ESPRESSIONI DELLA VERGOGNA
1.2 La visione e la divisione
«Basta che l'altro mi guardi» dice Sartre «perché io sia quello che sono». [...] basta che l'altro non mi guardi perché io non sia più niente.328
Le scritture del Lager, nel corso degli anni, si sono moltiplicate. A una congerie di testi pubblicati negli anni caldi del dopoguerra, generalmente costituita da scritture meno mediate, si affianca come abbiamo visto una seconda generazione di narrazioni e saggi. In quest’ultima, riconosciamo due modalità ulteriori: la prima vede una narrazione degli eventi più distaccata, dovuta anche all’arco di tempo passato dopo la liberazione e la conseguente influenza che la vita dopo il Lager ha sulla scrittura; la seconda invece, se gli autori sono anche medici, vede un'interiorizzazione dell’esperienza di prigionia di tipo diverso perché, per una maggiore comprensione, gli scrittori in questione hanno adottato una metodologia d’analisi affine alla pratica clinica. Nella maggior parte dei casi, almeno nelle opere più significative, tale metodologia è fortemente in commercio con il discorso filosofico, in particolare con la fenomenologia di Husserl e con l’esistenzialismo a base fenomenologica del primo Heidegger. È proprio a partire da tali presupposti che Ludwig Binswanger ha elaborato la pratica della Daseinsanalyse (analisi esistenziale), diventando così il massimo esponente della psichiatria fenomenologica. Nello stesso contesto filosofico, Viktor Emil Frankl promuove un tipo di analisi esistenziale conosciuto universalmente come
logoterapia, un approccio terapeutico che promuove la riscoperta del logos
nell’esistenza dell’individuo, il quale è inteso heideggerianamente come Dasein e quindi come Essere-per-la-morte. È sotto questa luce che Frankl si fa autore di un testo importantissimo, Uno psicologo nei Lager,329 un testo di prima generazione nel quale il terapeuta combina un certo slancio letterario autobiografico alla propria esperienza di medico.
328 Alain Finkielkraut, L'ebreo immaginario, Marietti, Genova, 1990, p. 165. 329
Viktor Emil Frankl, Psychologe erlebt das Konzentrationslager, Verlag für Jugend und Volk, Wien, 1946 (trad. it. Uno psicologo nei Lager, Ares, Milano, 1998).
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Al contrario, uno scrittore di seconda generazione come Bruno Bettelheim riesce a mantenere la pianezza dello stile pur rievocando, nel suo Il prezzo della vita,330 una lunga catena di dolorosi eventi autobiografici.
Ma pur non avendo scritto alcun testo direttamente riferito ai campi di concentramento, è a Ronald Laing e al suo L’io diviso331 che mi rifarò più volte, per meglio comprendere i meccanismi psicologici di sottomissione messi in atto dalla Gestapo, il grande ruolo che in essi ricopre l’emozione della vergogna e la sua conseguente resa letteraria nei testi posti sotto la lente della presente analisi.
Anche Laing si rifà al contesto filosofico in questione – cosa che non fa Bettelheim, studioso in particolare dell’autismo, e che a noi interessa principalmente come testimone, non come terapeuta. Ciò si palesa direttamente nel primo capitolo del suo saggio più importante, in cui esprime la volontà di porre le basi fenomenologico- esistenziali di una scienza delle persone.
«La fenomenologia esistenziale si propone di precisare la natura dell’esperienza che si ha del proprio ambiente e di se stessi […] di porre tutte le varie esperienza singole entro il contesto di un globale “essere-nel-mondo”».332
Il vocabolario psichiatrico moderno, secondo Laing, ha delle grosse mancanze, in quanto è come se si facesse di tutto per distanziare il terapeuta dal paziente:
«soltanto il pensiero esistenziale ha tentato di esprimere l’esperienza originale che si ha di se stessi in rapporto agli altri, nel proprio mondo personale, con un termine che rifletta adeguatamente questa globalità: nel linguaggio esistenziale la cosa concreta è l’esistenza di un uomo, il suo essere-nel-mondo».333
È in questo contesto che rientra in gioco ancora una volta il tema dello sguardo. Laing ci avverte che «è il modo iniziale di vedere una cosa che determina tutte le nostre azioni»334 e che «l’essere di un uomo […] può essere visto da angoli diversi».335 In
330
Bruno Bettelheim, The Informed Heart. Autonomy in a mass age, Free Press, Glencoe, 1963 (trad. it. Il
prezzo della vita. L’autonomia individuale in una società di massa, Adelphi, Milano, 1965).
