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3. Gli scrittori della seconda generazione: quando la finzione è un obbligo

3.1 Georges Perec

«Non so se non abbia niente da dire, ma so che non dico niente; non so se quello che avrei da dire non venga detto perché indicibile (l'indicibile non si annida nella scrittura, al contrario, è ciò che ne ha innescato il processo); so che quanto dico è vuoto, neutro, è il segno definitivo di un definitivo annientamento».179

In questo senso, Perec è uno scrittore di primo piano. Figlio di ebrei polacchi immigrati in Francia, rimasto orfano di entrambi in tenera età (suo padre morì da soldato nella Legione Straniera, la madre ad Auschwitz), scrive della Shoah e del Nazismo non a partire da un'esperienza, ma da una mancanza di esperienza. A partire da un vuoto.

Alberto Cavaglion, nell'introduzione all'edizione italiana del '97 di La specie

umana, ricorda che Antelme era considerato da Perec come uno dei suoi primi maestri

di scrittura, perché credeva di vedere in lui il "portatore sano" di un ottimismo nei confronti del linguaggio difficile da concepire per un sopravvissuto. «Antelme» sostiene Cavaglion «avrebbe vaticinato l'avvenire del linguaggio e della letteratura, nel momento stesso in cui Adorno e i francofortesi ne decretavano la fine».180 E dunque cita direttamente un passo dalla recensione a La specie umana pubblicata da Perec nel 1962 su Partisans:

«Il n'est d'époque, il n'est de conditions, il n'est de crises dont on ne puisse ordonner; il n'est de situations qu'on ne puisse maîtriser; il n'est de phénomènes que la raison et le language, la sensibilité et la rationalité ne puissent conquérir».181

Ordinare, controllare, conquistare: le capacità che la ragione e il linguaggio possono avere, anche dopo Auschwitz. Questa successione di verbi, di poteri, sembra perfettamente adeguata per descrivere le capacità che si vogliono conferire al linguaggio nelle scritture combinatorie dell'Oulipo. Le contraintes, dispositivo oulipiano per

179

Georges Perec, W o il ricordo d'infanzia, Einaudi, Torino, 2005, p. 48.

180

R. Antelme, La specie umana, cit., p. VI.

181

Georges Perec, L. G. Une aventure des années soixante, Seuil, Paris, 1992, pp. 64 e 113-114. Testo non tradotto in italiano.

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eccellenza, sono delle obbligazioni da seguire nel corso della scrittura, segnalano ciò che si può e ciò che non si può fare, danno indicazioni laddove prevalgono il vuoto e la mancanza di direzioni. Le contraintes esprimono delle scelte e quindi delle esclusioni, rappresentano un dispositivo di creazione narrativa che origina direttamente, in Perec, dal vuoto costituito dalla perdita dei suoi genitori.

Perec ha dato un saggio mirabile di questo metodo combinatorio in La vita

istruzioni per l'uso,182 quando si è posto di fronte al suo quadrato latino di ordine 10. 183 È gigantesca la mole di lavoro che ha comportato non solo la creazione della sua immensa "macchina crea-storie", ma anche la sua realizzazione in termini pratici: centinaia di obbligazioni che chiedono di essere esaudite. Sono contraintes perfettamente ordinate, da controllare una per una, per conquistare finalmente la forma di un romanzo immenso ed eterogeneo come pochi.

Eppure lo scrittore lascia insoluta l'ultima casella del suo quadrato latino, l'ultima lista di contraintes a vuoto, l'ultimo pezzo del puzzle storpio e non collocabile. Quasi a dire che rimane un vuoto incolmabile anche nelle costruzioni grandiose e ordinate. Ma nonostante tutto, questo vuoto non esclude la possibilità che le altre novantanove caselle possano essere piene, fitte, densissime. È l'ottimismo nei confronti del potere del linguaggio, che non può ordinare tutto, non può controllare e conquistare tutto, ma certo può rappresentare un'ancora di salvezza. Del suo scrivere per sopravvivere Perec darà una definizione stringente nel libro che meglio presenta, sotto le maglie di una terribile allegoria, la tragedia dei campi di concentramento, W o il ricordo d'infanzia:184 «la scrittura è il ricordo della loro morte», di quella dei genitori, «e l'affermazione della mia vita».185

In un testo del 1970, poi pubblicato nel 1990 con il titolo Je suis né,186 Perec scrive:

«Je suis né le 7.3.36. Combien de dizaines, de centaines de fois ai-je écrit cette phrase? Je n’en sais rien. Je sais que j’ai commencé assez tôt, bien avant que le projet d’une autobiographie se forme».187

182

G. Perec, La vie mode d'emploi, Hachette, Paris, 1978 (trad. it. La vita istruzioni per l'uso, Rizzoli, Milano, 1984).

183

G. Perec, Cahier des charges de La vie mode d'emploi, CNRS Editions, Paris, 1993.

184

G. Perec, W ou le souvenir d’enfance, Denoël, Paris, 1975 (trad. it. W o il ricordo d'infanzia, Einaudi, Torino, 2005).

185

G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., p. 49.

