• Non ci sono risultati.

La Deposizione in Santa Maria di Monte Uliveto: echi della Lapidazione di Giulio Romano

ECHI DI RAFFAELLO NELLE OPERE A GENOVA E NEL LEVANTE LIGURE TRA IL 1510 E IL

3.1. Gli influssi raffaelleschi nelle opere local

3.3.1. La Deposizione in Santa Maria di Monte Uliveto: echi della Lapidazione di Giulio Romano

E’ proprio grazie all’opera del Pippi che con la Deposizione di Multedo, il Sacchi rinnova il suo stile in chiave più moderna [Fig. 115,116]. L’opera è datata 1527 ed è conservata all’interno della chiesa di Santa Maria di Monte Uliveto, nella località di Multedo, una frazione di Genova133.

Come sostiene Gianluca Zanelli, la pala costituisce un esempio molto importante di un’evoluzione del linguaggio verso forme più complesse e studiate. La pala ripropone elementi presenti nelle opere fiamminghe conservate nelle chiese genovesi, in particolar modo quelle del pittore Joos van Cleve, di cui si è parlato nel primo capitolo: si notino gli atteggiamenti dei personaggi e la resa minuziosa dei tessuti, tratto tipico dei fiamminghi.

133 La chiesa di S. Maria e dei Santi Nazario e Celso in Multedo, più conosciuta come S. Maria di Monte Oliveto o semplicemente chiesa di Monte Oliveto, fu fondata dai Carmelitani calzati nel XVI secolo.

Una prima chiesa dedicata ai Santi Nazario e Celso e dipendente dalla pieve di Prà esisteva probabilmente già prima dell'XI secolo, ma è citata per la prima volta in un documento del 18 marzo 1210; nel 1248 risultava essere parrocchiale; nel 1432 fu saccheggiata dalle truppe di Filippo Maria Visconti, duca di Milano, in guerra con la Repubblica di Genova. Nel 1516 i Carmelitani, guidati da un certo Ugolino Marengo di Novi, si insediarono nella parrocchia grazie all'appoggio dei Lomellini; ottenuta l'approvazione del papa Leone X essi avviarono la costruzione della nuova chiesa di Monte Oliveto, intitolata alla Natività di Maria e dell'annesso convento. Il nuovo edificio sacro fu costruito in posizione preminente sul colle sovrastante la vecchia chiesa. I lavori di costruzione si protrassero a lungo (nel 1582 una nota del visitatore apostolico Francesco Bossi sollecitava il termine dei lavori; il 12 luglio 1584 un decreto del vicario generale dell'arcidiocesi di Genova Clemente Politi trasferì la parrocchialità alla nuova chiesa, pur non del tutto ultimata. Al titolo della nuova parrocchia fu aggiunto anche quello dei Santi Nazario e Celso della vecchia chiesa, che divenne sede della confraternita. I Lomellini diedero un apporto decisivo al completamento dell'edificio e nel 1586, in segno di riconoscenza, i padri carmelitani concessero loro il diritto della sepoltura nella chiesa.A cavallo tra il XVI e il XVII secolo il convento di Monte Oliveto visse il suo periodo di maggior splendore: la presenza di figure di spicco dell'ordine carmelitano contribuì ad accreditare il complesso come centro culturale e di potere.

La chiesa, consacrata il 6 luglio 1637 dal vescovo di Noli Angelo Mascardi, subì danni e saccheggi nelle guerre del 1746-1747 e del 1800. Nel 1812 i Carmelitani, ridotti di numero, abbandonarono la parrocchia e la chiesa fu affidata al clero secolare; subì vari restauri nell'Ottocento, quando fu rifatta la facciata (1840), e all'inizio del Novecento.

La chiesa ha tre navate e nove altari; conserva numerose opere d'arte, tra queste una tavola di Pier Francesco Sacchi raffigurante la "Deposizione dalla Croce" (1527), alcuni dipinti attribuiti a Bernardo Castello ("Tutti i

Santi", "Madonna col Bambino” e "Santi Nazario e Celso" e due tele di Antonio Semino

("Assunzione" e "Crocifisso e Santi", entrambe datate 1585). Sull'altare maggiore statua barocca in marmo della Madonna col Bambino. Notevole il pavimento in marmo, rifatto nel 1907. Il sagrato offre tuttora un ampio panorama sul mare, mentre la vista su Pegli è oggi limitata da alcuni moderni caseggiati. Da Corinna Praga, Genova fuori le mura, Genova, Fratelli Frilli Editori, 2006.

