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ESPRESSIONI DELLA VERGOGNA

2. Riduzioni dell'identità: il nome e il volto

2.2 Primo piano: il tema del viso in La specie umana di Robert Antelme

La tematica del nome è trattata anche in area francese. Troviamo, in un saggio di Finkielkraut del 1996,409 le stesse opinioni di Mazzoni riportate più su.

«C'è tra la guerra e il nome un legame secolare. Il combattimento è il momento della verità in cui il nome attesta se stesso. È nell'esporsi al supremo pericolo che l'uomo si distingue, si fa un nome, o si mostra degno del proprio nome. Solo il valore e il disprezzo della morte che assicurano all'eroe uno splendore imperituro. Achille preferisce deliberatamente una vita breve e gloriosa al prolungamento di una confortevole esistenza che la posterità ignorerebbe. [...]. E tutte le prodezze che oggi applaudiamo, per quanto pacifiche siano, ricevono una parte della loro gloria da questa origine marziale. Esistono ben altri fatti che i fatti d'arme, ma tutto è cominciato da lì: la prima azione che ha separato l'individuo dalla folla, sottratto la vita all'anonimato e reso indimenticabile la morte è l'impresa guerriera».410

L'aver combattuto è un lasciapassare che dà al soggetto la qualifica di eroe e il diritto di essere ricordato attraverso il nome, l'unico indicatore esclusivamente culturale, e quindi teoricamente imperituro, della persona. Ma nella modernità, cambiate la tecnologia e la tecnica militare, il discorso è assai diverso e Finkielkraut continua il suo ragionamento discutendo le nuove pratiche della memoria, nate nel primo dopoguerra:

«Nel 1918, il bisogno di onorare i morti in battaglia impose ovunque un monumento. Ma, poiché la morte aveva cambiato grado e natura, la pietra non poteva assicurare più della lira la sopravvivenza del nome nella fama; poteva soltanto ratificare e reificare la scomparsa del nome nel numero».411

Finkielkraut ricorda, per meglio esprimere questo concetto, un passo da un libro di Ernst Jünger, in cui il tedesco afferma che la virtù del milite ignoto è la sua sostituibilità, il fatto che dietro ogni morto in battaglia è pronto il suo sostituto.412 Questo è probabilmente il risultato dell'assoggettamento di quei corpi che Michel

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Alain Finkielkraut, L'humanité perdue, Seuil, Paris, 1996 (trad. It. L'umanità perduta. Saggio sul XX

secolo, Liberal, Roma, 1997).

410

A. Finkielkraut, L'umanità perduta,cit., p. 95.

411

Ivi, pp. 95-96.

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Foucault ha definito docili,413 e la spiegazione alla pratica russa e giapponese di punire i soldati che, non avendo rispettato l'imperativo di morire in guerra, riescono a scappare e tornare in patria dopo essere stati fatti prigionieri dai nemici.414

In un altro passo del saggio di Finkielkraut, in cui viene ripreso un pensiero sull'etica in Lévinas, il discorso sull'identità si raffina e si complica perché, attraverso il concetto di incontro etico, si esplicita e si discute un'altra componente fondamentale per la costituzione di un'identità: il volto.

«[Secondo Lévinas] l'etica è anzitutto un avvenimento. Bisogna che qualcosa avvenga all'io, perché questo cessi di essere una 'forza che va' e si desti allo scrupolo. Questo colpo di scena è l'incontro con l'altro uomo o, più precisamente, la rivelazione del volto. Incontro, e non conoscenza; rivelazione, e non svelamento. Vi sono certamente molte cose da leggere nel volto umano. Questo tratto di pelle è una miniera di informazioni, perché dice assai più di ciò che il suo titolare vorrebbe confessare. Con un po' di esperienza si può dedurre una intera biografia dell'osservazione di un volto. Ma il volto ha anche lo strano potere di smentire le proprie confessioni e di attraversare i tratti da esso stesso offerti alla conoscenza dello psicologo, del sociologo, del romanziere [...]».415

Il discorso di Sartre è profondamente in connessione con questo pensiero di Lévinas: se per Sartre «l'apparizione, tra gli oggetti del mio universo, di un elemento di disintegrazione di questo universo, è ciò che io chiamo l'apparizione di un uomo nel mio universo»,416 per Lévinas la disintegrazione sartriana corrisponde, con le dovute differenze di sistema, al colpo di scena etico durante il quale all'uomo nella sua interezza si sostituisce il volto, che si presenta infine come epifania.

