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ESPRESSIONI DELLA VERGOGNA

2. Riduzioni dell'identità: il nome e il volto

2.3 La presentazione dei personaggi e il rituale della schedatura

L'incontro tra il ragazzo russo e Antelme assume le caratteristiche del momento kairotico anche perché è collocato nella fase conclusiva del racconto. È posto quindi su una soglia, una delle più importanti se, come sostiene Frank Kermode, sarebbe quella che noi percepiamo come latrice di senso per eccellenza.466

Ma come è chiaro, anche gli incipit rappresentano una soglia fondamentale: il modo in cui la si passa influenza lo sviluppo stesso del racconto. Nel capitolo precedente si è visto come, attraverso alcune scelte d'autore, l'incipit sia diventato un luogo di dichiarazioni etiche e metaretoriche in cui viene giustificato, o al contrario condannato, l'utilizzo della finzione nella narrazione della Shoah, o la fiducia nel linguaggio e nella sua comunicabilità.

Una soglia ulteriore, simile per natura all'incipit ma chiaramente distinta, è quella della presentazione del personaggio. L'incipit disegna i primi confini dell'universo diegetico e quando il personaggio principale del racconto li oltrepassa, entrando nel pieno della scena, si assume il compito di allargare tali confini, spesso fino a chiuderli in un cerchio perfetto nel momento dell'explicit. Se c'è poi una triplice coincidenza tra protagonista, narratore e autore del libro, cioè quando siamo in presenza di un'autobiografia in prima persona,467 siamo di fronte a un autore che si interroga sul senso della propria esistenza e che prova a darsi delle risposte.

Un buon esempio di romanzo in cui il protagonista è colui che apre e chiude la storia è La scrittura o la vita di Jorge Semprún. Il suo incipit è straordinario perché presenta una postura narrativa che l'autore assumerà nel corso di tutto il libro, con le sue dinamiche narrative e psicologiche fondamentali.

L'inizio della narrazione qui corrisponde esattamente alla presentazione del personaggio.

«Stanno davanti a me, con gli occhi sbarrati, e d'improvviso io mi vedo nel loro sguardo di terrore: nel loro sgomento.

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Frank Kermode, The sense of an ending. Studies in the theory of fiction, Oxford University Press, New York, 1967.

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Philippe Lejeune, Le pacte autobiographique, Seuil, Paris, 1975 (trad. it. Philippe Lejeune, Il patto

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Da due anni vivevo senza volto. Nemmeno uno specchio, a Buchenwald. Vedevo il mio corpo, la sua crescente magrezza, una volta alla settimana, alle docce. Nessun viso, su quel corpo irrisorio. Con la mano, talvolta, sfioravo un'arcata sopracciliare, degli zigomi sporgenti, una gota incavata. Avrei potuto, forse, procurarmi uno specchio. Al mercato nero del campo si trovava tutto, in cambio di pane, tabacco, margarina. Persino un po' di tenerezza, all'occorrenza.

Dettagli che non mi interessavano. [...].

Mi guardano, con gli occhi impauriti, pieni di orrore. I miei capelli rasati non possono essere in causa, né essere la causa di tanto guardare. [...]. Saranno gli abiti, allora? [...]. Sarà la mia magrezza? [...]. Tutti questi particolari: i capelli rasati, i cenci scombinati, possono sorprendere, lasciare interdetti. Ma questi uomini non sono sorpresi, né incuriositi. Quello che leggo nei loro occhi è spavento.

Non resta altro che il mio sguardo, concludo, che possa lasciarli tanto sbalorditi. È l'orrore del mio sguardo che il loro sguardo, pieno di orrore, rivela. Se i loro occhi sono uno specchio, io devo avere uno sguardo da folle, uno sguardo sconvolto, insomma».468

I primi personaggi a essere nominati sono, lo scopriremo poco dopo, tre ufficiali britannici. Subito viene detto che hanno gli occhi sbarrati, che sono sgomenti, ma in realtà il loro sguardo è lo specchio di quello del protagonista. La prima cosa che vediamo è il volto degli ufficiali, ma come se fosse uno schermo bianco sul quale viene proiettato il volto di Semprún. Il protagonista si rivede nel loro terrore, lui è il loro terrore, lo provoca perché ne è portatore e fruitore.