186

G. Perec, Je suis né, Seuil, Paris, 1990.

187

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Avrebbe continuato a scrivere questa frase anche in W. Nella parte in corsivo, che appunto racconta l'avventura di Gaspard Winckler sull'isola che ha per nome W e che si presenta come un'allegoria di Auschwitz, Perec scrive immediatamente, nel primo capitolo:

«Sono nato il 25 giugno 19..., verso le quattro del mattino, a R., una borgata di tre case nei pressi di A.».188

Una frase che ha la pretesa formale di dirci qualcosa di preciso, che quasi ricalca, seppur in prima persona, il documento di un ufficio dell'anagrafe, ma che infine non ci dice nulla. Nella parte tipograficamente stampata in tondo, invece, Perec parla di se stesso, non dell'alter ego Winckler, e allora diventa molto preciso:

«Sono nato sabato 7 marzo 1936, verso le nove di sera, in una clinica ostetrica al n. 19 di rue de l'Atlas, a Parigi, nel 19° arrondissement».189

Questa è solo una delle molte specularità che infittiscono la trama di rapporti tra le due parti del libro. È una collezione di doppi, di ricorrenze mancate, di contrari, di continue negazioni. Come dichiara lui stesso tra le righe di Je suis né, Perec è un seguace di Svevo e si fa esecutore della famosa sentenza: «Una confessione in iscritto è sempre menzognera».190 Svevo attribuisce questa sorta di impossibilità etica del linguaggio alla convenzione letteraria dell'epoca, che non permetteva di scrivere in dialetto («Con ogni nostra parola toscana noi mentiamo!»).191

In Perec, la dicotomia non divide la lingua dal dialetto, ma la realtà dalla finzione, o meglio, dalla bugia involontaria, dal cortocircuito della memoria. Vi è non solo un utilizzo dichiarato della finzione e della bugia, ma addirittura una loro legittimazione come portatrici di verità, perché un libro che parla di ricordi non può ignorare la natura fallace della memoria,192 non può ignorare che nella realtà della vita psicologica di ognuno di noi si annidano cortocircuiti tra ricordo e ricordo affinché il soggetto possa sopravvivere al proprio inconscio. Qui la bugia è consustanziale alla verità.

188

G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., p. 7.

189

Ivi, p. 24.

190

Italo Svevo, La coscienza di Zeno, Einaudi, Torino, 1987, p. 409.

191

Ibidem.

192

Primo Levi dedica un intero capitolo del suo ultimo libro alla fallacia della memoria. Cfr. P. Levi, I

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Perec cerca di mostrarlo letterariamente nella parte in tondo di W, attraverso la continua rettifica dei suoi ricordi, di capitolo in capitolo. La narrazione dell'ultimo ricordo della madre è esemplare, dato che viene formulata e corretta per ben tre volte:

«Di mia madre il solo ricordo che mi resta è quello del giorno in cui mi accompagnò alla gare de Lyon da dove, con un convoglio della Croce Rossa, partii per Villard-de-Lans: nonostante non avessi niente di rotto portavo un braccio al collo. Mia madre mi comprò uno Charlot intitolato Charlot paracadutista: sull'illustrazione di copertina, le funi di sospensione del paracadute non sono altro che le bretelle dei pantaloni di Charlot».193

«Un giorno mi accompagnò alla stazione. Era il 1942. Gare de Lyon. Mi comprò un giornalino illustrato, forse uno Charlot. Mi sembra di vederla sventolare un fazzoletto bianco sulla banchina mentre il treno si mette in moto. Andavo a Villard-de-Lans, con la Croce Rossa».194

«Mia madre mi accompagnò alla gare de Lyon. Avevo sei anni. Mi affidò a un convoglio della Croce Rossa che partiva per Grenoble, nella zona libera. Mi comprò un giornalino illustrato, uno Charlot; sulla copertina c'era Charlot, con il suo bastone, il cappello, le scarpe e i baffetti, che si lanciava con il paracadute. Il paracadute era agganciato a Charlot tramite le bretelle dei suoi pantaloni. La Croce Rossa evacuava i feriti. Io non ero ferito; tuttavia dovevo essere evacuato. Quindi dovevo fingermi ferito. Per questo portavo il braccio al collo. Mia zia però è quasi categorica: non avevo il braccio al collo, non ce n'era motivo».195

Come è chiaro, per quanto la memoria si sforzi di scavare dentro se stessa, per Perec è impossibile ricostruire in modo puntuale il proprio passato precedente alla Liberazione. Questa bugia fa parte della sua vita, della sua personalità: una bugia che ha contribuito alla verità di questo essere umano. Anni dopo, lo scrittore riuscirà a interpretare questo ricordo, esattamente come si fa con i sogni: il paracadute e il braccio al collo sono elementi che rappresentano il sostegno, la sospensione, e vengono contrapposti alla scomparsa della madre, vale a dire alla caduta dell'ultima certezza infantile.