Il volto è certo parte integrante del corpo, eppure la sua funzione è complessa nella definizione dell'identità, in quanto anello di congiunzione tra natura e cultura, tra corpo e nome. Le sue manifestazioni fisiologiche, come il rossore o il pianto, possono

413

Michel Foucault, Surveiller et punir. Naissance de la prison, Gallimard, Paris, 1975 (trad. it.

Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino, 1976).

414

Primo Levi scrive che secondo la Convenzione dell'Aia, il prigioniero di guerra che tenta di evadere non deve essere punito: l'evasione lava la vergogna della prigionia. Mentre al contrario «per il prigioniero di guerra sovietico rimpatriato non c'era guarigione né redenzione, egli era considerato immeritevole e colpevole [...]. Avrebbe dovuto morire anziché arrendersi [...]. Anche nel Giappone in guerra il soldato che si arrendeva era considerato con estremo disprezzo». Cfr. P. Levi, I sommersi e i salvati, cit., p. 123. Cfr. inoltre Tzvetan Todorov, Di fronte all'estremo, cit., p. 280; J. Améry, Intellettuale a Auschwitz, cit., p. 47.

415

A. Finkielkraut, L'umanità perduta, cit., p. 49. Cfr. la terza sezione di Emmanuel Lévinas, Totalité et

infini. Essai sur l'extériorité, Nijhoff, La Haye, 1961 (trad. it. Totalità e infinito. Saggio sull'esteriorità,

Jaca Book, Milano, 1980).

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essere espressione diretta di moti emozionali che fanno capo alla sfera del pensiero, non solo a quella dell'istinto.

Tra gli autori qui trattati, Robert Antelme è sicuramente quello che meglio manifesta questa unione tra volto e nome, il legame tra lo sguardo dell'altro e l'identità. In lui si evince immediatamente come il volto sia uno dei bersagli dell'umiliazione che ha provato il prigioniero, come anch'esso sia soggetto all'omologazione mortale dei

nonymnoi.

Non a caso, sin dalle prime pagine del libro l'autore definisce i prigionieri in questi termini:

«migliaia di teste grigie che era impossibile pensare di poter distinguere con un nome, con una nazionalità e neppure con un'espressione».417

Il nome e l'espressione (del volto) sono i segni dell'individualità. Vi si aggiunge la nazionalità, che a mio parere va intesa nei termini in cui questa influisce sulla comunicazione, ovvero la lingua.

Queste tre componenti identitarie vengono accuratamente isolate dalle SS nella sfera dell'anonimato, perché il nome è mutato in numero, la lingua parlata nella maggior parte dei casi è il tedesco e le espressioni si omologano perché si manifestano su volti troppo simili l'uno all'altro, ormai straziati dalla fame.

È però un passo successivo, tratto ancora dalle fasi iniziali del testo, quello in cui Antelme rende più esplicito il matrimonio concettuale tra nome e volto, il quale rimarrà costante lungo tutto il corso della sua opera:

Le SS arrivano: due hanno il berretto, le altre, le sentinelle, la bustina e il fucile. Prima contano, poi un Lagerschutz chiama i nomi storpiandoli. Anche il mio c'è tra i nomi polacchi e russi. Risata sul mio nome al quale rispondo "presente". Il mio nome mi ha colpito l'orecchio come un barbarismo, tuttavia l'ho riconosciuto. Per un attimo, sono dunque stato indicato direttamente, hanno chiamato me solo, hanno in modo particolare sollecitato me, insostituibile! e io sono apparso. Qualcuno si è trovato a rispondere "sì" a quello strano suono che però corrispondeva altrettanto bene all'uomo che era lì. E bisognava dire sì per risprofondare nella notte, per tornare ad essere la pietra di una faccia senza nome. Se non avessi risposto, mi avrebbero cercato e prima di avermi ritrovato gli altri non sarebbero partiti. Ci avrebbero di nuovo contato appena si fossero accorti che uno non aveva detto "sì", che lui non voleva essere lui. E dopo avermi scoperto, le SS mi