Quella che qui l'autore presenta è una dinamica dello sguardo assai complessa, soprattutto considerando il fatto che non si fermano qui i suoi incroci: immediatamente dopo, infatti, il protagonista sostiene che per due anni ha vissuto senza volto. Gli ufficiali britannici sono terrorizzati probabilmente perché vedono un volto che in realtà non è capace di esprimere uno sguardo.

Un altro dato interessante è la mancanza di specchi a Buchenwald, o meglio, il totale disinteresse da parte del protagonista nel possesso di uno specchio. Il cerchio magico di Antelme, il luogo unico in cui il suo volto gli appariva meraviglioso, viene invece rubricato da Semprún come "dettaglio senza interesse". E chissà che non sia proprio questo disinteresse nei confronti del proprio volto, l'accettazione parziale di questa negazione, a fare del viso di questo scrittore-prigioniero una maschera sconvolgente.

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Il protagonista si interroga sulle possibili motivazioni dello stupore degli ufficiali e, non trovandone, ritiene che sia colpa del proprio sguardo. Se gli occhi dei britannici sono uno specchio dei suoi, il prigioniero sta operando ancora una volta una negazione del volto, questa volta di un volto altrui, che si ribella mostrando al proprio distruttore la sua orribile figura.

Si tratta di poche righe, in fondo è solo un incipit. Eppure i concetti qui condensati, la complicatissima trama di sguardi e ciò che essi comportano, rivelano molto sullo sviluppo successivo del testo, oltre a dare testimonianza di un fatto realmente accaduto.

Abbiamo infatti un'altra occorrenza di un episodio molto simile, posto anch'esso in sede di incipit, narrato da Primo Levi e tratto dal suo secondo libro, La tregua:

«La prima pattuglia russa giunse in vista del campo verso il mezzogiorno del 27 gennaio 1945. [...].

Erano quattro giovani soldati a cavallo, che procedevano guardinghi, coi mitragliatori imbracciati, lungo la strada che limitava il campo. Quando giunsero ai reticolati, sostarono a guardare, scambiandosi parole brevi e timide, e volgendo sguardi legati da uno strano imbarazzo sui cadaveri scomposti, sulle baracche sconquassate, e su noi pochi vivi. [...].

Non salutavano, non sorridevano; apparivano oppressi, oltre che da pietà, da un confuso ritegno, che sigillava le loro bocche, e avvinceva i loro occhi allo scenario funereo. Era la stessa vergogna a noi ben nota, quella che ci sommergeva dopo le selezioni, ed ogni volta che ci toccava assistere o sottostare a un oltraggio: la vergogna che i tedeschi non conobbero, quella che il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà buona sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa».469

Britannici o russi, coloro che si avvicinano con occhi nuovi al perimetro del campo, a liberazione avvenuta, provano qualcosa di molto simile. Le parole dei russi sono «brevi e timide», i loro sguardi sono «legati da uno strano imbarazzo», sono oppressi da «un confuso ritegno» che «avvinceva i loro occhi allo scenario funereo», quasi come se fossero ipnotizzati di fronte alla visione che li muove a vergogna, in un circolo di vergogne sempre più incalzante.

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Un'emozione di questo genere richiama in causa il tema dello specchio prima evocato da Semprún, dato che la vergogna provata dai russi è la stessa, a quanto afferma Levi, dei prigionieri. Anche i loro volti sono specchi, specchi che si riflettono l'un l'altro, in un vortice.

Accade lo stesso in Lager, per tutti. Ogni viso scarno è il possibile riflesso del proprio.

«Non c'è ove specchiarsi, ma il nostro aspetto ci sta dinanzi, riflesso in cento visi lividi, in cento pupazzi miserabili e sordidi».470

Vale la pena di sottolineare il fatto che Levi, nel passo precedente, estrometta i tedeschi dalla possibilità di provare un'emozione simile, mentre invece, con un'apertura mentale miracolosa, ne rende parte i russi, che possono provare insieme a lui la stessa emozione nonostante non abbiano subìto una selezione, o altri dolori peculiari del Lager. Perché questa emozione non è legata a un dato esclusivamente materiale: si tratta della vergogna che «il giusto prova davanti alla colpa commessa da altrui, e gli rimorde che esista».

