Arrivati a questo punto è doveroso fare un’ulteriore precisazione. Nel corso degli ultimi paragrafi è stato spiegato come elementi quali l’immagine, l’employer brand e la cultura di un’organizzazione abbiano un impatto considerevole sul grado di attrazione che un’organizzazione è in grado di esercitare sui potenziali candidati, e come quindi questo si ripercuota sui processi di gestione delle risorse umane, in primis sul processo di recruitment. Quello che ora si vuole considerare è come quanto detto finora risulti essere ancora più vero se si pensa a quello che è il contesto attuale che di fatto ha reso il recruitment un processo ancora più impegnativo (Girard e Fallery, 2010).
Oggi infatti, in una situazione caratterizzata da una crisi finanziaria, da un rallentamento economico e da una massiccia ristrutturazione, la ricerca dei talenti rimane comunque un elemento critico che l’organizzazione deve affrontare senza contare poi il fatto che, con l’economia che diventa sempre più globale aumentano le preoccupazioni dovute ad una competizione più intensa per i talenti, alle conseguenze del non riuscire ad ottenere le giuste persone per una data posizione nonché del dover assumere candidati al di sotto della media solo per riuscire a coprire una posizione (Beechler e Wooward, 2009).
Nello specifico, sono due i punti che verranno affrontati nel corso di questo paragrafo: il concetto di war for talent e il cambio generazionale nella forza lavoro.
War for talent
Per quel che riguarda il primo punto, l’espressione war for talent è stata definita come “l’idea (discutibile) che ci sia un pool fisso e limitato di persone di talento in ogni generazione e che i datori di lavoro quindi devono competere intensamente per diventare il “datore da scegliere” (richiamando di fatto l’importanza dell’employer brand) e così attirare e trattenere i lavoratori” (oxfordindex.oup.com). In realtà, è doveroso fare una precisazione su questa definizione. Nonostante infatti come si vedrà di seguito l’espressione war for talent possa essere interessante ed intuitiva nel cercare di spiegare le difficoltà che un’organizzazione affronta nel competere per i migliori candidati, questa definizione si basa di fatto su degli assunti che in realtà sono piuttosto discutibili (Pfeffer e Sutton, 2006):
Le capacità degli individui sono fisse ed invariate quindi ci sono persone migliori ed altre peggiori: in realtà il talento, più che da abilità naturali, dipende dagli sforzi e dall’accesso alle giuste informazioni e tecniche, dalla motivazione ed esperienze delle persone e dal modo in cui le persone sono gestite e guidate; inoltre va considerato che questo è un pensiero pericoloso in quanto può diventare una teoria che si auto avvera.
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Le persone possono essere ordinate in base alle loro capacità e competenze: in realtà i talenti non sono così facili da identificare in quanto l’identificazione comporta un giudizio umano il quale spesso si basa su pregiudizi psicologici.
Le prestazioni dell’organizzazione sono la somma delle singole prestazioni e quindi ciò che conta non è il contesto o il sistema ma ciò che gli individui fanno: in realtà invece essendo l’organizzazione un sistema complesso, essa funziona bene se le parti si integrano bene e quindi è importante avere un buon sistema.
Al di là di questa definizione comunque quello del war for talent resta un concetto interessante ed un’espressione che continua ad essere utilizzata perché aiuta a capire come il recruitment, e il reteining, dei giusti talenti, che consentono all’organizzazione di raggiungere i propri obiettivi e ottenere un vantaggio competitivo, sia di fondamentale importanza, specie nei momenti in cui c’è una carenza di talenti (Barrow e Mosley, 2005; Uggerslev et al., 2012; Baum e Kabst, 2014). Di fronte infatti alla consapevolezza sempre maggiore del grande contributo che i dipendenti, con le loro conoscenze, abilità e capacità, danno alla performance dell’organizzazione, diventa comprensibile come per l’organizzazione riuscire ad attrarre i migliori candidati sia sempre più difficile, specie se si considerano i fattori economici e demografici degli ultimi decenni che hanno portato a parlare appunto di war far talent (Chapman et al., 2005).