331
Ronald Laing, The Divided Self. An Existential Study in Sanity and Madness, Penguin, Harmondsworth, 1960. (trad. it. L’io diviso. Studio di psichiatria esistenziale, Einaudi, Torino, 1969).
332
R. Laing, L'io diviso, cit., p. 21.
333 Ivi, p. 24. 334 Ivi, p. 25. 335 Ivi, p. 24.
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particolare, un uomo può essere visto dal soggetto come un altro uomo – come altro possibile soggetto – ma anche come un sistema fisico-chimico complesso, cioè come un organismo prettamente oggettuale.
Nell’immagine giù riprodotta, come commenta Laing, possiamo vedere due esseri umani o un vaso. Io aggiungerei, a partire da ciò che Ernst Cassirer ipotizza nel suo
Saggio sull’uomo,336 che possiamo vedere un simbolo o un segno: per Cassirer infatti l'uomo è un animal symbolicum,337 e se nell’immagine qui proposta vediamo due uomini, questo significa che nel processo della visione stiamo mettendo in atto una simbolizzazione dell’umano, cioè che riconosciamo l’idea di uomo nel tracciato sottile di una silhouette, e vediamo in essa un’espressione nascosta, un principio di parola inespressa, e con essa tutta la moltitudine di possibili variazioni che quella silhouette può assumere se riportata nella vita. Ma se vediamo in essa esclusivamente un vaso, l’immagine significa semplicemente se stessa, è autosemantica e non rimanda ad alcun significato altro.
338
Il capitolo sullo sguardo contenuto in L’Essere e il nulla339 risulta il miglior campo di confronto. Per Sartre la prima modalità di percezione dell’altro è l’oggettività, ma per vedere nell’altro una persona, questo si deve manifestare alla percezione direttamente come soggetto: solo in tal modo è possibile il rapporto fondamentale, l’essere per altri. Vedere l’uomo nell’uomo significa cogliere una relazione non
additiva tra lui e il mondo delle cose, significa cioè non metterlo sullo stesso piano
336
Ernst Cassirer, An essay on man. An introduction to a philosophy of human culture, Yale University Press, New Haven, 1944 (trad. it. Saggio sull'uomo. Introduzione a una filosofia della cultura, Longanesi, Milano, 1948).
337
La capacità di creare e decifrare simboli sarebbe, secondo Cassirer, il discrimine tra l'uomo e l'animale, capace di decifrare esclusivamente segni.
338
R. Laing, L'io diviso, cit., p. 25.
339
Jean-Paul Sartre, L’être et le néant. Essai d’ontologie phénoménologique, Gallimard, Paris, 1943 (trad. it. L'essere e il nulla, Mondadori, Milano, 1958).
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ontologico delle cose. Se il soggetto cerca invece di percepire il rapporto tra l’altro e le cose, questo gli sfugge in blocco, perché esso stesso non può mettersi al centro dell'atto percettivo dato che ne è completamente estromesso. È in questo senso che Laing concepisce il rapporto con il paziente, che appunto non va visto come un oggetto d'analisi: non potendosi mettere al centro dell'atto percettivo, perché ciò che il terapeuta sta sondando è il rapporto tra il paziente e la realtà esterna – vale a dire la malattia – si pone di fronte a esso in una modalità non oggettiva, poiché l’oggettività, lungi dal mostrarsi come l’approccio più vicino alla scientificità, in questo caso depersonalizza il soggetto e produce falsa conoscenza.
Come conclude Sartre? Affermando che «l'apparizione, tra gli oggetti del mio universo, di un elemento di disintegrazione di questo universo, è ciò che io chiamo l'apparizione di un uomo nel mio universo».340 È importante soffermarsi su questo punto, e mettere a confronto tale ordine di idee sulla percezione con la definizione che Laing dà dello schizoide:
«Si designa col termine “schizoide” un individuo la cui totalità di esperienza personale è scissa a due livelli principali: nei rapporti con l’ambiente, e nei rapporti con se stesso. Da una parte questo individuo non è capace di sentirsi insieme con gli altri […] ma, al contrario, si sente disperatamente solo e isolato; dall’altra non si sente una persona completa e unitaria, bensì si sente “diviso” in vari modi: per esempio vive se stesso come una mente e un corpo uniti fra loro da legami incerti, oppure come due o più persone distinte».341
Se la disintegrazione dell’universo del soggetto avviene appunto con l’ingresso di un altro soggetto allora, a livello ambientale, tale ingresso mette in crisi lo schizoide perché non può mettersi al centro di una rete di relazioni, mentre a livello interiore la scissione dell’io nel soggetto porta a una relazione distruttiva tra le sue diverse identità. Un processo che, se portato alle sue estreme conseguenze, permette alla malattia mentale di giungere al massimo della sua potenza: la completa disintegrazione dell’io.