Torniamo indietro al concetto di soglia, alla sua molteplicità se veduto nel contesto della letteratura dei Lager: non tutti i testi sui campi di concentramento hanno inizio dentro il perimetro dello stesso. Al contrario, dei quattro testi di prima generazione presi in considerazione, solo quello di Antelme presenta il suo protagonista immediatamente immerso nella realtà del Lager.

Levi, Wiesel e Semprún invece raccontano, nei loro rispettivi volumi, il momento in cui fanno il loro ingresso alla nuova vita del Lager. Dopo la spoliazione di ogni bene, le docce, la disinfezione, arriva il momento ufficiale della schedatura e dell'impressione del numero sull'avambraccio sinistro. Sono questi i momenti ufficiali, i riti iniziatici di questa nuova terribile vita. In particolare, sono i momenti in cui ai detenuti vengono date nuove generalità: un numero di matricola, un'età, una nazionalità, un lavoro.

Ovviamente, nulla vieta al prigioniero di mentire riguardo la propria identità, e questo aspetto della vicenda è ormai chiaro, dopo aver letto quanto ha voluto scrivere Viktor Frankl in materia.

Ho già parlato di come Levi ha descritto il suo ingresso ad Auschwitz, di come abbia visto nella ritualità del tatuaggio il principio di un funesto battesimo. In questa

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occasione lo scrittore racconta solo questo rito, e il lettore verrà a conoscenza del fatto che è un chimico solo alcune pagine dopo, in un dialogo fugace con un certo Schlome.471

Wiesel e Semprún, invece, raccontano nel dettaglio il momento in cui passano la nuova soglia del Lager, la schedatura, e di come fosse fondamentale mentire, inventarsi un'età diversa dalla propria e un lavoro mai fatto per sopravvivere. Nella pratica, si tratta di due "riti" diversi: Wiesel racconta la primissima selezione di Auschwitz, quando i prigionieri scendono dal treno e si trovano immediatamente di fronte al dottor Mengele; Semprún invece racconta il momento vero e proprio della schedatura, avvenuto a Buchenwald. Ma al di là di questa piccola differenza, e delle ovvie coincidenze, è bene soffermarsi su un ulteriore punto di contatto tra i due episodi: in entrambi i casi, i protagonisti incontrano qualcuno che li invita caldamente a mentire. Così infatti inizia l'episodio tratto da La notte:

«– Hei, ragazzo, quanti anni hai?

Era un detenuto che mi interrogava. Io non lo vedevo in viso, ma la sua voce era stanca e calda.

– Non ancora quindici anni. –No, diciotto.

– Ma no – replicai – Quindici.

– Razza di cretino, ascolta ciò che io ti dico. Poi interrogò mio padre che rispose: – Cinquant'anni.

Più furioso ancora, l'altro riprese:

– No, non cinquant'anni. Quaranta. Avete capito? Diciotto e quaranta. Scomparve con le ombre della notte».472

Il rito si completa all'atto della bugia detta a Mengele. È lì che si comprende quanto fosse fondamentale mentire, dato che sia il piccolo Elie che il padre scampano alla prima selezione.

«– La tua età? – Domando con un tono che forse voleva essere paterno. – Diciott'anni. – La mia voce tremava.

– Sano? – Sì. 471 Ivi, p. 34. 472

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– Il tuo mestiere? Dire che ero studente?

– Contadino – mi sentii rispondere».473

Il racconto di Wiesel è piuttosto lineare, anche perché il suo libro rispetta la cronologia dei fatti e li narra ordinatamente in sequenza. Così non è per Semprún che, al contrario, fa un uso molto astuto della dispositio, confonde i piani, in modo tale da comunicare al meglio la sua esperienza reale. La sua scrittura infatti è profondamente letteraria, approva pienamente l'utilizzo dell'artificio finzionale.

L'ingresso nel Lager di Jorge è narrato a fatti ormai avvenuti, quando il campo di Buchenwald è già libero, occupato dall'esercito americano. La narrazione della schedatura ha inizio a partire da un breve scambio di battute tra il prigioniero e il tenente Rosenfeld, durante una passeggiata – lunga quasi dieci chilometri – che li conduce lentamente presso la casa di campagna di Goethe, alle porte di Weimar.