Più precisamente, quest’espressione, coniata nel 1997 da McKinsey & Company, un’importante società di consulenza americana, è stata creata e si basa sull’idea che “vale la pena di combattere per i migliori talenti”. Nello specifico, come riportato da Beechler e Wooward (2009), quello che risulta dagli studi condotti da McKinsey è una maggiore difficoltà che hanno le organizzazioni nell’attrarre e trattenere persone di talento, in considerazione se non altro del fatto che i migliori talenti, quando cercare lavoro, si rivolgono alle grandi organizzazione, ben gestite e con dei buoni valori e una buona cultura, alla ricerca dei migliori lavori che diano responsabilità e autonomia nelle decisioni. Partendo quindi dalla consapevolezza che nella “nuova realtà” (in opposizione alla cosiddetta “vecchia realtà”, come si vede dalla Figura 2.4) le persone (anziché il capitale e i macchinari) sono diventate la nuova fonte di vantaggio competitivo, McKeney spiega come questa difficoltà e questa scarsità di talenti di fatto renda la ricerca dei migliori candidati una battaglia costante e costosa destinata a durare.
81 Figura 2.4 Confronto tra nuova e vecchia realtà
Fonte: Michaels et al., 2001
Tuttavia per comprendere davvero cosa rappresenta l’espressione war for talent è importante capire innanzitutto cosa si intende con il termine talento. Nonostante infatti questo termine sia oggi usato spesso per indicare l’intera forza lavoro di un’organizzazione, le definizioni che sono state proposte sembrano essere in realtà un po’ più restrittive, tanto che talvolta le organizzazioni usano come alternative le espressioni “i migliori e i più brillanti” o “i dipendenti A-Level” (Beechler e Wooward, 2009): McKinsey, per esempio, definisce il talento come “la somma delle abilità di una persona…la sua genialità intrinseca, le sue competenze, le sue conoscenze, la sua esperienze e il suo carattere, nonché le sue capacità di apprendere e crescere”; mentre David Ulrich propone la formulazione “Talento = competenze, impegno, contributo” dove per competenze si intende che “l’individuo ha le conoscenze, le competenze e i valori richiesti oggi e domani”, per impegno che “il dipendente lavora sodo, usa il tempo per fare ciò che gli viene chiesto di fare e usa la sua energia discrezionale per il successo dell’organizzazione”, e infine per contributo che “il dipendente dà un reale contributo attraverso il proprio lavoro”. Di conseguenza, se per McKinsey vale quanto detto prima, prendendo invece come punto di riferimento la proposta di Ulrich, l’idea che sta dietro al concetto di war for talent può essere descritta come “l’impulso di cercare, sviluppare e trattenere gli individui, ovunque essi siano nel mondo, che hanno le competenze e l’impegno necessario per un lavoro e riescono a trovare un significato ed uno scopo nel proprio lavoro” (Beechler e Wooward, 2009).
Come già detto precedentemente, nonostante il concetto di war for talent si basi su degli assunti in parte discutibili, esso suscita comunque un certo interesse perché descrive una situazione che sembra destinata a durare nel tempo. A tal proposito, Michaels et al. nel loro libro “The war for talent” del (2001) per esempio hanno elencato tre forze fondamentali che, fintanto che saranno presenti, continueranno ad alimentare la war for talent che quindi continuerà a condizionare lo scenario di business :
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Il cambiamento irreversibile dall’era industriale all’era dell’informazione: la war for talent infatti ha inizio negli anni 80 con la nascita dell’era dell’informazione, quando cioè i beni tangibili (come macchinari e capitale) sono diventati meno importanti rispetto a quelli intangibili (come il brand, il network, il capitale intellettuale e il talento). È proprio durante questo periodo infatti che aumentano i lavori che richiedono dei knowledge worker per essere svolti e questo si è tradotto di fatto nella necessità per le organizzazioni di riuscire ad aggiudicarsi i migliori talenti essendo essi in grado di creare un valore differenziale enorme. Questo significa che fintanto che l’economia continuerà e diventerà sempre più knowledge- based, tanto più il valore creato dai migliori talenti continuerà ad aumentare.
La domanda sempre più intensa di talenti manageriali di alto livello: al di là infatti della crescita in generale della domanda di talenti, il ruolo del manager sta diventando sempre più impegnativo, avendo la globalizzazione, la deregolamentazione e i rapidi sviluppi tecnologici cambiato le regole del gioco in molti settori. Oggi quindi le organizzazioni, a cui si aggiungono poi anche le sempre più numerose start-up, devono competere per ottenere quei manager che sono in grado di affrontare queste sfide, rivedere il business e ispirare le persone, senza contare poi che il tutto è inasprito, dall’altro lato, da un’offerta di talenti manageriali limitata, nonostante alcune organizzazioni tentino di compensare tale carenza di giovani manager continuando a fare affidamento su quelli più anziani (cosa questa che però le espone ad un rischio maggiore nel momento in cui questi andranno in pensione).