Il soggetto sano è dotato invece di una sicurezza ontologica342 che gli permette di concepire il suo io mentale e il suo io corporeo in un unicum inscindibile, differenziato
340
Jean Paul Sartre, L'essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano, 2008, p. 308.
341
R. Laing, L'io diviso, cit., p. 21.
342
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dal resto del mondo e autonomo: una sicurezza che ha inizio con la nascita e che viene meno con la morte.
Il meccanismo messo in moto nei Lager nasce per mettere in crisi tale sicurezza. L’insicurezza ontologica dello schizoide porta il soggetto a vivere «tutte le circostanze comuni della vita quotidiana» come «un pericolo continuo e mortale»,343 ed è tale la situazione ricreata volontariamente nel campo di concentramento tedesco. Proprio come Darrell Standing in Il vagabondo delle stelle,344 il prigioniero prova a distanziare la propria vita interiore dalla miseria in cui la sua vita corporale è immersa. Nel libro di London ciò avviene attraverso la rappresentazione di una dimensione onirica attiva, nel quale il personaggio diventa “regista” e “attore” di una nuova realtà, mentre nella realtà del Lager l’internato si rifugia nella fantasticheria.345
La persona ontologicamente insicura, secondo Laing, soffre di tre tipi di ansietà, il
risucchio, l’implosione e la pietrificazione,346 le quali generano per lo più reazioni contraddittorie.
Il risucchio è vissuto dal soggetto come la paura di essere compreso, amato o anche semplicemente visto. La reazione a esso è l’isolamento, perché ogni contatto può comportare un assorbimento nell’altro: si tratta di uno dei meccanismi che agiscono direttamente nell’emozione della vergogna, quando il nostro sistema di valori è condiviso con l’altro e questo è posto in stato di superiorità. Ma nel caso del risucchio è l’amore dell’altro che spinge il soggetto a isolarsi.
Nel caso dell’implosione, il soggetto si sente vuoto e l’eventualità che questo vuoto venga riempito, sebbene in certi momenti sia un suo desiderio, gli appare il più delle volte come una possibilità devastante. La realtà in sé è il pericolo maggiore: questa è più o meno la modalità di essere-nel-mondo propria del musulmano, la figura ben descritta da Levi, Bettelheim, Agamben e altri.
Il terzo tipo di ansietà, la pietrificazione o spersonalizzazione,347 è quello che ci interessa maggiormente poiché prevede una reazione perfettamente coincidente a quella
343
Ivi, p. 51.
344
Jack London, The Star Rover, Macmillan, New York, 1915 (trad. it. Il vagabondo delle stelle, Modernissima, Milano, 1928).
345
B. Bettelheim, Il prezzo della vita, cit., pp. 173-175.
346
R. Laing, L'io diviso, cit., p. 52.
347
I termini spersonalizzazione e depersonalizzazione, verranno qui trattati come sinonimi. La prima variante è quella in uso nella traduzione italiana del libro di Robert Laing, L'io diviso. Tuttavia, la parola inglese che definisce il fenomeno è depersonalization. Depersonalizzazione, a sua volta, è la parola in uso nel testo di Battacchi, nella traduzione del libro di Todorov Di fronte all'estremo (il cui originale è
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del prigioniero medio, la quale ha grandi affinità con le teorie di Battacchi sulla vergogna. I soggetti qui coinvolti hanno sia la tendenza a sentirsi spersonalizzati, sia quella a spersonalizzare chi hanno di fronte, proprio perché temono a loro volta la medesima reazione da parte dell’altro. «Queste persone hanno bisogno di ricevere costantemente dagli altri una conferma della loro esistenza»,348 e questo è esattamente ciò che accade in chi ha, nella formula di Battacchi, una pretesa di attenzione da parte degli altri. Una tale pretesa, se mossa da un prigioniero verso una SS, genera automaticamente la sua mancata conferma e mette in moto la dinamica della vergogna nella sua modalità più distruttiva per l’io. L’internato, proprio come lo schizoide, si sente costantemente esposto alla possibilità di sentire se stesso come oggetto dell’esperienza altrui, mentre al contrario, «l’atto stesso di sentire l’altro come persona viene assunto come un atto potenzialmente suicida».349
In questo punto del suo saggio è lo stesso Laing a richiamare in causa Sartre, pur non specificando direttamente che l’analogia messa in campo è dedotta direttamente dal passaggio sartriano che ho già discusso. La visione del prigioniero non distrugge l’universo della SS, poiché quest’ultima ha l’intenzione, in senso fenomenologico, di cogliere in lui una relazione additiva con il mondo delle cose, come accade nella tavola di Kubert che ho discusso nel capitolo precedente, e pertanto può mettersi al centro del fenomeno percettivo.
