esempio immediato, compone un incipit in medias res, ovvero un procedimento tipico della scrittura finzionale. Paragoniamolo all'incipit di Levi, che al contrario comunica prima di tutto la data della sua cattura, la sua età e altre informazioni utili per comprendere razionalmente la sua posizione:

«Sono andato a pisciare. Era ancora notte. Altri vicino a me pisciavano senza parlarsi. Dietro al pisciatoio c'era la latrina, una fossa con un muretto sul quale erano seduti uomini con i pantaloni abbassati. Un piccolo tetto copriva la fossa, non il pisciatoio. Dietro a noi si sentivano rumori di zoccoli, colpi di tosse; erano altri che arrivavano. Le latrine non erano mai deserte. Sui pisciatoi fluttuava in continuazione una nuvola di vapore. Non era del tutto buio, lì il buio non era mai profondo».154

«Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943. Avevo ventiquattro anni, poco senno, nessuna esperienza, e una decisa propensione, favorita dal regime di segregazione a cui da quattro anni le leggi razziali mi avevano ridotto, a vivere in un mio mondo scarsamente reale, popolato da civili fantasmi cartesiani, da sincere amicizie maschili e da amicizie femminili esangui. Coltivavo un moderato e astratto senso di ribellione. Non mi era stato facile scegliere la via della montagna».155

Antelme dà il benvenuto al suo lettore con una scena di vita quotidiana nel campo, ma non gli fornisce alcuna informazione su come il suo "personaggio" sia arrivato in quel luogo, quali siano le ragioni per cui ha subìto una cattura e una detenzione. Certo, si capisce che si tratta di un prigioniero politico, ma all'epoca della pubblicazione questo poteva non esser colto dal lettore medio. In breve, si tratta di un incipit romanzesco, cominciamento di una storia che non ha la pretesa di essere totalmente vera. Noi certo

154

Ivi, p. 13.

155

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sappiamo che Antelme è stato realmente in un Lager, ma a voler eliminare il titolo del romanzo dalla copertina e il nome del suo autore, cioè prendendo il libro in mano senza indicazioni di sorta, come un testo neutro, il lettore risponderebbe "romanzo" alla domanda "a quale genere afferisce questo testo?".

Levi non inaugura la propria operazione di scrittura immergendo il lettore negli odori, nel buio, nei rumori di una latrina, ma fornendogli prima di tutto le informazioni necessarie a capire la realtà dei fatti. La milizia lo cattura il 13 dicembre del '43, lui ha ventiquattro anni, dopo quattro anni di segregazione subìta per via delle leggi razziali sceglie la via della montagna. Il lettore ha le idee chiarissime, non può fraintendere alcunché.

Il discorso per Wiesel è più complesso.156 Il manoscritto originale è stato composto in yiddish, mai pubblicato integralmente bensì in una riduzione di 245 pagine, e ridimensionato ulteriormente nella traduzione francese e americana.157 Si tratta quindi di un testo ampiamente rimaneggiato, riscritto per andare incontro al pubblico, per raggiungere il maggior numero di lettori possibile. Muovendo dalla edizione giunta a noi, è impossibile definire quali fossero le reali strade percorse dalla scrittura di Wiesel nella prima stesura. Certo è che anche lui si avvale di una strategia retorica in fase di

incipit: racconta la sua storia sin da prima della deportazione, mentre era ancora con la

famiglia a Sighet e sotto questo aspetto ha qualcosa in comune con Levi; tuttavia il suo

incipit in medias res è in linea con quello del libro di Antelme:

«Lo chiamavano Moshé lo Shammàsh, come se dalla vita non avesse avuto un cognome. Era il factotum di una sinagoga chassidica. Gli ebrei di Sighet – questa piccola città della Transilvania dove ho trascorso la mia infanzia – gli volevano molto bene».158

Moshé è un personaggio che non avrà alcun ruolo nell'esperienza di Elie in Lager. È un abitante di Sighet che, deportato, riesce a scappare dalle grinfie dei suoi aguzzini durante una Aktion, una fucilazione eseguita dopo che le vittime si sono scavate la fossa

156

Complesso anche per via delle recenti polemiche sulla validità della testimonianza di Elie Wiesel, accusato da Miklos Grüner di avere rubato l'identità e il numero di matricola di un suo quasi omonimo, Lázár Wiesel. Esiste anche un sito internet, a dire il vero piuttosto volgare nella sua impaginazione, dedicato alla revisione del caso Wiesel, www.eliewieseltattoo.com. La domanda sorge spontanea: perché è sorto un movimento revisionista proprio contro il più riconosciuto dei testimoni della Shoah e non contro testimoni di minore importanza?

157

«I had to cut down the original manuscript from to 245 of the published Yiddish edition. Lindon edited

La nuit down to 178». Elie Wiesel, All Rivers Run to the Sea. Memoirs, Schocken, New York, 1995, cap.