La crescente propensione delle persone a passare da un’organizzazione all’altra: quando, infatti, a metà degli anni 90 si è verificata un’ondata di opportunità di lavoro, accompagnata da una maggiore trasparenza su tali opportunità grazie ad internet, si è rotto un vecchio tabù legato al cosiddetto job hopping e oggi, avere nel proprio curriculum esperienze con organizzazioni diverse, è diventato qualcosa di positivo. Questo sembra essere vero in misura maggiore per le nuove generazioni e ha contribuito alla nascita di quelli che oggi vengono definiti job seeker passivi, ossia persone che non cercano lavoro in modo attivo ma sono sempre in allerta per cogliere eventuali opportunità. Infine va sottolineato che, di fronte alla consapevolezza che i migliori talenti probabilmente hanno già un lavoro e non sono disoccupati, questa certa libertà che oggi i talenti hanno nel cambiare datore rappresenta per le organizzazioni un ulteriore elemento di complessità nel momento in la competizione per i talenti si inasprisce e le porta a cercare di sottrarre i dipendenti ai proprio competitor attraendoli a sé (Nikolaou e Oostrom, 2015)
In modo simile anche Beechler e Wooward (2009) hanno proposto un elenco di quattro fattori che hanno un ruolo significativo in termini di war for talent in quanto impattano sulla qualità e quantità e
83 le caratteristiche dei talenti e, insieme, creano un ambiente complesso, in rapido cambiamento e globale in cui le organizzazioni devono riuscire ad attrarre, sviluppare, motivare e trattenere i talenti :
Trend economico e demografico globale: nel primo caso vanno considerati elementi come la globalizzazione (con il conseguente aumento nell’integrazione economica tra nazioni) e lo sfumarsi dei confini geografici (mano a mano che i governi rimuovono gli ostacoli legali e regolamentari nell’interazione internazionale) che cambiano il panorama economico anche per quel che riguarda il mercato del lavoro; mentre nel secondo si fa riferimento ad un cambiamento generale nella distribuzione dell’età della popolazione, e di conseguenza nel pool di talenti a disposizione, dovuto ad un insieme di fattori come l’aumento della longevità, il calo delle nascite e una dimensione sproporzionata della generazione del dopo guerra.
Crescente mobilità di persone ed organizzazioni: la globalizzazione e le differenze economiche e demografiche tra regioni infatti hanno cambiato la mobilità delle persone rispetto ai confini geografici e culturali traducendosi di fatto in una maggiore disponibilità delle persone a lasciare il proprio paese (la cosiddetta “fuga di cervelli”) e quindi in una competizione globale nel mercato del lavoro.
Cambiamenti nell’ambiente di business, nelle competenze e nelle culture: innanzitutto, il passaggio da un economia basata sui prodotti ad una basata sulla conoscenza ha spostato l’attenzione delle organizzazioni sugli asset intangibili e sulle risorse umane di talento necessarie per ricoprire ruoli complessi e che richiedono notevoli abilità. A questo si aggiunge poi il fatto che molte organizzazioni hanno deciso di rispondere alla recessione abbandonando la logica di una struttura gerarchica e burocratica a favore di una struttura più piatta o basata su network e team interfunzionali, portando così ad un cambiamento nelle competenze ed abilità richieste nonché alla focalizzazione sulla costruzione e il sostengo di relazioni.
Livello crescente di diversità nella forza lavoro: operando infatti l’organizzazione in un ambiente sempre più globale essa si trova a dover gestire popolazioni di dipendenti, mercati, culture e modi di lavorare molto diversi, a cui si aggiungono poi diversità tra dipendenti anche per quel che riguarda l’aspetto generazionale (le organizzazioni potrebbero infatti avere tre o quattro generazioni che lavorano insieme, dai “veterani” e “baby boomer”, alle generazioni “X” e “Y”, cosa questa che può diventare fonte di apprendimento ed innovazione ma anche potenziale causa di conflitti dovuti alle differenze nei valori e nelle aspettative tra le generazioni) e il genere, che si traducono in attitudini, comportamenti e stili di lavoro diversi. Infine va considerato anche quello che è il cambiamento nel work life cycle che dal modello lineare “istruzione-lavoro-pensionamento” si sta muovendo verso un modello in cui periodi di formazione, lavoro e riposo si sovrappongono e si alternano nel corso della vita.