Per discutere Kubert ho fatto due volte riferimento al libro di Antelme,350 ma la casistica è vasta. Ecco due ulteriori esempi, tratti rispettivamente da Levi e Bettelheim.
«Tutti guardiamo l’interprete, e l’interprete interrogò il tedesco, e il tedesco fumava e lo guardò da parte a parte come se fosse stato trasparente, come se nessuno avesse parlato».351
deportazione, Mondadori, Milano, 1983, p. 105. Per una definizione tecnica del termine, quest'ultimo rimanda a Antoine Porot, Manual alphabétique de psychiatrie, P.U.F., Paris, 1952. A mia volta, rimando a un confronto con la stessa voce presente nel DSM, collocata nel novero dei disturbi associativi.
348
R. Laing, L'io diviso, cit., p. 56.
349
Ibidem. La potenzialità distruttiva di tale atto vale per entrambi gli attori: se l’SS dovesse vedere nel prigioniero una persona, ciò avrebbe una conseguenza devastante sul proprio equilibrio psichico; se il prigioniero dovesse vedere nell’SS una persona e, dato il suo stato di superiorità, un modello, avverrebbe ciò che racconta Bettelheim ma che Levi disapprova in modo drastico: l’accettazione, da parte del prigioniero, dell’universo di valori degli ufficiali della Gestapo.
350
In un ulteriore passo del suo libro, Antelme spiega come fosse inconciliabile l'universo dei prigionieri e quello delle SS: «Ridere con lui sarebbe come ammettere che qualche cosa può essere tra di noi oggetto della medesima comprensione, avere lo stesso senso. Mentre la loro vita ha un senso che è esattamente l'opposto del nostro. Se noi ridiamo, ridiamo di qualche cosa che li fa diventare lividi. Viceversa, se sono loro a ridere, ridono di ciò che noi odiamo». R. Antelme, La specie umana, cit., p. 117.
351
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«Non esito ad affermare che riuscii a sopportare il trasporto e tutto ciò che esso comportava perché fin dall’inizio mi convinsi che quelle degradanti e terribili esperienze non accadevano, in un certo senso, a “me” come soggetto, ma soltanto a “me” come oggetto».352
Nessuno è più vulnerabile allo sguardo dell’altro quanto il prigioniero o lo schizoide, per i quali l’essere esposti equivale alla pietrificazione, alla condanna a una vergogna che non si prova in un contesto normale, mentre diventa l'emozione fondamentale in un ambiente estremo come il campo di concentramento. L’unica soluzione, per non morire, è scindere il proprio io corporeo da quello incorporeo, o creare un falso io: in breve, diventare soggetti schizoidi o, se già lo si è, aggravare pericolosamente il proprio stato. Un circolo vizioso che può interrompersi solo in tre modi: la terapia, la liberazione o la morte.
In questo caso, il senso di colpa continua ad accomunare il soggetto schizoide e il prigioniero. Se l’uno è cosciente del proprio potenziale distruttivo per gli altri e sceglie l’isolamento, l’altro è impossibilitato (come raccontano bene Bettelheim353 e Todorov)354 a dare soccorso a un suo compagno se non vuole rischiare di farlo ammazzare e di morire egli stesso. Sceglie quindi anch’esso l’isolamento, sceglie di mettersi in condizione di non vedere, perché l’impossibilità di aiutare lo mette in una condizione in cui la sua mancanza di autonomia diventa troppo palese per essere accettata. Il senso di colpa, insieme alla vergogna morale che a esso si aggiunge (perché si presume comunque che il tradimento messo in atto sia visto da qualcuno) contribuiscono ulteriormente a rendere estremo l’ambiente in cui vive il prigioniero.
352
B. Bettelheim, Il prezzo della vita, cit., p. 106.
353
«ogni disobbedienza a qualsiasi ordine, come rifiutarsi di schiaffeggiare un compagno oppure portare aiuto a un prigioniero torturato, era considerata un atto di ribellione e punita seduta stante con la morte».
Ivi, p. 103.
354
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