9. Testo non tradotto in italiano.

158

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con le loro stesse mani. Poi svanisce. È un personaggio molto vicino a un certo tipo narrativo, perché sembra quasi incarnare il ruolo della Cassandra mitica in un villaggio in cui tutti vogliono pensare in modo ottimistico. Infatti le prime pagine della Notte sono dedicate alla descrizione di questo ottimismo assurdo, all'incapacità da parte degli abitanti di Sighet di decifrare i segnali che li avrebbero portati a comprendere la gravità della loro situazione. Moshé, non importa se persona reale o personaggio finzionale al servizio della verità, è costruito come un soggetto romanzesco.

Tutto questo sembra in linea con un dato ben preciso: Wiesel condivide con Antelme il problema della limitatezza del linguaggio, cosa che probabilmente lo porta ad adottare più facilmente delle strategie retoriche di tipo finzionale. Il problema del linguaggio non è sempre dichiarato nei testi introduttivi che alcuni testimoni antepongono al loro libro, ma Antelme e Wiesel lo fanno chiaramente, anche se quest'ultimo solo nel 2007, in occasione di una nuova edizione:

«J'avais trop de choses à dire, mais pas les mots pour le dire. Conscient de la pauvreté de mes moyens, je voyais le langage se transformer en obstacle. On aurait dû inventer un autre langage».159

Bisogna inventare un nuovo linguaggio per poter dire le troppe cose che le parole "normali" non possono più dire. Da queste parole, il lettore dovrebbe trarre la conclusione che il linguaggio nella sua interezza non sia capace di esprimere. In realtà, sembra che la questione si orienti principalmente sul versante lessicale: «La faim, la soif, la peur, le transport, la sélection, le feu et la cheminée: ces mots signifient certaines choses, mais en ce temps-là, elles signifiaient autre chose».160 Ma il lettore ricorderà anche le parole di Levi:

«Noi diciamo "fame", diciamo "stanchezza", "paura", e "dolore", diciamo "inverno", e sono altre cose. Sono parole libere, create e usate da uomini liberi che vivevano, godendo e soffrendo, nelle loro case. Se i Lager fossero durati più a lungo, un nuovo aspro linguaggio sarebbe nato».161

Sembra che questo nuovo linguaggio debba nascere comunque, almeno nelle testimonianze scritte dei reduci. È stato necessario accennare qui al problema del

159

E. Wiesel, La nuit, cit., 2007, pp. 11-12. Introduzione al testo non tradotta in italiano.

160

Ibidem.

161

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linguaggio anche per vedere come questo dilemma non influenzi la scrittura di Jorge Semprún. O meglio, come il problema non sia di natura lessicale. Come è chiaro da ciò che è stato detto più su, la reticenza alla scrittura nel caso di La scrittura o la vita è più legata alla questione esistenziale che alle parole da utilizzare:

«Ma il mio problema non è tecnico, è morale, il mio problema è che non riesco, tramite la scrittura, a entrare nel presente del campo, a raccontarlo al presente... Come se ci fosse un'interdizione di rappresentazione del presente».162

Ma in realtà il problema è anche tecnico, ed è quello che più ci preme analizzare in questo momento. Nella pagina precedente, infatti, lo spagnolo dichiara direttamente la proprie difficoltà retoriche:

«Ci sono ostacoli di ogni tipo alla scrittura. Alcuni puramente letterari. Perché non voglio una semplice testimonianza. Voglio, in primo luogo, evitare, evitare a me stesso l'enumerazione delle sofferenze e degli orrori. Altri vi si cimenteranno... D'altra parte, sono incapace di immaginare, oggi, una struttura romanzesca alla terza persona. [...]. Ho bisogno, insomma, di un 'io' narrante, nutrito della mia esperienza ma capace di superarla, di inserire in essa un po' di immaginario, di finzione... una finzione che sicuramente illuminerebbe quanto la verità. Che aiuterebbe la realtà ad apparire reale, e la verità ad essere verosimile».163

A parte una incredibile coincidenza di intenti con Primo Levi nella volontà di non enumerare gli orrori dei campi,164 qui Semprún giustifica apertamente, e in modo ancora più incisivo rispetto ad Antelme, l'uso della finzione. Questo io narrante di cui ha bisogno, nutrito della sua esperienza ma capace di superarla, è il protagonista di Il

grande viaggio, cioè di un romanzo autobiografico.

Ma anche il suo libro-verità, La scrittura o la vita, è permeato di volontà finzionale, in quanto totalmente strutturato su strategie retoriche di tipo letterario. Anche lui sceglie, per fare un esempio, la tecnica dell'incipit in medias res:

162

J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., p. 157.

163

Ivi, pp. 156-157.

164

«[...] questo mio libro, in fatto di particolari atroci, non aggiunge nulla a quanto è ormani noto ai lettori di tutto il mondo sull'inquietante argomento dei campi di distruzione». P. Levi, Se questo è un uomo, cit., p. 7.

