Il capitale umano (o human capital, HC), ossia “l’insieme di abilità, conoscenze ed esperienze di un individuo o una popolazione, viste in termini di valore o costo per un’organizzazione o paese” (oed.com), è senza dubbio uno degli asset più preziosi e di maggior valore che l’organizzazione possiede ed è inoltre l’elemento attraverso il quale anche tutti gli altri asset dell’organizzazione vedono aumentare il proprio valore (Sinha e Thafy, 2013). Gli studi finora condotti infatti hanno reso sempre più evidente l’esistenza di una relazione tra quelle che sono le risorse umane di un’organizzazione e i risultati finali che questa ottiene in termini per esempio di profittabilità, ROI, ROA, ma anche di successo e sopravvivenza dell’organizzazione stessa (Barber, 1998).
Tutto ciò aiuta a capire perché le pratiche di gestione delle risorse umane (o human resource
management, HRM) sono state e continuano ad essere considerate di notevole importanza e sono per
questo oggetto di continui studi e ricerche (Barber, 1998). Se da un lato infatti il concetto di risorse umane, inteso come capitale umano e quindi come asset organizzativo, sottolinea il contributo produttivo dato dai dipendenti, dall’altro le pratiche di HRM sono volte ad ottimizzare questo contributo in modo che l’organizzazione possa raggiungere gli obiettivi e i risultati desiderati (Compton et al., 2009).
Il processo di recruitment, in particolare, è parte integrante delle pratiche di HRM ed, insieme a quello di selezione, è considerato, come si può dedurre anche dalla sua collocazione in Figura 2.1, uno dei processi chiave per ogni organizzazione, se non addirittura il più importante (Compton et al., 2009; Garner, 2012).
Figura 2.1 Il recruitment come strumento strategico di HRM
59 Naturalmente questo non significa che il processo di recruitment possa essere svolto in modo isolato senza tener conto del resto dell’organizzazione e di quelli che sono la sua strategia e i suoi obiettivi. Più precisamente, è importante che le pratiche di HRM nel loro complesso siano allineate (Compton et al., 2009):
Orizzontalmente, ossia tutte le funzioni di HRM (ad es.: job design, recruitment e selezione, sviluppo delle risorse umane, performance management, compensazione…) devono essere chiaramente connesse le une alle altre e agli obiettivi dell’organizzazione;
Verticalmente, ossia tutte le funzioni di HRM devono riflettere la cultura, il budget e la strategia di lungo termine dell’organizzazione.
Tornando ora al processo di recruitment, esso, nello specifico, svolge un ruolo critico nel creare il capitale umano in quanto il successo degli sforzi successivi di gestione delle risorse umane, come la selezione, il training e la compensazione, dipendono in parte proprio dalla qualità e quantità di nuovi dipendenti identificati e attratti attraverso il processo di recruitment (Barber, 1998; Holm, 2012). A titolo esemplificativo, basti pensare al semplice fatto che se un’organizzazione fallisce nell’intento di attrarre una quantità sufficiente di candidati dotati delle giuste qualità, allora il processo di selezione non potrà essere svolto in modo efficace indipendentemente da quanto questo possa essere sofisticato (Gatewood et al., 2015; Nikolaou e Oostrom, 2015).
Il concetto di recruitment in realtà sembra avere origini molto antiche: i primi segni visibili infatti di questa pratica sembrano risalire agli inizi del 55 a.C. quando Giulio Cesare firmò un decreto con il quale prometteva una ricompensa in denaro ad ogni soldato che avesse trovato una persona con le giuste qualità per entrare nell’esercito (Anand, 2011). Nonostante le sue origini antiche, il termine recruitment ancora oggi presenta delle leggere sfumature per quel che riguarda la sua definizione. In termini piuttosto generali, infatti, il termine recruitment è stato definito come “processo con cui si attraggono, si fa lo screening, si selezionano e si assumono i migliori dipendenti in base alle skills, all’esperienza e al fit con l’organizzazione” (Melanthiou et al., 2015). In realtà però è doveroso sottolineare che talvolta in letteratura si parla allo stesso tempo di processo di recruitment e di selezione in virtù del fatto che si tratta di attività integrative il cui confine sembra essere ancora un punto controverso (Aravamudhan e Krishnaveni, 2015). Così come nella definizione appena riportata, infatti, questo lo si può notare anche dalle varie definizione che sono finora state proposte del termine recruitment le quali, pur presentando molti elementi di sovrapposizione, sembrano non sempre delineare con precisione lo stesso confine del concetto.
