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ESPRESSIONI DELLA VERGOGNA

2. Riduzioni dell'identità: il nome e il volto

2.4 Nomi, grafie, simboli dell'identità in W di Georges Perec

Georges Perec ha un rapporto molto particolare con i nomi propri, tanto da renderli uno dei temi ricorrenti della narrazione in W o il ricordo d'infanzia. L'autore, francese di origini ebraiche polacche e orfano di entrambi i genitori, ha costantemente portato avanti una ricerca della propria identità e, come abbiamo visto in precedenza, ha usato il linguaggio e la scrittura per crearsene una, cercando di riempire con l'immaginazione i vuoti o le impossibilità della memoria.

Nella sezione più spiccatamente autobiografica di W, quella scritta in tondo, l'autore racconta parte della storia della propria famiglia. I Perec emigrano in Francia dalla Polonia e, in piena occupazione nazista, adottano ogni tipo di espediente per sopravvivere alle leggi razziali del Reich. Pur non avendo subìto il mutamento del proprio nome in numero tra le mura di un Lager, Georges è tuttavia testimone di quelle profanazioni autonome dell'identità praticate da chi vive in una nazione nella quale bisogna nascondersi. La francesizzazione dei nomi propri è una di queste: nel raccontare al suo lettore la lunga storia dei nomi della propria famiglia, Perec sembra dedicare a questi l'attenzione di un cabalista.

L'autore afferma che lui stesso è l'unico membro della propria famiglia ad aver creduto per lungo tempo che suo padre di chiamasse André e sua madre Cécile.477 In realtà i nomi reali dei genitori, che lui scoprirà solo più tardi, sono Icek Judko e Cyrla. Da questo momento in poi, Perec dà inizio a un gioco di rimandi, traduzioni e travestimenti dei nomi propri:

«Icek ovviamente corrisponde a Isaac e Judko è senz'altro un diminutivo di Jehudi. [...] Suo fratello maggiore era chiamato Léon, quando invece il suo nome all'anagrafe era Eliezer. In realtà tutti chiamavano mio padre Isie (o Izy). Sono il solo ad aver creduto per lunghi anni che si chiamasse André».478

La grafia incerta Isie-Izy deriva dal fatto che è stato trovato un diminutivo francese a un nome polacco. Non è certo un atto di depersonalizzazione, ma la pronuncia inquinata del nome proprio è sicuramente uno dei limiti all'integrazione di una minoranza. In un contesto come quello del campo di concentramento, figura come

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G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., p. 41.

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un atto che si aggiunge al costante atteggiamento depersonalizzante dalle guardie, tanto da far scrivere Antelme in proposito, come abbiamo già visto.479

Il tema della possibile incrinatura dell'identità attraverso la storpiatura fonica e grafica viene ripreso anche per la genealogia del cognome "Perec":

«Il nostro nome di famiglia è Peretz. È nella Bibbia. In ebraico significa "buco", in russo "pepe", in ungherese [...] indica quello che noi chiamiamo "Bretzel" ("Bretzel" non è che un diminutivo (Beretzele) di Beretz, e Beretz, così come Baruk o Barek, ha la stessa radice di Peretz – in arabo, ma non in ebraico, la B e la P sono la stessa identica lettera).

Ai Perez piace pensare di essere dei discendenti degli ebrei spagnoli cacciati dall'Inquisizione (i Perez sarebbero dei marrani) della cui migrazione ci sono tracce in Provenza (Peiresc)».480

Peretz, Bretzel, Beretzele, Beretz, Baruk, Barek, Perez, Peiresc. L'autore elenca e spiega tutte le possibili variabili, percorrendo a ritroso tutte le possibili implicazioni semantiche e foniche. In più, Perec ricorda che la sua famiglia paterna è originaria di Lubartow, attualmente nel voivodato di Lublino, una città che negli anni tra il 1896 e il 1909, corrispondenti alle date di nascita del padre e degli zii, «fu successivamente territorio russo, polacco e poi di nuovo russo». A questo punto, Perec scrive una frase collegabile direttamente con il libro di Antelme, del quale lui stesso era un grande estimatore:

«Un impiegato dell'anagrafe che sente in russo e scrive in polacco sentirà Peretz e, mi hanno spiegato, scriverà Perec. Ma potrebbe anche essere andata al contrario: secondo mia zia sarebbero stati i russi a scrivere "tz" e i polacchi a scrivere "c"».481

"Perec" non è quindi una resa francese del polacco, ma una metamorfosi fonica che si ottiene con l'incontro tra lingua russa e lingua polacca. L'autore infatti, poco oltre, si premura di specificare che anche in francese vi è una lieve differenza tra la grafia e la pronuncia. Non è quindi plausibile pensare che la modifica del cognome sia stata effettuata in Francia, dato che non abbiamo motivo di pensare che un impiegato francese avrebbe tradotto in segni dei suoni che, nella sua lingua, non corrispondono.