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«Stanno davanti a me, con gli occhi sbarrati, e d'improvviso io mi vedo nel loro sguardo di terrore: nel loro sgomento».165

"Loro" sono tre ufficiali dell'esercito britannico, ma l'autore ce lo rivela solo nella pagina successiva. Il lettore è così posto di fronte a un interrogativo, forse il medesimo che si pongono i soldati: chi ho davanti? Lo straniamento delle identità nel testo è un ottimo espediente retorico per porre il lettore in uno stato di confusione, esattamente come accade ai personaggi di questa scena.

Inoltre, Semprún adotta la tecnica dei richiami interni: in ogni capitolo propone al lettore una situazione di partenza (in questo caso l'incontro tra un sopravvissuto di Buchenwald e tre militari alleati), dopodiché si dilunga nell'esposizione di alcuni particolari – cedendo spesso a vere e proprie digressioni – per poi tornare ciclicamente alla situazione di partenza, fino alla fine del capitolo. Infine, dato che l'incipit è la situazione di partenza per eccellenza, quest'ultimo viene riproposto al lettore nelle battute conclusive del testo, in un richiamo metaletterario in cui l'autore racconta il concepimento stesso del libro.166

In tal modo il lettore vive costantemente sulla soglia dell'incertezza, ha pochi appigli, deve sforzarsi per capire, deve impegnarsi. È quello che Semprún vuole raggiungere attraverso i procedimenti finzionali, perché le parole non bastano a descrivere: bisogna capire. In Europa c'era stato chi, come Bertolt Brecht, aveva utilizzato alcuni espedienti, in campo artistico, per coinvolgere in prima persona ed eticamente il fruitore dell'opera d'arte. Il teatro epico mirava appunto a scuotere lo spettatore dal comodo giaciglio dell'emozione per spingerlo a riflettere attivamente sulle azioni dei personaggi interpretati sul palco. Ma il tutto era basato, perlopiù, su intrecci di finzione. Qui il lavoro di Semprún è più complesso perché più coinvolto con la realtà: l'utilizzo di dispositivi retorici fittivi, come ho già detto, non era una scelta facile per chi voleva comunicare l'esperienza di vita reale nel Lager. La posta in gioco era altissima perché paradossale: bisognava trovare il modo di dire una menzogna che comunicasse la verità.

Semprún affronta questo dilemma lungo tutto il corso di La scrittura o la vita: oltre al passo già citato, abbiamo almeno altre tre ricorrenze di questo interrogativo. Nella prima, la più importante forse, Jorge si trova ancora a Buchenwald, nei giorni in

165

J. Semprún, La scrittura o la vita, cit., p. 11.

166

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cui gli alleati hanno liberato il campo ma i prigionieri non sono stati ancora rimpatriati. Alcuni di loro, ormai designati per il convoglio della mattina successiva, si incontrano, probabilmente per salutarsi, sicuramente per fare il punto della situazione e definire quale sia il modo migliore per raccontare la loro disgrazia. Un compagno, racconta l'autore, sostiene che il problema sia più che altro se qualcuno sarà disposto ad ascoltarli (il sogno di Levi) anche se saranno capaci di "raccontare bene". A questo punto un altro compagno dissente in modo netto: «Cosa significa, [storie] "raccontate bene"? [...]. Bisogna dire le cose come stanno, senza artifici».167 E questa sembra la posizione più condivisa tra tutti. Ma Semprún risponde: «Raccontare bene significa: in modo da essere capiti. E ciò non sarà possibile senza un minimo di artificio. Quanto basta perché il racconto diventi arte!».168 L'affermazione suscita diverse proteste e non viene accolta in alcun modo: questo fatto conferma pienamente che per il testimone della Shoah, in genere, è difficile, o quantomeno eticamente impegnativo, adottare una scrittura finzionale per testimoniare. Semprún continua la sua argomentazione:

«Come raccontare una verità poco credibile, come suscitare l'immaginazione dell'inimmaginabile, se non elaborando, lavorando la realtà, mettendola in prospettiva? Con un po' d'artificio, dunque! [...] Immagino che ci saranno molte testimonianze... Varranno quanto varrà lo sguardo del testimone, la sua intensità, la sua perspicacia... E poi ci saranno dei documenti... Più tardi, gli storici raccoglieranno, riuniranno, analizzeranno le une e gli altri: ne faranno delle opere dotte... Sarà detta, registrata, ogni cosa... Tutto risponderà al vero... solo che mancherà la verità essenziale, quella verità che nessuna ricostruzione storica, per perfetta e onnicomprensiva che sia, potrà mai raggiungere... [...] L'altro genere di comprensione, la verità essenziale dell'esperienza, non è trasmissibile... O meglio, lo è solo attraverso la scrittura letteraria».169

Per Semprún quindi la scrittura storica non può comunicare la verità urgente del campo di concentramento. Il romanzo, l'arte, sono l'unica via. Ma non sembra, questa, una teoria accettabile per la gran parte dei sui compagni. Come abbiamo visto, invece, sembra una strada piuttosto battuta da chi infine ha preso la penna tra le mani e ha