Nel 1991, per esempio, Rynes ha definito il recruitment come il termine con il quale si fa riferimento alle “pratiche e decisioni organizzative che influenzano il numero o il tipo di individui che sono disponibili a candidarsi o ad accettare un dato posto vacante” (Chapman et al., 2005). Simile è poi la definizione proposta da Breaugh, nel 1992, che parla di recruitment come delle “attività
60 organizzative che (1) influenzano il numero e/o il tipo di candidati che si candidano per una posizione e/o (2) influenzano il fatto che un’offerta di lavoro sia accettata o meno”, mentre, nello stesso anno, Myers ne parla in termini di “attività di gestione delle risorse umane che sviluppa fonti esterne ed interne di candidati qualificati” (Lee, 2005; Uggerslev et al., 2012). Queste ultime due definizioni in realtà sono state criticate poi da Barber, che nel suo libro “Recruiting Employees: individual and organizational perspectives” del 1998, ha evidenziato in entrambe l’esistenza di una certa confusione tra quello che è il processo di recruitment e i risultati del recruitment (recruitment outcomes), andando quindi ad oscurare il fatto che gli obiettivi di recruitment sono spesso influenzati da fattori esterni al tradizionale processo di recruitment stesso. Per evitare quindi questo problema, pur mantenendo la stessa ampiezza delle definizioni di Rynes e Breaugh, egli ha perciò descritto il recruitment come l’insieme di “pratiche ed attività svolte dall’organizzazione con lo scopo principale di identificare ed attrarre potenziali dipendenti”. In questo caso, la definizione distingue le pratiche ed attività di recruitment dai suoi risultati e dal concetto di identificazione e attrazione; nello specifico infatti il ragionamento di base prevede che, per conseguire lo scopo principale del recruitment di attrarre futuri dipendenti, innanzitutto bisogna identificare un bacino appropriato di potenziali dipendenti, dopodiché, attraverso le attività di recruitment si individuano i potenziali candidati, i quali vengono poi persuasi a proseguire ed accettare l’offerta dell’organizzazione.
Un’altra definizione poi che spesso viene citata, e che in parte riprende quella di Barber, è quella che definisce il recruitment come l’insieme di “pratiche ed attività svolte da un’organizzazione con lo scopo principale di identificare, attrarre ed influenzare le scelte lavorative dei candidati competenti” (Espinosa et al., 2012; Holm, 2012); mentre una proposta molto diversa viene da Heneman et al. che, solo un anno prima rispetto a Barber, avevano descritto il concetto come “quella parte del processo di staffing in cui gli individui e l’organizzazione si abbinano per formare un rapporto di lavoro” (Lee, 2005).
Infine sembra doveroso citare quanto detto da Elearn che, nel libro “Recruitment and Selection” del 2008, distingue in modo esplicito il concetto di strategia di recruitment da quello di pratiche di selezione. Mentre infatti il primo viene definito come “il modo in cui un’organizzazione cerca di procurarsi o attrarre le persone tra le quali poi procedere in ultima analisi con la selezione”, e in tal senso, in esso si racchiudono “gli sforzi per raggiungere il migliore bacino di candidati e “vendere” l’organizzazione come il datore di lavoro da scegliere”; il secondo, invece, si riferisce al fatto di “scegliere tra i candidati” e di capire “come svolgere un’accurata e giusta valutazione dei punti di forza e di debolezza dei candidati per identificare quello che ha più probabilità di svolgere bene il lavoro”. Questa separazione tra i due concetti in particolare è stata poi confermata anche da Gatewood et al. (2015) i quali sottolineano chiaramente come il processo di recruitment, seppur connesso, sia di fatto distinto da quello di selezione.