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R. Antelme, La specie umana, cit., pp. 26-27.

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G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., pp. 41-42.

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«dovrebbe essere Pérec o Perrec (è così che viene spontaneo scriverlo, con un accento acuto o con due erre) e invece è Perec, anche se non si pronuncia Peurec».482

Peretz, Perez, Peiresc, Beretz, Pérec, Perrec, Peurec. L'analisi del proprio cognome è certosina e chiede ausilio a più fonti, da quelle storiche alle storie familiari, insieme con la naturale conoscenza della propria lingua madre.

Come in altri luoghi del testo, Perec prova a mimetizzare la propria attenzione nei confronti di questo tema attraverso l'ironia: «Chiaramente, il punto qui non è mio padre; si tratta di un regolamento di conti fra me e mia zia».483 In realtà, proprio nel capoverso successivo, parla della prima (e probabilmente ultima) visita al cimitero in cui è sepolto il padre, e la cosa che più lo colpisce è vedere scritto sulla lapide il proprio cognome, dato che per molto tempo una caratteristica che lo differenziava da tutti i componenti della famiglia era proprio quello di chiamarsi Perec, dati i problemi di trascrizione all'anagrafe già discussi.

L'autore non si interessa solo al proprio cognome: l'analisi dei nomi percorre infatti anche la sezione matrilineare del suo albero genealogico, con correzioni e ripensamenti di natura fonica e grafica.

«Cyrla Schulevitz, mia madre, più comunemente chiamata Cécile, come scoprii le rare volte che ne sentii parlare, era nata a Varsavia il 20 agosto del 1913. Suo padre, Aaron, era artigiano; sua madre, Laja, nata Klajnerer, casalinga».484

Più in là, in alcune note composte dallo stesso Perec, assistiamo a uno stravolgimento di queste poche ma fondamentali informazioni sulla sua famiglia, attraverso tre rettifiche. La prima riguarda il cognome della madre: «Nella trascrizione del nome ho fatto ben tre errori di ortografia: la grafia esatta è Szulewitz».485 Queste due righe testimoniano quanto l'errore nella trascrizione di un nome abbia un senso, per un uomo che sta scrivendo un libro sulla propria infanzia iniziando con la frase «non ho ricordi d'infanzia».486 L'autore tiene a comunicare la propria confusione anche al lettore: un errore di trascrizione è un segnale perfetto per raggiungere questo scopo narrativo. Non avrebbe alcun senso espungerlo, trattarlo come un refuso, un errore di battitura.

482 Ibidem. 483 Ivi, p. 43. 484 Ivi, p. 36. 485 Ivi, p. 45. 486 Ivi, p. 8.

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Qui l'errore è carico di significato e va riportato come elemento significante del testo. Ogni volta che questo tipo di mancanza testuale si verifica, Perec si cura di farla notare al lettore.

La seconda rettifica riguarda il cognome della nonna materna, Klajnlerer, che nella prima trascrizione è infatti mancante della lettera L.487 La possibilità di sbagliare, di far finta di sbagliare, costituisce uno dei fondamentali della postura narrativa di Perec, del suo costante corpo a corpo ironico con il lettore.

La terza rettifica riguarda sia il nome che il mestiere del nonno materno: «In realtà Aaron – o Aron – Szulewicz, di cui, come dell'altro mio nonno, so poco o niente, non era artigiano, bensì fruttivendolo ambulante».488

Come abbiamo visto, poche righe sulla storia della propria famiglia bastano a Perec per costruire una fitta sottotrama di correzioni, le quali comunicano la profonda confusione riguardo alla propria identità. Una confusione che l'autore vuole comunicare al lettore nel modo che gli è più congeniale, ovvero attraverso il gioco combinatorio delle lettere, l'errore di trascrizione, l'ironia, i parallelismi. Il misticismo linguistico proprio dell'ebraismo diventa la base d'appoggio di tutta una serie di dispositivi narrativi.