74 Anche il paesaggio ricorda, ad esempio, quello dell’Adorazione dei Magi o delle Madonna col bambino e gli angeli: come afferma Zanelli “i paesaggi dove si ergono fantasiose città attorniate da campi rigogliosi, solcati da lucenti corsi d’acqua con strade percorsi da viandanti e impervi blocchi rocciosi”134.

L’opera presenta accostamenti con le opere manieriste toscane-romane.

L’artista sceglie di inserire in una composizione ancora legata fortemente alla cultura lombarda, una citazione mantegnesca nelle scene retrostanti, ed è sensibile agli esempi nordici presenti a Genova, proprio con riferimenti alla pala del Pippi in Santo Stefano.

Una meditazione, seppure piuttosto grottesca, ma ammirabile, che è indice del fatto che qualcosa sta cambiando nell’ambiente pittorico locale. Una svolta, come già affermato in precedenza, annunciata negli anni precedenti con sempre crescente vigore, che diviene dirompente grazie all’arrivo di Perin del Vaga, pittore fiorentino ma romano d’adozione. Il maestro fiorentino giunge in un contesto che, se non totalmente consapevole di quanto espresso dalla moderna cultura tosco-romana, già da alcuni anni si era dimostrato predisposto nei confronti di questa nuova sensibilità figurativa, della quale non ignorava la conoscenza apprezzandone alcuni interessanti stimoli135.

Si può ipotizzare che, a fronte di svariati studi, Pier Francesco Sacchi sia l’artista che ha rinnovato maggiormente il suo linguaggio figurativo in ambito locale ligure, dopo l’arrivo della pala di Giulio Romano.

Le sue opere presentano ancora tratti fortemente lombardi, di accento leonardesco e si possono notare accorgimenti verso uno stile tosco- romano, con influssi raffaelleschi.

La pala di Multedo è l’opera che si accosta maggiormente a quella di Santo Stefano, in primo luogo perché entrambe sono di grandi dimensioni e in secondo luogo perché tutte e due sono pale d’altare e presentano la bipartizione della scena su due livelli: uno divino e l’altro terreno. Il partito compositivo della Lapidazione presenta un’intuizione raffaellesca destinata a risolvere il problema di unire, appunto, l’ultraterreno con il terreno su un’unica scena.

Così si divide la rappresentazione prospetticamente in due livelli, uniti approssimativamente da uno stesso punto di osservazione e, perciò, di fuga136.

134 Gianluca Zanelli, Andrea Muzzi (a cura di), Pittori fiorentini a Palazzo Spinola. Dipinti di primo

Cinquecento, Galeeria di Palazzo Spinola, ciclo di studi (11 ottobre 2013- 23 marzo 2014), Genova, p. 37.

135 Da Gianluca Zanelli, cit., pp. 37-45.

75 L’opera ha avuto un giudizio negato da uno degli studiosi del pittore, Mario Bonzi, il quale afferma che è presente uno squilibrio della composizione, pur notando la cura per il paesaggio. Inoltre sostiene che ci siano riferimenti ed affinità a pittori quattrocenteschi, quali Ludovico Brea e Van der Weyden.

Il Morassi, invece, chiama la tavola “farraginosa, seppur ricca di particolari bellissimi”. I due critici notano che la parte superiore della pala, quella con il Dio padre in gloria e gli angeli, ricorda molto quella della tavola di Giulio Romano. Si può ipotizzare che il Sacchi l’abbia vista dal vero e ne abbia tratto spunto. La parte sottostante con il Compianto sul Cristo morto è, invece, più statica e “pacata”. Quindi si può affermare che il Sacchi abbia visto l’opera del Pippi ma non ha saputo cogliere quello stile manierista e un po’ teatrale dell’allievo di Raffaello137.

Si può ipotizzare che il Sacchi abbia visto un’altra opera di grandissima importanza durante i suoi innumerevoli viaggi nel pavese: la Madonna Sistina di Raffaello [Fig. 117].

Se si osserva attentamente la teofania di angeli che si trova intorno al Dio padre, si può notare che il pittore pavese, anche se in maniera meno aggraziata e aulica, prende spunto da quella bellissima teofania che Raffaello ha dipinto nella tela, oggi conservata a Dresda [Fig. 118,119]. Non a caso quest’ultima è stata commissionata da papa Giulio II per il suo convento a Piacenza, ed è stata dipinta dal pittore urbinate tra il 1512 e il 1513. E’ ipotizzabile che il Sacchi, durante il suo viaggio nel pavese nel 1516, o anche negli anni successivi, abbia visto dal vero l’opera e abbia riprodotto la teofania nella pala di Multedo.

137 Anna Bocco, cit., pp. 46-47.

76