61 In linea con quanto detto finora quindi gli obiettivi principali del recruitment possono essere riassunti in tre punti (Nikolaou e Oostrom, 2015):
Attrarre candidati di alta qualità in grandi quantità;
Mantenere il loro interesse rispetto all’offerta di lavoro e all’organizzazione;
Persuadere i candidati ad accettare l’offerta di lavoro.
oppure come, nel caso di Elearn (2008), affermando che l’obiettivo finale di qualsiasi strategia di recruitment è quella di attrarre candidati di buona qualità nel modo più obiettivo, conveniente e rapido possibile.
In sostanza quindi è evidente che, come già accennato, il recruitment ha un ruolo critico e rappresenta una funzione vitale di gestione delle risorse umane proprio perché è il processo attraverso il quale l’organizzazione cerca i giusti talenti e li stimola a candidarsi per un certa posizione o, in altre parole, è il processo con cui l’organizzazione individua le fonti da cui trarre il personale che soddisfa i requisiti necessari ed attrae il giusto numero di dipendenti in modo da procedere poi con un’efficace selezione dei candidati (Holm, 2012; Sinha e Thafy, 2013).
Arrivati a questo punto naturalmente è doveroso sottolineare che il processo di recruitment, oltre ad avere una funzione cruciale all’interno dell’organizzazione, aspetto questo che verrà approfondito meglio anche nel prossimo paragrafo, è di fatto un processo molto complesso che spesso viene affrontato da studi e ricerche in modo un po’ semplificato rispetto alla realtà (Barber, 1998). A tal proposito Barber (1998) ha raccolto un elenco di cinque dimensioni chiave che sono state identificate in letteratura quali elementi che caratterizzano il recruitment:
Attori (players): racchiude tutti gli individui e le organizzazioni che hanno un ruolo nel processo di recruitment e che possono influire od essere influenzate da questo. In questa dimensione rientrano naturalmente l’organizzazione e i candidati (o potenziali candidati), ma a queste possono poi aggiungersi anche altre parti le quali possono essere divise in due gruppi:
organizational agents e outsiders. Nel primo gruppo rientrano quegli individui o gruppi,
interni (ad es.: recruitment department) od esterni all’organizzazione (ad es.: agenzie pubblicitarie e cacciatori di teste), che effettivamente svolgono e sono responsabili della funzione di recruitment; essi quindi agiscono per conto dell’organizzazione, tuttavia è doveroso ricordare che, come suggerito dalla teoria dell’agenzia, non si può dare per scontato che l’agente agisca nel miglior interesse dell’organizzazione. Per quel che riguarda il secondo gruppo, invece, è importante considerare che nel recruitment c’è una forte componente di relazione pubblica e questo crea un effetto spillover. Durante il processo infatti l’organizzazione diffonde diverse informazioni su di sé (alcune delle quali ampiamente disseminate, altre invece raccolte dai candidati e, seppur non disponibili al pubblico, disponibili ad essere condivise con colleghi, amici e parenti); l’influenza che così si crea sugli
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outsiders può potenzialmente impattare sull’organizzazione cambiando il comportamento dei
potenziali clienti e investitori o cambiando la percezione dei potenziali dipendenti sull’attrazione dell’organizzazione. Va infine precisato che l’organizzazione potrebbe decidere di ricorrere ai servizi di consulenti o agenzie di collocamento (employment agency) esterne a cui affidare il processo di recruitment per una questioni di costi, tempi o competenze; tuttavia in questi casi va anche considerato che, essendo l’organizzazione nella posizioni di sapere più di tutti qual è il contenuto del lavoro e quali qualità deve avere un individuo per ricoprire una posizione, affinché il recruitment dato in outsourcing abbia successo, è necessario che l’organizzazione fornisca all’agenzia o al consulente tutte le informazioni necessarie (ad es.: job title, job description, person specification, cultural fit, range della compensazione e indicatori di performance) (Compton et al., 2009).