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avrebbero pestato la faccia fino a farmi ammettere che, lì, io ero ben io, fino a farmi entrare in testa quella logica che io ero ben io, quel niente che corrisponde al nome che avevano letto.418

Il Lagershutz, ovvero una guardia di polizia del campo che poteva anche essere un detenuto (e di norma tali prigionieri speciali erano politici o comuni tedeschi), storpia i nomi perché la sua lingua madre è il tedesco. Il cognome "Antelme", nonostante non sia ancora stato trasformato in numero, già subisce un'omologazione attraverso la pronuncia tedesca, che livella così cognomi di diverse nazionalità sulla base di una fonetica comune. Nonostante il proprio nome "barbarizzato" lo colpisca all'orecchio – e se l'autore ha scelto di usare il verbo frapper certo vuol dire che ha subìto una ferita – Antelme vi si riconosce e ricorda di essere un soggetto unico, irripetibile. Ricostruisce la propria identità attraverso il proprio nome che indica il proprio corpo, la propria

apparenza, perché è questa la sua risposta al suono "antelme": l'apparizione del proprio

corpo, agli altri ma soprattutto a se stesso.

Il prigioniero però sa bene che, in quel preciso istante, sta godendo di un

principium individuationis momentaneo. Basta infatti rispondere "sì" alla caricatura del

proprio nome per espletare il compito che le SS gli hanno affidato: esistere dentro il campo, non essere fuggito, non aver tolto un numero e un'unità lavorativa alla macchina del Lager. Basta rispondere "sì" e si torna a non essere più, a «risprofondare nella notte», nel buio, ovvero nella condizione in cui lo sguardo non ha più il potere di individuare un corpo. Ma soprattutto, basta dire "sì" perché il proprio volto, l'ultimo baluardo dell'identità, torni a essere «la pietra di una faccia senza nome», a irrigidirsi in un bizzarro rigor mortis in vita.

Se Antelme non avesse risposto, racconta, le guardie lo avrebbero cercato e gli avrebbero «pestato la faccia» fino a fargli ammettere che "lui era lui", che era quel niente corrispondente a quel nome. Lo avrebbero percosso nel luogo più gravido di significato, il volto, fino a fargli ammettere però di essere un niente che corrisponde a un nome: le guardie, quindi, opererebbero una sorta di riduzione dell'identità del prigioniero esattamente nel momento in cui quest'ultimo la dovrebbe confermare nella sua totalità.

Si tratta di un'operazione assai ben riuscita, perché per i prigionieri, ci racconta Antelme, «la faccia e il corpo vanno alla deriva, qui non esistono più né belli né brutti.

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Fra tre mesi, saremo ancora diversi e sempre meno ci distingueremo gli uni dagli altri».419

L'impossibilità di individuazione non è solo di tipo estetico. Infatti l'autore registra un piccolo episodio in cui un uomo che si aggrappa a lui chiedendogli sostegno dice, giustificandosi, di essere vecchio. Per comparazione, e solo per comparazione, Antelme giunge alla conclusione:

«io dunque sono ancora giovane. Eppure, se volto la testa vedo un'ombra, dei tratti che potrebbero essere i miei. Nessuno di noi ha più età. È stato aggrappandosi che questo povero B. si è ricordato di essere vecchio».420

Il viso è omologato, quindi, perfino dal punto di vista anagrafico, non è più la superficie culturale dalla quale Finkielkraut sostiene sia possibile dedurre un'intera biografia, ma si presenta esclusivamente nel suo dato corporale: occhi, naso, bocca e via discorrendo. Per questo motivo è anche il destinatario principale della violenza nel campo: di fronte ai suoi nemici Antelme non avverte l'impulso di menar le mani al ventre, ma è colto invece dalla «voglia di schiacciare sotto i piedi la faccia, i denti, il naso» di chi gli fa un torto, o lo fa a un suo caro,421 esattamente come il Lagershutz e le SS farebbero con lui.