I parallelismi, in particolare, sono la chiave per comprendere il rapporto, in W, tra la sezione in corsivo e quella in tondo: Caecilia (Cyrla, Cécile) è il nome della madre di Gaspard Winckler, come di quella di Perec. Gaspard Winckler è a sua volta un evidente rimando a Kaspar Hauser, il leggendario figlio d'Europa apparso d'un tratto il 26 maggio 1828, orfano come Perec, in una piazza di Norimberga.

All'inizio del testo corsivo, il falso Winckler non è capace di decifrare il blasone famigliare di Otto Apfelstahl,489 l'uomo misterioso che gli affida la missione del

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Mi permetto di segnalare un errore di traduzione. Nel testo in italiano, è scritto «Klajnlerer sta per Klajnerer». Questa rettifica non ha senso, perché l'autore non ha mai scritto Klajnlerer, se non in questa occasione. Infatti il testo principale recita: «Laja, nata Klajnerer, casalinga». Il testo francese recita, invece, «Klanjlerer au lieu de Klajnerer». Per mantenere la locuzione "sta per", il traduttore avrebbe dovuto invertire i termini. Questa correzione non vuole essere un esercizio di pignoleria. A mio parere ha importanza segnalare questo errore soprattutto in un libro come W, in cui è lo stesso autore a commettere errori volontari, perché dotati di senso. Se quello che discuto fosse stato un "errore d'autore", la cosa sarebbe stata assai plausibile. Un errore che ricorre, nella sua correzione, in un altro errore; un cognome mai scritto che improvvisamente viene corretto. Sarebbe stato un procedimento decisamente perecchiano. Cfr. G. Perec, W ou le souvenir d'enfance, Denoël, Paris, 1975, p. 59.

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G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., p. 46.

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Ivi, p. 10. Volendo seguire l'analisi onomastica di Perec anche in sede critica, Apfel in tedesco significa mela, mentre Stahl significa acciaio. Non trovo collegamenti possibili tra il contenuto del romanzo e il significato scomposto del cognome di Otto. Probabilmente si tratta di una tipica applicazione forzata dei contraintes perecchiani.

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ritrovamento del vero Gaspard Winckler; mentre nella parte in tondo, il primo ricordo d'infanzia di Perec riguarda proprio il fatto che a tre anni era riuscito a individuare un segno, in un fascio di giornali yiddish su cui era seduto, chiamandolo «gammeth, o gammel».490 Si tratta di un segno particolare, «la forma di un quadrato aperto sull'angolo inferiore sinistro».491 Conoscendo il testo di Perec, il fatto che la presunta lettera che il bambino ha riconosciuto abbia due nomi desta qualche sospetto. Nella pagina successiva, infatti, l'autore non tarda a presentare la sua ennesima rettifica:

«In effetti una lettera chiamata "Gimmel" esiste, e mi piace credere che potrebbe essere l'iniziale del mio nome; ma non assomiglia affatto al segno che ho tracciato e che potrebbe, al limite, corrispondere a una "mem" o a una "M".492

L'atto stesso di assegnare un nome a una cosa o a una persona, in Perec, è un atto problematico. Il mondo vacilla nell'insicurezza più profonda e ogni precisazione, ogni gesto che conduca al possibile chiarimento della realtà è destinato a fallire. Non perché la realtà non abbia significato, ma perché ne può avere molteplici.

Questo concetto diviene chiaro in un luogo del testo in cui Perec ha ancora una volta a che fare con dei simboli. Si tratta di un ulteriore ricordo d'infanzia: l'autore si sofferma sul fatto che, ricordando il cavalletto a forma di X su cui un vecchio usava spaccare la legna nei pressi di una villa che aveva frequentato da bambino, abbia pensato intensamente al valore di quella lettera. La X, sostiene, ha dei significati propri: indica la parola cancellata, la moltiplicazione, l'ascissa, l'incognita matematica.493 Ma non solo. Essa costituisce soprattutto:

«Il punto di partenza di una geometria irreale di cui la V raddoppiata costituisce la figura base e le cui molteplici combinazioni raffigurano i simboli predominanti della storia della mia infanzia».494

La V infatti, nota Perec, rappresenta la metà di una X che a sua volta, prolungando i suoi bracci, si tramuta in una svastica. Da quest'ultima, ruotando uno dei suoi bracci, è possibile ricavare la lettera S dell'alfabeto runico usato dalle popolazioni

490 Ivi, p. 16. 491 Ibidem. 492 Ivi, p. 17. 493

Dato che si discute qui di obliterazioni dell'identità, vale la pena ricordare che la X è tradizionalmente il segno che gli analfabeti appongono come firma sui documenti.

