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3. Gli scrittori della seconda generazione: quando la finzione è un obbligo

3.4 Jonathan Littell

Tornando nei territori della letteratura tradizionale, Jonathan Littell è l'ultimo nome di questa breve carrellata d'autori. Discendente di una famiglia ebrea polacca immigrata negli Stati Uniti molto prima della guerra, cresciuto parzialmente in Francia, è l'autore del romanzo monstre Le benevole.259 Come ha rivelato ad Assaf Uni, un giornalista di Haaretz, non si sente per nulla ebreo: per lui l'ebraismo è più un retroterra storico, culturale.260 Il fatto che tale appartenenza sia ormai flebile è confermato da altre dichiarazioni, per esempio quelle sull'idea iniziale del suo romanzo. Le benevole infatti non è un libro ispirato a storie familiari e inizialmente non doveva neanche trattare il tema della Shoah, ma quello del fronte orientale. Littell ha dichiarato di avere tratto ispirazione inizialmente da una fotografia della partigiana russa Zoïa Kosmodemianskaïa e in seguito, dopo aver visto Shoah di Claude Lanzmann, ha cominciato a pensare più seriamente al personaggio principale del suo racconto: Maximilien Aue, uno studente che nel giro di pochi anni si trasforma in una coscienziosa SS ligia al dovere. Aue si trova implicato in una grande parte delle vicende centrali del nazismo, dalle Aktion degli Einsatzgruppen in Ucraina e nel Caucaso alla battaglia di Stalingrado, dalla deportazione forzata degli ebrei ungheresi al reperimento di forza lavoro per il ministero di Albert Speer, alternando incarichi in cui ha dovuto uccidere a sangue freddo a operazioni di salvaguardia della manodopera ebrea attraverso una revisione dell'apporto calorico dei pasti giornalieri nei Lager.

La prospettiva non centrata sull'appartenenza ebraica diventa il vero motore della narrazione: Littell sceglie infatti di dare la parola a un nazista. Il libro è presentato finzionalmente come il memoir di Aue, che è ormai al sicuro da diversi anni in Francia, dove è riuscito a rifugiarsi dopo la guerra sotto falso nome e, negli anni, è diventato il direttore di una fabbrica di merletti.

La domanda è d'obbligo: perché dare la voce a un nazista? Dopo le autobiografie di Rudolf Höss, Hans Frank, Albert Speer, dopo il libro di Gitta Sereny su Franz Stangl, dopo quello di Hannah Arendt su Eichmann, c'era bisogno di fare della letteratura sul punto di vista dei criminali? Questa è la risposta diretta di Littell:

259

Jonathan Littell, Les Bienveillantes, Gallimard, Paris, 2006 (trad. it. Le benevole, Torino, Einaudi, 2007).

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«In general I am much less interested in victims than I am in perpetrators. That's because they are the ones who are doing something and changing the reality. It's very easy to understand the victim: something terrible happens to him and he reacts accordingly. But in terms of trying to understand something, there is nothing to examine. The perpetrator is more complicated to understand, along with the apparatus that activates him. By means of the attempt to give a voice to the perpetrator, lessons can be learned that will affect the way we look at the world today».261

Pur badando a non credere fino in fondo a Littell – dato che la prospettiva della vittima rimane a mio avviso fondamentale – questo interesse nei confronti del carnefice è assolutamente da accogliere: in fondo, capire cosa si è innescato nella mente di un uomo qualunque per farlo diventare un assassino significa capire cosa è importante disapprovare, in che momento è giusto smettere di compromettersi. Così come è importante, ripeto, capire fino a che punto è giusto sopportare da parte della vittima.

Ciò che interessa Littell è la questione della violenza. Non sembra d'accordo con l'idea dell'eccezionalità della Shoah, al contrario, una delle cose che più gli premono è avvicinare la prospettiva con la quale noi osserviamo i fatti accaduti nei dodici anni del governo Hitler. Littell ha lavorato a lungo negli anni Novanta per l'organizzazione internazionale Action Contre la Faim, principalmente in Bosnia ma con momentanei soggiorni in Cecenia, Caucaso e alcuni stati africani. L'autore ha quindi vissuto in prima persona le atmosfere oscure della guerra, ha visto con i suoi occhi la gente morire di fame. A partire da questa esperienza personale, Littell scrive un libro che vuole comunicare un messaggio ben preciso: ciò che abbiamo letto nei libri di storia ha a che fare anche con la nostra contemporaneità. A suo parere, non c'è differenza storica che tenga tra governi genocidi:

«I personally understand the arguments for the exceptionality of the Holocaust, but I don't agree with them. The basic argument is that the Nazis wanted to kill all the Jews, but I don't see the difference between that and an extermination policy that was aimed - and implemented on a large scale - at groups such as the peasants in the Soviet Union or in Cambodia. Every genocide is exceptional».262

261

Ibidem. Testo non tradotto in italiano.