In un momento assai vicino alla conclusione del racconto, quando i prigionieri subiscono l'ultimo disperato trasporto verso Dachau, Antelme tratta il tema in modo ambiguo, probabilmente perché anche nelle fasi finali dell'esistenza, o quantomeno in momenti di grave pericolo, il volto di un uomo non può essere omologato del tutto a quello degli altri.422 L'autore si sofferma, tra i suoi compagni di viaggio, su due prigionieri catalani, un padre e un figlio, rifacendosi inizialmente alla questione dell'omologazione («Padre e figlio, tutti e due ormai senza età, avevano finito per assomigliarsi»).423 Ma dopo poche righe sembra tornare a concepire il viso di quel padre come un volto nei termini di Finkielkraut: «Tutti i segreti del vecchio sono visibili sulla

419 Ivi, p. 103. 420 Ivi, p. 298. 421 Ivi, p. 23. 422

Così come le sue parole, come avrebbe a dire il Benjamin del saggio sul narratore. Cfr. Walter Benjamin, Der Erzähler (1936), (trad. it. Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nicola Leskov, in

Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1962).

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sua faccia».424 In ultimo, ammette che la percezione di quel volto particolare è diversa in base al punto di vista da cui la si guarda, perché:

«il vecchio catalano è forse diventato trasparente per noi, ma per il ragazzo la sua faccia rugosa è ancora quella del padre su cui si è impregnata anche quella della madre e ancora, attraverso quella, tutto il mistero della filiazione».425

Per gli internati, ormai allo stremo delle forze e indaffarati esclusivamente nel sopravvivere, il volto del vecchio catalano è uguale a tanti altri volti di uomini che stanno per morire. Per il figlio, al contrario, il volto del padre è una miniera di significati tanto vasta da contenere anche il volto della madre e, con esso, «il mistero della filiazione». Sarebbe qui riduttivo invocare la genetica, perché si tratta di un processo di marca squisitamente umanistica. Infatti, il figlio non assiste al semplice trapasso di un corpo biologico altro dal suo: sta assistendo alla trasfigurazione della propria morte, data la sua stessa somiglianza con il corpo morente che ha dinnanzi.

Anche il narratore protagonista vive la trasfigurazione del proprio volto, in un passo assai toccante del libro in cui fa la sua straordinaria apparizione nel campo, come un oggetto magico e miracoloso, un frammento di specchio:

«René possiede un frammento di specchio che ha trovato a Buchenwald dopo il bombardamento di agosto. Esita a tirarlo fuori, sa che immediatamente tutti si precipitano a chiederglielo. Ognuno vuole vedersi.

L'ultima volta che ho potuto avere lo specchio, non mi vedevo da molto. Era domenica; stavo seduto sul pagliericcio senza avere nulla da fare. Subito non ho badato a come era il mio colore, se giallo piuttosto che grigio, e nemmeno a come erano il mio naso e i miei denti. Da principio ho solo visto una faccia che avevo completamente dimenticato. Non portavo che un peso sulle spalle».426

Il volto, segno identitario a metà tra cultura e natura, viene qui degradato alla sola componente naturale. Antelme sorvola sui dettagli, sul colore della propria pelle e sullo stato di salute dei suoi denti, e va direttamente a sondare ciò che del proprio viso gli appartiene più intensamente, ossia la propria differenza da tutti gli altri. Ma non si riconosce, o lo fa a stento, e definisce il proprio volto come una testa morta, un peso

424 Ibidem. 425 Ibidem. 426 Ivi, p. 62.

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inutile da portare sulle spalle. È lo stesso modo di vedere della SS, lo sguardo mortifero della guardia:

«Lo sguardo della SS, il suo modo di fare sempre uguale, significava che per lui non esisteva differenza tra una faccia e l'altra dei prigionieri. All'appello, in colonna per cinque, bastava che la SS in ogni colonna potesse contare cinque teste».427

Nonostante la privazione dell'identità fosse a lungo andare deleteria per i prigionieri, nel momento dell'appello poteva essere una parziale garanzia di salvezza. È un paradosso: il dispositivo mortifero per eccellenza si trasforma in espediente salvifico in alcuni momenti ben definiti della giornata in Lager. Durante atti ritualizzati come l'appello o le marce non bisognava assolutamente farsi identificare, e l'unico modo perché questo accadesse era avere qualcosa di diverso nel volto. Ma il lettore non pensi che questo segno distintivo potesse consistere in un tratto somatico. Antelme fa riferimento specifico a un accessorio, ovvero agli occhiali:

«Un viso era reperibile solo se aveva qualcosa in più: gli occhiali per esempio, che in questo senso erano una calamità. [...] nessuno doveva mostrare qualche cosa che attraverso la faccia potesse apparire come un principio di dialogo con la SS. Così il viso non solo era inutile ma suo malgrado pericoloso»428

A questo punto Antelme descrive esplicitamente il paradosso che ho poc'anzi evocato:

«si era arrivati a fare noi stessi uno sforzo di negazione della nostra faccia, in accordo perfetto allo sforzo loro. Negato, due volte negato oppure altrettanto grottesco e provocante di una maschera. Era veramente provocare uno scandalo portare sulle nostre spalle qualche cosa del nostro vecchio viso, la maschera dell'uomo – il viso per noi stessi aveva finito per scomparire dalla nostra vita [...] era lui stesso diventato un'assenza. [...] era ben alla fine una faccia pressoché comune e anonima quello che appariva degli altri a ognuno di noi. Da lì quella specie di seconda fame che spingeva tutti a ritrovarsi attraverso il sortilegio dello specchio».429

Una volta passato attraverso la narrazione della negazione del proprio volto, Antelme ha una sorta di reazione: continua a parlare di quella domenica in cui lo

427 Ibidem. 428 Ibidem. 429 Ivi, pp. 62-63.

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specchio fa la sua apparizione, ma a questo punto il viso non è più visto come un peso sulla testa, e lo specchio diventa realmente un oggetto magico perché isola, come in un cerchio sacro e sicuro, le sembianze di chi vi si specchia, trasportandolo oltre la realtà del Lager e mettendolo a tu per tu con se stesso.

«Quella domenica continuavo infatti a guardarmelo il mio viso. Non lo trovavo né bello né brutto ma semplicemente meraviglioso. Mi aveva seguito e andava a spasso lì. Non aveva da fare ora, era fermo, ma era pur sempre la macchina per esprimere. Il grugno della SS era nulla in confronto. E le facce dei compagni che uno dopo l'altro si sarebbero guardati, restavano quello che erano, ferme allo stato fissato dalle SS. Solo quella dello specchio era distinta. Lei sola voleva dire qualche cosa che lì non si poteva ricevere. Era su di un miraggio che si apriva quella scheggia di vetro. Lì non si era così. Si era così solo nello specchio, da soli, e quello che i compagni aspettavano con impazienza era quel pezzo di solitudine splendente, dove sparivano le SS e tutti gli altri».430

Per questo ho parlato di trasfigurazione del volto del protagonista: lo specchio ha il potere di elevarlo dal suo stadio cosale e trasformarlo in epifania, una «solitudine splendente» dalla quale scaturisce un «miraggio». È come se il frammento di specchio costituisse, con i suoi limiti, un secondo recinto di salvezza – rispetto al primo, quello reale e mortale del Lager – esattamente come i prigionieri sono costretti a una seconda negazione del loro volto. Un recinto nel quale si è sani e salvi, soli, lontani non soltanto dallo sguardo reificante delle SS, ma anche dalla costante visione degli effetti di tale sguardo, ovvero i volti annichiliti dei compagni di prigionia.

Per questo motivo Antelme cambia registro subito dopo aver esplicitato il paradosso della doppia negazione del volto e reagisce, tornando a parlare dello specchio e dicendo che il proprio volto è meraviglioso, se lì riflesso: perché lo specchio è il luogo in cui il paradosso si annulla, in cui la doppia negazione si trasforma in affermazione di identità. Se non si risprofondasse immediatamente nel buio e nell'umiliazione della quotidianità, se non si fosse sempre così deboli e "negati", «si oserebbe guardare la SS in faccia»,431 scrive più in là l'autore.

Nonostante questi pensieri domenicali possano invitare all'ottimismo, il prigioniero Antelme deve sempre fare i conti con la realtà del campo e con la costante riduzione della propria personalità. In un passo successivo quindi, paradossalmente,

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Ivi, p. 63.

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continua a negare il proprio volto, sino a non riuscire più a ricordarlo o a immaginarlo per come era prima della prigionia:

«Non mi vedo che di spalle io quando penso a laggiù, sempre di spalle. La faccia di M. [Marguerite Duras] sorride a colui che vedo solo di spalle».432