Attività (activities): comprende i task specifici, le procedure e le azioni intraprese durante il processo di recruitment, e quindi ciò che la persona coinvolta nel processo fa. Nello specifico, le attività possono essere classificate in:
o Definire la popolazione target: si tratta di decidere dove “reclutare” (ad es.: a livello locale o nazionale) e a quale segmento rivolgersi;
o Scegliere il mezzo o la fonte: consiste nel scegliere il modo con cui si vuole raggiungere la popolazione target (ad es.: passaparola, referenze dei dipendenti, fiere del lavoro, pubblicazione di annunci, agenzie per l’impiego…). Questa scelta influisce sul tipo e il numero di candidati che vengono raggiunti;
o Diffondere il messaggio: riguarda la disseminazione di informazione attraverso le fonti scelte e può variare molto per quel che riguarda la natura del messaggio (ad es.: informazioni positive o più realistiche), il messaggero ed il tempo (ad es. in termini di recruitment cycle);
o Fare l’offerta: si tratta di definire l’offerta di lavoro da proporre a chi soddisfa i criteri di selezione;
o Questioni amministrative in generale: comprende le politiche e le pratiche di gestione della funzione di recruitment nel suo complesso, e quindi sia da una prospettiva interna (organizzazione) che esterna (candidati).
Risultati (outcomes): come più volte detto, l’obiettivo principale del recruitment è quello di identificare ed attrarre potenziali dipendenti, tuttavia questo non è facile da definire e valutare. L’attrazione ha infatti sia una dimensione quantitativa (attrarre un certo numero di potenziali dipendenti, né troppo piccolo né troppo grande, così da poter scegliere senza però appesantire il processo) che qualitativa (attrarre candidati con attributi specifici), inoltre va valutata in diversi momenti (il potenziale candidato prima deve decidere di candidarsi, poi di affrontare il processo di selezione ed infine di accettare l’offerta di lavoro). A tal proposito, Chapman et al.
63 (2005), in particolare hanno identificato quattro variabili di recruiting outcomes: job pursuit
intentions (ossia, l’intenzione di un individuo a candidarsi e a rimanere all’interno del pool di
candidati per un dato lavoro), job-organization attraction (ossia, la valutazione complessiva del candidato circa l’attrattività del lavoro e/o dell’organizzazione), acceptance intentions (ossia, la probabilità che un candidato accetti l’offerta di lavoro) e job choice (ossia, la scelta da parte del candidato di accettare o rifiutare l’offerta di lavoro).
Infine, a tutto ciò vanno poi aggiunti i risultati che vanno al di là del processo di recruitment di per sé, ad esempio l’impatto sul comportamento e l’atteggiamento post-assunzione del candidato assunto, dei dipendenti già esistenti, dei potenziali candidati, degli investitori e dei clienti, che nel complesso hanno un impatto sui risultati che l’organizzazione ottiene in termini di perfomance.
Contesto (context): è importante considerare che il processo di recruitment viene svolto nel mondo reale e questo significa che esistono una serie di fattori (esterni, come l’ambiente esterno, lo stato del mercato del lavoro, la legislazione, ma anche interni, come le caratteristiche dell’organizzazione) che influenzano le attività di recruitment dell’organizzazione e il modo in cui i candidati reagiscono ad esse.
Fasi (phases): pur essendoci ampio consenso circa il fatto che il processo di recruitment sia composto da più fasi o stadi, l’esatta individuazione di queste è ancora un punto controverso. Questo aspetto verrà approfondito nel paragrafo 2.5.
Infine, passando ora a considerare i paradigmi presenti in letteratura, va innanzitutto detto che ancora una volta si parla sia di recruitment che di selezione. Billsberry nel suo libro “Experiencing recruitment and selection” del 2007 elenca in particolare i tre paradigmi principali, tuttavia egli stesso sottolinea anche che, a differenza di quello che accade in molte altre discipline o per altri argomenti, in questo caso uno di questi paradigmi risulta essere chiaramente dominante. Si tratta nello specifico dello psychometric paradigm il quale considera il processo di recruitment e selezione da un punto di vista aziendale mostrando come svolgere una buona selezione attraverso una valutazione delle conoscenze, skills, abilità e attributi (dall’inglese knowledge, skills, abilities e attributes da cui deriva l’acronimo KSAOs) richiesti per ricoprire bene la posizione. A questo paradigma se ne aggiungono poi altri due, il social process paradigm e il person-organization fit (PO fit). Il primo, adottando come punto di vista quello del candidato, considera il processo di recruitment e selezione come un processo sociale e per questo viene spesso usato per esplorare l’impatto del processo psicometrico; mentre il secondo considera la relazione tra dipendente e datore ed in generale l’interazione tra persone ed fattori ambientali andando quindi a prendere in considerazione entrambi i punti di vista (sia dell’organizzazione che del candidato).
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