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Proprio a partire da questo assunto, condivisibile o meno, Littell può entrare nel gioco finzionale tipicamente letterario, vestendo i panni di un nazista, narrandolo in prima persona:

«Aue is a Nazi in the same way I would have been a Nazi – very honest, very sincere, dedicated and interested in examining the question of morality».263

Quindi il protagonista di Le benevole non è basato principalmente su una ricostruzione storiografica, magari corroborata dalla lettura dei diversi diari scritti da nazisti, ma sulla psicologia e sugli interessi dell'autore stesso. Infatti, com'è chiaro da questo assunto di partenza, Aue è un personaggio poco credibile e tuttavia importante ai fini di una maggiore comprensione del problema etico che qui si discute: come è possibile che un uomo colto, raffinato, attentissimo alle questioni etiche del suo tempo, fondamentalmente umano, possa diventare gradualmente un mostro? Domanda che porta necessariamente a un'altra domanda: come mi sarei comportato, io, se avessi avuto vent'anni nel 1933? Questo è uno di quei problemi fondamentali non risolvibili, forse neanche analizzabili, attraverso la scrittura storiografica, la statistica, il linguaggio letterale definito da Lang. Per mettere in discussione un dilemma di questo tipo non basta neanche la prosa giuridica dei verbali stilati durante i grandi processi, da Norimberga in poi. Una scrittura diretta e razionale non può sondare i movimenti alogici della mente.

Generalmente il livello intellettuale di chi ha scritto autobiografie o diari (a eccezione di Speer forse) era medio, a volte assai scarso. Dalla lettura del libro di Höss,264 per fare un esempio, non potremo mai trarre una riflessione etica di un certo peso. Da Aue la pretendiamo e spesso la otteniamo, con l'ausilio della finzione.

Littell, lasciando esprimere Aue con il suo linguaggio, permette al lettore di immaginare quali potessero essere le nozioni che, chiare in Aue, si aggiravano confusamente nelle menti dei personaggi realmente esistiti e che occupavano il suo posto nella complicata scala gerarchica dello stato Nazionalsocialista.

Maximilien si diffonde in lunghi discorsi dotti, in cui dà mostra di conoscere le lingue classiche e di avere una formazione letteraria e filosofica solida. Gli argomenti sono quelli che più lo coinvolgono: dall'omosessualità, spiegata a un soldato restio a

263

Ibidem.

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intrattenere un rapporto con lui,265 alla definizione di razza attraverso dati linguistici durante i dialoghi con il suo amico Voss,266 dalla spiegazione del perché si sviluppa il sadismo nelle SS impiegate in Lager267 all'interrogatorio di un quadro del partito comunista russo, durante il quale vengono espressi e confrontati i pilastri ideologici dei due opposti totalitarismi.268

È però vero che Littell si è molto documentato per la creazione degli ambienti e per la descrizione dei personaggi storici. Solo per fare due esempi, è evidente che Adolf Eichmann sia rappresentato in base alle informazioni date da Hannah Arendt nel suo libro sul processo di Gerusalemme,269 mentre Hans Frank, il governatore pianista, ha molte cose in comune con il Frank descritto da Curzio Malaparte in Kaputt.270 Più in generale, Le benevole ha molte cose in comune con il libro di Malaparte, perché si tratta degli unici due libri finora scritti capaci di disegnare con successo l'intero scacchiere europeo in un testo di narrativa. Condividono inoltre la stessa ostentazione di sicurezza, anche nella descrizione delle atrocità più spinte.

Ma tornando a Littell: disegnare la psicologia di Aue come la propria significa calare un uomo contemporaneo, in cui ci possiamo immedesimare come lettori, nella realtà storica degli anni Trenta e Quaranta, e quindi farlo incontrare con uomini dell'epoca, descritti con attenzione ai caratteri e alla verosimiglianza. Questo è il gioco disturbante di Le benevole: veniamo catapultati in prima persona dentro l'inferno nazista, inizialmente da un punto di vista ancora accettabile se visto con prospettiva storica e con onestà; ma in seguito, man mano che la narrazione corre, Aue entra in un circolo vizioso delirante, in cui si macchia di crimini e immoralità gradualmente maggiori. Arriva un momento in cui ogni lettore di questo libro pensa: adesso basta. L'immedesimazione crolla di fronte a una serie di efferatezze, il processo catartico si annulla.

Si tratta di un dispositivo narrativo, quello della graduale degradazione morale del personaggio, più volte adottato in letteratura – come il Raskolnikov di Delitto e castigo, il Don Rodrigo appestato che suscita il perdono di Renzo nel Lazzaretto – e diffuso alle grandi masse attraverso il cinema: si pensi a Taxi Driver di Martin Scorsese, ad Arancia

265

J. Littell, Le benevole, cit., p. 190.

266 Ivi, pp. 290-292. 267 Ivi, pp. 602-603. 268 Ivi, pp. 379-388. 269

Hannah Arendt, Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil, The Viking Press, New York, 1963 (tra. it. La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1964).

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meccanica di Stanley Kubrick, fino a una delle serie televisive più in voga in questi

anni, Breaking Bad.