Un altro esempio chiarisce bene come una bugia, creduta verità per lungo tempo, abbia potuto contribuire alla costruzione della personalità di Perec. Lo scrittore racconta di un incidente avuto da bambino e della conseguente frattura ossea, la quale suscitava

193

G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., p. 32.

194

Ivi, p. 38.

195

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la compassione e le attenzioni di tutti gli adulti, rendendo in certo modo felice il piccolo Georges. Nel 1970 lo scrittore incontra un vecchio amico d'infanzia che gli rivela di non ricordare affatto il suo incidente, «ma rimase estremamente colpito poiché tra i suoi ricordi c'era un incidente del tutto identico»,196 accaduto però a un loro amico comune, Philippe. Perec quindi era stato solo testimone di quell'incidente, non vittima, e ne trae una riflessione esplicita:

«Come nel caso del braccio al collo alla gare de Lyon, sono perfettamente consapevole del significato di queste fratture [...] anche se oggi la metafora mi pare inadeguata a descrivere ciò che di fatto era stato spezzato [...]. Queste terapie immaginarie [...] designavano sofferenze dicibili e avevano il compito di giustificare delle coccole le cui vere ragioni erano solo sussurrate».197

Vale a dire che, per sopportare le attenzioni affettuose che gli erano riservate in quanto orfano, Perec inventava incidenti immaginari allo scopo di sostituire il trauma della morte dei genitori con un altro trauma meno importante. Cioè costruiva una bugia, protratta fino all'età adulta, per continuare a sopravvivere, per mutare la natura di quelle coccole, per deviare la traiettoria dell'affetto di quelle carezze. Tale deviazione non è una semplice bugia, ma una bugia consustanziale alla verità, una bugia trattata e interpretata quasi freudianamente, come se si trattasse di un sogno.

La dicotomia tra realtà e finzione e l'analogia tra ricordo e sogno sono il punto di partenza per poter scrivere, attraverso un procedimento allegorico terrificante, la storia di un'isola di nome W, che coincide infine con la storia di Auschwitz.

Perec parla dei suoi ricordi d'infanzia dichiarando fin dall'incipit della parte in tondo: «Non ho ricordi d'infanzia».198 Può quindi parlare del Lager che ha inghiottito sua madre senza esserci stato, perché questo vuoto, che ha bisogno di essere colmato con l'ausilio dell'immaginazione, è un vuoto reale della sua vita.

Quindi è del tutto legittimo parlare con l'ausilio della finzione dei campi di concentramento, per testimoniare storicamente la cruda realtà privata di chi ne ha subìto gli effetti passivi, non solo nella vita materiale ma anche nella costituzione psicologica della propria fantasia, dall'età infantile fino a quella adulta.

196 Ivi, p. 92. 197 Ivi, p. 93. 198 Ivi, p. 8.

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La mente del Perec bambino, influenzata da quella del Perec adulto, dà origine a un'isola immaginaria in cui lo sport e la sottoalimentazione sono i due perni della società. Attraverso questa allegoria si mette in atto un procedimento parodico che svela i meccanismi interni del Lager per come possono essere osservati da un punto di vista altro, ed essi riappaiono improvvisamente in tutta la loro forza tragica proprio nei passi in cui la parodia cessa di essere tale e la realtà della Shoah viene trattata con parole più esplicite. Per esempio, alla fine della parte in corsivo Perec riprende delle parole tedesche di cui il suo maestro Antelme ha fatto larghissimo uso, e sprofonda improvvisamente il suo lettore nella realtà storica:

«Ma gli Uomini devono alzarsi e mettersi in fila. Devono uscire dalle camerate – Raus! Raus! – devono mettersi a correre – Schnell! Schnell! – devono entrare nello Stadio in un ordine impeccabile!».199

Quando il lettore si trova davanti a queste poche righe subisce una sorta di shock, perché è stato abituato per quasi duecento pagine a leggere una versione parodiata del campo di concentramento, che lo ha costretto a un continuo esercizio di lenta decifrazione per comprendere quali siano le coincidenze tra il mondo di W e il mondo di Auschwitz. Quando si legge Raus!, quando si legge Schnell!, non c'è bisogno di alcun ragionamento, di alcun filtro. L'allegoria è squarciata e il lettore si trova immerso nel mondo reale, quasi in apnea. Si ritrova come davanti a un autoritratto i cui occhi, d'improvviso, iniziano a muoversi, senza dare scampo agli sguardi di chi ha di fronte.

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