84 È evidente quindi che il quadro descritto finora e che ha portato a parlare di war for talent ha di fatto delle implicazioni che le organizzazioni non possono ignorare e che possono essere riassunte in due punti (Michaels et al., 2001):
Il potere in parte si è spostato dalle organizzazioni agli individui, e questo significa che, se da un lato, le persone di talento hanno possibilità di negoziare con l’organizzazione, dall’altro, quest’ultima per vincere e accaparrarsi i migliori talenti deve lottare di più;
Un’eccellente gestione dei talenti diventa una fonte cruciale di vantaggio competitivo. Se un’organizzazione infatti riesce ad attrarre, sviluppare, stimolare e trattenere i suoi talenti allora otterrà il meglio da questa risorsa critica e scarsa e migliorerà notevolmente le proprie performance
Di fronte a questa situazione le organizzazioni hanno cercato di adottare nuovi approcci che permettessero loro di trovare, sviluppare, motivare e trattenere i talenti, tra i quali (Beechler e Wooward, 2009; Dhawan, 2016): individuare nuove fonti di talenti, trattenere il più possibile i dipendenti di valore (anche i Baby boomer), adottare nuove pratiche per sfruttare la loro sempre più diversificata base di dipendenti, sviluppare partnership per influenzare, costruire, istruire e motivare la forza lavoro di nuova generazione (di cui si parlerà tra poco) ma anche non basarsi sempre sulle stesse piattaforme social per evitare di competere con le altre organizzazioni per lo stesso pool di candidati e scegliere invece anche piattaforme connesse al proprio settore in cui le persone si riuniscono per condividere le proprie conoscenze, creare e alimentare il proprio canale di talenti e, nel momento in cui ci si rivolge ai Millennials, cercare di capire quali sono le loro preoccupazioni ed inserire degli elementi di umorismo e divertimento (sembra infatti che questi siano la principale forma di espressione che questa generazione preferisce).
Cambio generazionale della forza lavoro: i Millennials
Passando ora a considerare il secondo aspetto riguardante il cambio generazionale della forza lavoro, va innanzitutto ricordato quanto già detto nel capito precedente, ossia che entro il 2025 i Millennials rappresenteranno circa il 75 percento e quindi la maggioranza della forza lavoro mondiale (Burke e Hiltbrand, 2011; Mohl, 2014; Meister, 2015). Partendo da questa considerazione è evidente che le organizzazioni non solo non possono limitarsi ad affrontare la war for talent, come già accennato, facendo affidamento sui dipendenti più anziani e che quindi si avvicinano al pensionamento, ma soprattutto non possono esimersi dal cercare di capire se e come adattare la proprie pratiche di HRM, e di recruitment in primis, in base alle preferenze ed esigenze di questa nuova generazione.
Come intuibile da quanto detto finora, infatti per le organizzazioni è fondamentale capire quali sono i valori e desideri dei potenziali candidati, in quanto i dipendenti oggi sono visti in primis come
85 persone e, in quanto tali, viene riconosciuto loro la possibilità di scegliere di lavorare per un’organizzazione in cui credono, di cui sono orgogliosi, che li supporti e li incoraggi ad esprimere i propri valori e credenze (Katz, 1999; Arthur, 2006 ). Questo, tra le altre cose, permette quindi di modellare l’organizzazione in modo da renderla più attraente agli occhi dei potenziali candidati e di conseguenza rendere il retaining ed il recruitment più semplici e meno onerosi (Katz, 1999; Nikolaou e Oostrom, 2015). È evidente quindi che l’aspetto generazionale non può essere ignorato.