Nessuno tuttavia aveva avuto il coraggio di esporsi, come ha fatto Littell, adottando questo dispositivo nel trattamento di una tematica scottante come quella della Shoah. Sembra che l'enstablishment letterario dei singoli paesi abbia avuto una reazione influenzata dalle rispettive storie nazionali: se in Francia il libro ha ricevuto critiche assai positive ed è diventato un caso letterario, in Germania le critiche sono state più aspre, mentre negli Stati Uniti The Kindly Ones è stato un fallimento commerciale.

Tuttavia l'utilizzo di questo dispositivo letterario, con il graduale impoverimento etico di quel protagonista che inizialmente avevamo visto con condiscendenza, rimane uno dei modi migliori per capire come siano andate realmente le cose, per entrare nella mentalità di quegli esponenti del NSDAP attirati con l'inganno, con la minaccia, attraverso una fascinazione psicologica di partito che ha minato le già scarse disposizioni morali di quei soggetti. Un esempio chiaro è il Franz Stangl raccontato da Sereny,271 introdotto in seno al partito attraverso una richiesta graduale ma irrefrenabile di responsabilità atroci.

Le benevole, in questo impasto tra realtà e finzione corroborato dalle lunghe

riflessioni di tono saggistico e dall'evoluzione realistica di un personaggio non verosimile, rappresenta uno stadio ulteriore del romanzo storico tradizionale. Sylvain Bourmeau critica la forma stilistica delle Benevole, scritto a suo dire come un romanzo ottocentesco.272 Guido Mazzoni rende chiaro come in realtà il romanzo sia influenzato fortemente anche dalla letteratura modernista, sia nel trattamento dei singoli episodi che a livello strutturale, perché l'autore avrebbe fatto uso del metodo mitico adottato da Joyce nel suo Ulisse.273 Non mancano ovviamente i legami con la letteratura classica, dato il titolo dell'opera: parte di Le benevole trae spunto dalla terza parte dell'Orestea di Eschilo, in cui le Eumenidi tormentano Oreste.274

Questo è la tipologia di scrittura che ho provato a indicare, nella conclusione del primo paragrafo di questo capitolo, come plausibile soluzione ai problemi di rappresentazione narrativa della Shoah. Bisogna ricorrere, in base alle circostanze, a

271

Gitta Sereny, Into that darkness, Deutsch, London, 1974 (trad. it. In quelle tenebre, Adelphi, Milano, 1975).

272

Sylvain Bourmeau, Bête à Goncourt, in Les Inrockuptibles, n. 569, 24 ottobre 2006, p. 69.

273

Guido Mazzoni, Sul romanzo contemporaneo/1. «Le Benevole» (2006) di Jonathan Littell, in Le parole e le cose (http://www.leparoleelecose.it/?p=3099), 27 gennaio 2012.

274

Florence Mercier-Leca, «Les Bienveillantes» et la tragédie grecque. Une suite macabre à L’Orestie

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tutte le tradizioni e a tutte le innovazioni possibili per narrare un fatto storico così complicato da comprendere e da comunicare. Le benevole, con la sua trama classica, la sua struttura mitica, il suo linguaggio ottocentesco e i suoi singoli aspetti modernisti, è un romanzo scritto in epoca postmoderna, a cavallo tra un passato ormai perduto e la rivoluzione informatica, nello snodo di congiunzione tra due millenni in cui le guerre sono diventate "interventi umanitari" e "azioni preventive". Tutti questi elementi, che avrebbero potuto generare un romanzo confuso, hanno in realtà dato forza ed equilibrio alla narrazione.

Per lungo tempo si è pensato che le grandi narrazioni fossero finite e che la letteratura avesse perso il suo ruolo tradizionale. In parte è vero, perché per molti anni il panorama letterario ha subìto un mutamento che sembrava aver annullato la possibilità che venissero pubblicati libri come Le benevole. Ma il romanzo di Littell, che tanto provoca il suo lettore, sembra voler assumere il significato di una provvida sventura, cioè di un percorso di sofferenze che dovrebbe educare il lettore potenzialmente malvagio che lo percorre. Littell spera evidentemente che Le benevole insegnino al suo lettore a difendersi dai giochi psicologici dei suoi superiori, che lo protegga dai compromessi fatali.

Che ciò possa avverarsi pare assai difficile, ma il fatto stesso che qualcuno si sia voluto impegnare nella composizione di un'opera con un fine ultimo di tale portata fa ben sperare che in un futuro, ci si augura non troppo lontano, possa finalmente attuarsi quel mutamento necessario che porrà fine a un'epoca culturale ormai decadente, in cui la crisi delle ideologie (ma anche delle idee) ha privato l'artista di una sua direzione, rinchiudendolo nel falso mito, nel vanto dell'incertezza.

Oggi il mondo ci offre delle certezze, positive o negative, che la letteratura ha la possibilità di sondare attraverso il linguaggio e l'interrogazione continua del mondo, agìta attraverso i suoi dispositivi specifici. È giunta l'ora, agli albori di questo nuovo millennio, di ricominciare a far uso delle sue possibilità, sia facendo uso delle tradizioni narrative più forti, sia scardinandole ancora una volta, sperando che gli autori del futuro abbiano la spinta etica necessaria a passare questo guado.

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