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Giovanni Battista Paggi, artista rivoluzionario nei primi anni del Seicento

IL MARTIRIO DI SANTO STEFANO: UN’ICONOGRAFIA

4.1. Una breve storia iconografica della Lapidazione di Santo Stefano prima della pala di Giulio Romano

4.2.2. Giovanni Battista Paggi, artista rivoluzionario nei primi anni del Seicento

Giovanni Battista Paggi nasce a Genova nel 1554 da Pellegro, un esponente dal 1567 della nuova nobiltà. Indirizzato dal padre verso la professione della mercatura, grazie all’amicizia che lo legò allo scultore lucchese Gaspare Forlani e alla frequentazione delle migliori botteghe di pittori genovesi, riesce ad arricchire il proprio bagaglio culturale attraverso lo studio delle opere dei pittori e scultori più celebri in quel periodo, tra cui Luca Cambiaso.

La prima attività da pittore, avviata, sulla base di quanto ricordato da Soprani, intorno ai venticinque anni, fu indirizzata alla realizzazione di dipinti destinati principalmente a una stretta cerchia di conoscenti172. Trasferitosi a Firenze, egli viene accolto dal granduca Francesco I. Inoltre egli ha modo di frequentare alcuni nobili genovesi e sin dai primi mesi del suo soggiorno ottiene varie commissioni, tra le quali, nel 1582, grazie a Niccolò Gaddi, l’esecuzione dell’affresco con il Miracolo di Santa Caterina da Siena nel chiostro grande di Santa Maria Novella, a Firenze. Tra l’ottobre 1590 e il febbraio dell’anno seguente egli rientra in Liguria e viene ospitato e gode della protezione di Giovanni Andrea Doria e di Zenobia Doria dei Carretto173. Doria è un grande mecenate delle arti nella seconda metà del Cinquecento ed erede di Andrea Doria, di cui si è parlato nel primo capitolo.

In quello stesso anno il pittore esegue il Martirio di Sant’ Andrea su commissione del principe Doria per la chiesa di Sant’Agostino a Loano.

Negli anni novanta del Cinquecento ritorna in Toscana e realizza, ad esempio, l’Annunciazione conservata nella chiesa di Santo Stefano e Niccolao a Pescia, in provincia di Pistoia. Nel 1599 Paggi rientra definitivamente a Genova, pur mantenendo ancora stretti rapporti con la committenza toscana174.

172 Una vicenda molto interessante è quella legata agli anni Ottanta del Cinquecento. Come racconta il Soprani, nel 1581, condannato «a perpetuo bando», a causa dell’omicidio, per legittima difesa, di un nobile, fuggì prima ad Aulla, in Lunigiana, e poi a Pisa, dove conobbe Isabella d’Appiano, principessa di Piombino, che contribuì a introdurlo alla corte fiorentina di Francesco I. Per loro il pittore dipinge molte opere, tra cui il Compianto di Adone

morto.

173 Nel 1550 vengono già definiti i termini del contratto matrimoniale con Zenobia, figlia di Marcantonio Doria Dei Carretto, a sua volta figlio di Peretta De Mari Usodiniare, moglie di Andrea Doria.

174 Franco Renzo Pesenti, La pittura in Liguria. Artisti del primo Seicento, Genova, Stringa Editore, 1986, pp. 9- 30.

98 In quello stesso anno diventa membro della locale Accademia del Disegno. Una volta rientrato nella città egli svolge un ruolo importante nella diffusione delle pratiche accademiche175.

Nei primi anni del Seicento gli viene commissionata da Doria la pala con la Lapidazione di Santo Stefano per la cappella di Stefano Doria nella chiesa del Gesù, datata 1604 [Fig. 152]. Come sostiene lo studioso Franco Pesenti “l’opera risente delle influenze del Cigoli per le forme distese, la luce è calda e il colore sontuoso”176.

L’opera presenta varie similitudini con la tavola del Pippi. Non a caso le due pale si trovano a poche centinaia di metri l’una dall’altra e sicuramente il Paggi ha visto l’opera e ne ha colto la teatralità e drammaticità.

Confrontandole si può notare che l’artista genovese riprende la composizione bipartita su due livelli. Inoltre, il lapidatore sulla destra ha una posizione molto simile a quella del torturatore di Giulio e anche il personaggio in primo piano, di spalle, ha le braccia nell’identico modo del personaggio che ha gli occhi sbarrati nella pala di Giulio.

Il Paggi ripropone la dinamicità dell’opera precedente, grazie ai gesti così enfatizzati dei lapidatori, ma anche la drammaticità dell’evento, nonché la teatralità.

Quest’ultima viene espressa, in particolar modo, nella figura di Santo Stefano, rappresentato dal Paggi con uno sguardo quasi sofferente, con la bocca spalancata. Anche qua, medesima è la posizione e la dalmatica che veste il santo, rispetto alla tavola nella chiesa di Santo Stefano. Il paesaggio è simile a quello di Giulio: il Paggi riprende le rovine sullo sfondo, che, invece, nella sua opera sono le vere protagoniste.

Solo il lapidatore all’estrema destra sembra essere una “novità” e anche la composizione delle figure nella parte superiore del dipinto si differenza: tutto è più dinamico, come gli angioletti che stanno portando una corona di fiori al santo.

Esiste inoltre un disegno dell’artista genovese che raffigura la stessa iconografia [Fig. 156]. Si può supporre che sia uno schizzo precedente alla pala o un disegno preparatorio della stessa, anche se meno probabile, poiché le posizioni dei personaggi sono molto diverse.

175 Egli è inoltre protagonista della disputa dell’epoca riguardo il passaggio tra la bottega artigiana e l’accademia. Secondo quanto riporta il Soprani, questa ha inizio quando Paggi entra nell’Accademia, in quanto non avendo svolto i sette anni stabiliti dallo statuto presso una bottega, non poteva farvi parte. La corporazione avrebbe escogitato il modo affinchè la pittura fosse dichiarata “vile, sottoposta a consoli, e per conseguenza interdetta a’ nobili”. Ma il Paggi, rappresentato in Senato dal fratello e da chi lo appoggiava, riesce a vincere la causa e la pittura viene riconosciuta arte liberale. Da Viviana Farina, Giovan Carlo Doria. Promotore delle arti a Genova

nel primo Seicento, Firenze, Edifir, 2002, pp. 97- 98.

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