«Vestito di stracci scombinati, stralunato, ilare, timoroso, strizzando fra le mani l'orrendo cappello, mi sono subito dopo ritrovato davanti a un tavolo dove dei detenuti preparavano la scheda di identità dei nuovi arrivati. [...].

[...] L'uomo davanti al quale mi aveva posto il caso mi ha domandato nome, cognome, luogo e data di nascita, nazionalità. Le generalità, insomma. Alla fine, mi ha domandato la professione.

"Philosophiestudent", gli ho risposto. Studente di filosofia. Una sorta di luce è sprizzata dai suoi occhi insolitamente cupi, insolitamente disincantati.

"No", ha detto con tono perentorio, "non è propriamente una professione. Das ist

doch kein Beruf!". [...].

"Qui", ha aggiunto, "gli studi di filosofia non sono una professione che convenga! Qui, vale più essere elettricista, riparatore, muratore... Operaio specializzato, insomma!"

E ha insistito su quest'ultimo termine. [...].

Avevo vent'anni, ed ero un aspirante normalista senza esperienza della vita. Del messaggio che quell'uomo cercava di trasmettermi non ho capito nulla.

"Io sono uno studente di filosofia, e nient'altro", ho ripetuto testardamente.

Allora, l'uomo dagli occhi azzurri ha avuto un gesto di impotenza o di impazienza. E senza smettere di compilare la mia scheda, mi ha licenziato chiamando un altro dalla fila d'attesa».474

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Ivi, p. 37.

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Vale la pena osservare che il tenente Rosenfeld, sapendo che Jorge vuole scrivere la sua esperienza, gli dice che questo potrebbe essere un ottimo incipit, gli propone cioè una coincidenza tra l'ingresso nell'universo diegetico e quello nel campo.

Ma l'episodio non si conclude qui: uno studente di filosofia registrato come tale nel 1944 a Buchenwald non aveva speranza di sopravvivere. Era fondamentale che Jorge mutasse identità per evitare i trasporti alla Dora, la terribile fabbrica di missili che i nazisti avevano messo su in fretta e furia, uccidendo di lavori una quantità impressionante di detenuti. È un nodo che si scioglie, infatti, cinquant'anni dopo. Semprún lo racconta nelle fasi finali del suo libro. Per questo non ha usato l'episodio come incipit: si tratta al contrario di un meraviglioso explicit. La scena vede Jorge, ormai anziano, in visita a Buchenwald nel 1992, seguito da una troupe televisiva. Lì, ripreso dalle telecamere e ascoltato da un piccolo pubblico – nel quale individua un quarantenne molto attento – racconta nel modo più asciutto possibile la sua esperienza, fino ad arrivare al racconto che già aveva ascoltato il tenente Rosenberg, quello della sua schedatura.

«"Allora, probabilmente stanco della mia ostinazione, mi ha fatto cenno di allontanarmi, di lasciare il posto successivo... E ha scritto sulla mia scheda 'studente' con un gesto che mi è sembrato pieno di rabbia..."

È a quel punto che il quarantenne ha parlato, con voce regolare, calma, ma categorica.

"No", ha detto "non ha scritto questo!". Ci siamo voltati verso di lui, stupiti. [...].

"Ho letto i suoi libri, aggiunge. Lei ha già fatto riferimento a questo episodio in Quel

beau dimanche! Allora, sapendo che oggi sarebbe venuto sono andato a cercare la sua

scheda di arrivo fra i documenti di Buchenwald." Ha abbozzato un sorriso.

"I tedeschi, lo sa, amano l'ordine! Ho trovato, quindi, la sua scheda, come era stata compilata la notte del suo arrivo..."

Mi ha teso un foglio di carta.

"Eccone la fotocopia! Potrà constatare che il compagno tedesco non ha scritto 'studente'!"

Ho preso il foglio di carta, le mie mani tremavano. No, non aveva scritto Student, il compagno tedesco sconosciuto. Spinto probabilmente da un'associazione fonica, aveva scritto Stukkateur. Guardavo la scheda, mi tremavano le mani.

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Semprun, George Polit.