Il concetto di generazione può essere definito come “un gruppo sociale formato da persone che sono nate e vivono nello stesso periodo (più o meno lungo) e lo stesso passaggio dalla giovinezza all’età adulta” e che, proprio per questo, al di là naturalmente delle eccezioni individuali, sviluppano un insieme di caratteristiche ed attitudini simili rispetto alla vita di famiglia, ai ruoli di genere, alle istituzioni, alla politica, alla religione, alla cultura, allo stile di vita e al futuro (Howe e Strauss, 2000; dictionary.com; Sheahan, 2005). Tre in particolare sembrano essere gli elementi che permettono di identificare i membri di una generazione (Howe e Strauss, 2000):
Senso di appartenenza percepito: inizia a formarsi durante l’adolescenza e si completa in genere finita l’università, con la leva militare, con il matrimonio o con le prime esperienze di lavoro;
Credenze e comportamenti comuni: le attitudini delle persone (verso la famiglia, la carriera, il rischio, il romanticismo, la politica e la religione) e le loro tendenze comportamentali (nelle scelte di lavoro, nella salute, nel rischio, o rispetto a argomenti come la criminalità, la droga e il sesso) sono aspetti che possono essere monitorati e registrare una vera frattura tra diverse generazioni;
Collocazione comune nella storia: ogni generazione infatti vive in contesto definito da eventi e tendenze contemporanee. L’idea di base infatti è che gli eventi culturali e i cambiamenti che accadono in un certo periodo influenzano la percezione e la visione del mondo e quindi l’atteggiamento di chi vive in quel periodo (Arellano, 2015).
Come appena ricordato, presto la generazione che rappresenterà la maggior parte della forza lavoro è quella dei Millennials quindi è importante che le organizzazioni comprendano se e come questa generazione si differenzia dalle precedenti (ossia dai Baby Boomers e dalla Generazione X), per quel che riguarda per esempio i valori e le aspettative, e come questo si traduce in una reazione diversa alle pratiche di recruitment dell’organizzazione, in quanto è proprio attraverso i Millennials che esse potranno affrontare con successo la carenza di talenti e quindi la war for talent (Sampath, 2007; Girard e Fallery, 2010; Baum e Kabst, 2014).
Con il termine Millennials si fa riferimento alla generazione di persone nate all’incirca tra gli anni 80 e il 2000 (alcuni parlano di un arco che va dal 1978 al 2000 altri dal 1981 al 1993) e che quindi fanno seguito alle precedenti generazioni dei Baby boomers (nati tra il 1945 e il 1964) e della
86 Generazione X (nati tra il 1965 e il 1980) (Arthur, 2006; Stariņeca, 2015). Va precisato che in realtà poi esistono molti altri termini che vengono usati per indicare la generazione dei Millennials, tra i quali: Generazione Y (o Gen-Yers), Echo Boomers, Net generation (o Digital generation), Generation why , Generation Next e I generation (Sheahan, 2005).
Si tratta quindi di una generazione che è nata e cresciuta in un periodo caratterizzato da tutta una serie di esperienze uniche (ad es.: l’AIDS e l’11 settembre) ed immersa nella tecnologia (ad es.: internet, i telefoni cellulari, il download e i videogame multiutente) che di fatto l’ha resa una generazione completamente diversa dalle generazioni precedenti (Girard e Fallery, 2010).
Howe e Strauss, per esempio, nel loro libro “Millennials rising: the next great generation” del 2000 hanno addirittura parlato dei Millennials come di una generazione le cui attitudini e comportamenti sono tali da portare ad una rottura netta rispetto alla Generazione X e da essere in esatto contrasto con le tendenze dei Baby Boomers.
In alcuni casi gli studiosi si sono limitati a riassumere queste differenze in modo sintetico evidenziando le caratteristiche base delle generazioni; Wilson per esempio ha parlato di Baby boomers ottimisti, Gen Xers indipendenti e Millennials esperti di tecnologia, mentre altri hanno definito i Millennials come cittadini del mondo ambiziosi e grandi utilizzatori della tecnologia (Arellano, 2015; Stariņeca, 2015). Diversamente, molti altri hanno invece cercato di descrivere i Millennials proponendo elenchi precisi di quelli che sono i tratti e i comportamenti che li caratterizzano e, come si può notare anche da alcune delle proposte di seguito riportate, alcuni elementi sono comuni mentre in alcuni casi esistono anche elementi contrastanti.
Howe e Strauss (2000), per esempio, hanno cercato di spiegare quali sono gli elementi che caratterizzano questa generazione e, dopo aver descritto in modo generico i Millennials come persone tendenzialmente ottimiste, collaborative ed orientate al team, che accettano l’autorità, seguono le regole, sono intelligenti, sono sempre seguite (da genitori, parenti, insegnanti, baby sitter, allenatori, camere di sorveglianza ecc…) e credono nel futuro, ha proposto un vero e proprio elenco di sette tratti distintivi dei Millennials:
Speciali (special): le generazioni precedenti infatti hanno inculcato nei Millennials l’idea che essi, collettivamente, sono essenziali per la nazione e per gli scopi dei loro genitori;
Riparati (sheltered): i Millennials infatti sono al centro del movimento più radicale per la