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protogermaniche, la quale, se raddoppiata, forma il simbolo delle SS tedesche. Due coppie di V, continua l'autore, se opportunamente combinate, producono sia la stella di David, sia il simbolo che Charlie Chaplin sostituisce, nel Grande dittatore, alla svastica.495

Dunque, come possono i simboli avere dei significati univoci? Come possono indicare la realtà senza tentennamenti? Come può un volto, infine, corrispondere a un nome, a un'identità? La possibilità reale che ciò accada è data dal fatto che Perec descrive delle fotografie dei suoi genitori dentro lo stesso W,496 ma il contesto in cui lo fa, ovvero una realtà traditrice e infida, non lascia dubbi sull'incertezza con la quale si accosta a questo tema.

Quando verrà il momento di parlare di W, allegoria di Auschwitz, il tema dell'identità e dei simboli a essa connessi tornerà con forza. I nomi degli atleti dell'isola, esattamente come quelli dei prigionieri del Lager, vengono infatti cancellati. A W gli unici nomi attribuibili sono quelli di coloro che per primi hanno vinto nelle rispettive discipline. Il nome di questi atleti delle origini corrispondono a delle onorificenze: l'atleta che vince, si dia il caso, la gara di corsa di cento metro, assumerà il nome di colui che per primo vinse la gara dei cento metri, fino a quando un altro atleta non lo spingerà giù dal podio.

A questo punto, Perec spinge questa premessa fantasiosa in un territorio assai simile a quello di Auschwitz, fino a far diventare W, ripeto, un'allegoria del campo di concentramento polacco:

«La perdita del nome proprio rientrava nella logica di W: l'identità degli Atleti non tardò a confondersi con l'enunciazione dei loro record. A partire da quest'idea di base – un Atleta non è altro che le proprie vittorie – è stato elaborato un sistema onomastico tanto raffinato quanto rigoroso.

I novizi non hanno nome. Li chiamano "novizi". Sono facilmente riconoscibili perché sulla parte posteriore della tuta non hanno la W, bensì un grande triangolo di tessuto bianco, cucito con la punta rivolta verso il basso.

Gli Atleti in attività non hanno nomi, solo nomignoli. [...]. L'Amministrazione non ha mai visto di buon occhio questi nomignoli [...]. Un Atleta, per quanto la riguarda, al di

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Ivi, pp. 89-90.

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Per un approfondimento, cfr. Ferdinando Amigoni, Perec e il nibbio: su una foto di "W o il ricordo

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fuori dei nomi che gli derivano dalle vittorie ottenute, è identificato semplicemente dall'iniziale del suo villaggio accompagnata da un numero di matricola».497

Privazione del nome proprio, segnalazione della propria appartenenza a un dato gruppo sociale per mezzo di un simbolo (il triangolo bianco rovesciato) che costituisce la metà di una stella di David (ma anche il rovesciamento del reale simbolo utilizzato dai nazisti per indicare i non ebrei), numeri di matricola: si tratta di una perfetta resa finzionale della tecnica di depersonalizzazione utilizzata dai nazisti sui loro prigionieri.

Anche i nomignoli che gli atleti si danno l'un l'altro, basati su caratteristiche fisiche o morali, perdono di significato per un semplice motivo: sono ereditari. «L'Atleta che abbandona la squadra» scrive Perec «lascia al novizio che lo sostituisce il proprio nome ufficiale [...] e il soprannome».498 Può quindi accadere che un atleta alto e magro dia in eredità il proprio soprannome a un atleta basso e sovrappeso. Con il tempo, ovviamente, i soprannomi costruiti in questo modo perdono il loro significato originario e diventano segni vuoti. Anche il piccolo gesto di personalizzazione che, in tempi remoti, aveva toccato gli abitanti di W è ormai dimenticato.

Perec non riesce a dare patente di legittimità all'unione di un nome e di una persona, di un simbolo e di un concetto: neanche nel mondo finzionale da lui stesso creato.

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G. Perec, W o il ricordo d'infanzia, cit., p. 113.

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2.5 I volti, i nomi e i numeri in Vedi alla voce: amore di David