10. 12. 23 Madrid Span. Stukkateur

29. Jan. 1944

È così che si presentava la mia scheda personale compilata la notte del mio arrivo a Buchenwald. Stampato in precedenza, 44904 era il numero di matricola che mi era destinato. Intendo dire: destinato al deportato, chiunque egli fosse, comparso in quel dato momento davanti all'uomo incaricato di compilare quella scheda. Per caso, o meglio per fortuna, ero io. Il semplice fatto di essere stato registrato come "stuccatore" probabilmente mi ha salvato dai trasporti verso Dora, a quell'epoca ingenti».475

Stukkateur diventa una parola magica che dona la vita, rovescia completamente

l'idea che lo stesso Semprún si era fatto della propria esperienza. Improvvisamente capisce che qualcuno aveva mutato la sua identità, il profondo orgoglio legato alla sua qualifica di studente di filosofia, ma non lo aveva fatto con le cattive intenzioni delle SS.

Solo adesso Jorge può scrivere il suo libro, adesso che la sua vicenda ha un epilogo ben definito. Il suo personaggio è entrato e, finalmente, è uscito dal mondo diegetico. Il motivo vero della sua sopravvivenza è evidentemente di fronte ai suoi occhi, nel sottile riquadro di una fotocopia. Tutto questo ovviamente differenzia la sua esperienza rispetto a quella di molti altri detenuti, che non hanno un motivo così palpabile per rispondere alla domanda "perché sono sopravvissuto".

All'interno dello stesso testo vi è infine una seconda parola magica, quella che sancisce la momentanea – in quanto puramente mentale – liberazione da Buchenwald. Si tratta della parola tedesca Genosse, compagno. Buchenwald nacque come campo per prigionieri politici, con il risultato di concentrare in un unico luogo la resistenza comunista di mezza Europa. Solo in un momento successivo, com'è noto, giunsero gli ebrei, trasportati forzosamente dal fronte orientale. Genosse è una parola importante per Semprún perché sostituisce Häftling – detenuto – nei primi giorni della liberazione del campo:

«Quella mattina [...] ero stato strappato al sonno dall'insistente risuonare del mio nome. Una voce ruvida, autoritaria, mi era sembrato, gridava il mio nome all'altoparlante. Nel risvegliarmi di soprassalto, avevo avuto qualche secondo di confusione mentale. Per un

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attimo avevo creduto di essere ancora sottomesso agli ordini delle SS, all'ordine delle SS. In uno sprazzo di coscienza, malgrado le nebbie del brusco risveglio, avevo pensato che le SS mi convocassero alla porta del campo. In genere, essere chiamati a presentarsi alla porta di Buchenwald non era un buon segno. [...]. Ma questa volta il mio nome non era seguito dall'ingiunzione abituale: Sofort zum Tor! Non venivo convocato all'entrata del campo, sotto la torre di controllo, venivo convocato nella biblioteca. E poi, la voce non diceva il mio numero di matricola, ma il mio vero nome. Non chiamava il detenuto 44.904 - Häftling

vierundvierzigtausendneunhundertvier -, ma il compagno Semprún. Non ero più Häftling

ma Genosse, nella voce dell'altoparlante. A quel punto mi sono svegliato del tutto. Il mio corpo si è rilassato. Mi sono ricordato che eravamo liberi. Una sorta di felicità dirompente, di fremito dell'anima, mi ha assalito».476

Genosse diventa l'appellativo della libertà, non più un contenitore politico. Si può

essere compagni nella lotta e compagni di prigionia. Qui mi sembra invece che la parola tedesca pronunciata dall'altoparlante voglia identificare Semprún come "compagno di specie", cioè come essere che condivide con tutti gli altri il proprio attributo di umanità. Attributo che ha bisogno di certi requisiti minimi per concretizzarsi in una persona. Uno di questi requisiti è, appunto, l'identità. A Genosse non segue un numero di matricola, ma il vero nome dello scrittore. Se all'atto della schedatura il nome era stato tradotto in numero, adesso è come se avvenisse un rituale opposto: la riconversione, la decrittazione dello stesso numero nel suo nome corrispondente. Per questo l'autore tiene a raccontare il fatto in un luogo del testo assai vicino all'inizio della narrazione: vuole che il lettore si renda conto che il proprio ménage con la scrittura, la morte e la vita avviene dal momento in cui è uomo già libero ma non del tutto distaccato, perché ancora ignaro del fatto che una seconda parola, Stukkateur, cela il motivo della propria