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UN CASO DI RAFFAELLISMO A GENOVA: LA LAPIDAZIONE DI SANTO STEFANO DI GIULIO

2.4.1. Descrizione della tavola

Oggi la tavola, di grandi dimensioni, 403x288, è collocata sopra una mensola recante lo stemma cardinalizio del committente Giberti, lungo la parete destra della chiesa di Santo Stefano [Fig. 64]. Di fronte la tavola, sulla parete sinistra, si trova un’iscrizione recante l’elenco dei commendatari della chiesa, tra i quali lo stesso Giberti [Fig.64]. La datazione è tutt’ora incerta: oscilla tra il 1520, anno della morte di Raffaello, e il 1524, quando Giulio Romano va a Mantova per lavorare a Palazzo Te86.

La studiosa Farida Simonetti sostiene invece l’ipotesi che il dipinto sia stato fatto nel periodo di pontificato di Leone X. Hartt respinge quest’ipotesi in quando afferma che Giulio era troppo pieno di lavoro in quel periodo che non avrebbe potuto realizzare un’opera del genere. Quello che salta subito agli occhi è che la scena è scandita su due livelli, proprio come nella Trasfigurazione di Raffaello.

In alto vi è il Dio Padre e Cristo i quali, assieme ad una gloria d’angeli, assistono dal cielo al martirio del diacono, la cui figura, con gli occhi rivolti al cielo è isolata, in ginocchio, al centro della scena e contrasta con la violenza brutale degli aggressori. Fa da tramite tra il mondo terreno e quello divino, la figura di un giovane a sinistra che guarda verso l’alto mentre con la mano indica il martire: è la figura di Saulo, raffigurato come un giovane Apollineo [Fig.65]87. Nella parte sottostante, i lapidatori sono disposti in semicerchio, ribadito dal concatenarsi dei gesti di ognuno. Giulio carica in modo estremo le espressioni dei personaggi facendoli diventare quasi grotteschi, apparentemente indemoniati.

Vi è una ripresa palese con l’opera di Raffaello: il gesto del lapidatore all’estrema destra ricorda quello dell’invasato dell’opera del maestro [Fig.66,67].

86 Hartt sostiene invece che la data di realizzazione oscilli fra il 1522 e il 1523 circa, dal momento che, se nell’iscrizione riportata Giulio è ancora cardinale, di sicuro non era ancora stato eletto papa. Da Farida Simonetti,

La Lapidazione di Santo Stefano, in Raffaello e la cultura raffaellesca in Liguria, cit., pp. 23- 27.

50 Adolfo Venturi, inoltre, evidenzia una certa somiglianza dell’opera del Pippi con quella della Resurrezione di Lazzaro di Sebastiano del Piombo. Sono presenti lampeggiamenti sullo sfondo e, soprattutto, l’impostazione del paesaggio sullo sfondo dimostra che Raffaello abbia tratto ispirazione dall’opera dell’artista veneziano88.

La pittura di questa tavola è plastica, scultorea, con un forte accento chiaroscurale, nella quale si vedono chiaramente la resa tipica di Giulio, quasi “affumicata”, rimandando ad una riflessione su Raffaello, visibile nelle sue opere tarde e sull’opera leonardesca.

Sono presenti anche le rovine di una Roma imperiale, notturna, lampeggiante, chiaroscurale e meravigliosa. Queste rappresentano la basilica di Massenzio, un ponte sotto cui scorre, probabilmente, il Tevere e le parti restanti di Tivoli, il tutto animato da una luce quasi tempestosa [Fig.68].

La luce, fondamentale nell’opera del Romano, è sia diurna, quella che arriva dall’alto, e sia serale, caratterizzata da lampeggi e da luci e ombre.

Come spiega la studiosa Sylvia Pagden “l’esposizione della vicenda è complicata, ricca di toni eccessivamente drammatici”. “Giulio impiega tutti i mezzi a sua disposizione: la rappresentazione visiva e la comunicazione narrativa. Egli pone in contrasto la nobile santità del martire con le fisionomie distorte fino al grottesco dei suoi crudeli e ignobili tormentatori, introducendo una sorta di caricature” [Fig.69].

Le facce sono contorte in smorfie odiose, il ventre sporgente e il corpo deforme, tutti uniti in una smania omicida. Egli spezza i limiti del decorum fino allora osservato nella rappresentazione della sofferenza e omicidio e preannuncia i cruenti quadri di martirio dell’epoca barocca89.

La tavola supera i limiti di quanto era visivamente accettabile e ammissibile, soprattutto all’interno di una chiesa.

Gombrich ha suggerito che la tavola ricorda la Sala dei Giganti a Palazzo Te: il dipinto sembra avvolgere lo spettatore, proprio come avviene a Mantova, facendolo diventare partecipe della vicenda90. Se questo era davvero l’intento, il destinatario dell’opera si trova a completare il semicerchio e a diventare anch’esso un lapidatore91.

Egli sostiene addirittura che la pala rappresenta la trasposizione della Sala dei Giganti in chiave religiosa.

88 Simonetti, cit. p. 24-27.

89 Sylvia Pagden, cit., da Hartt, pp. 76-77.

90 Jurg Meyer Zur Capellen, Raphael. A critical catalogue of his paintings. The roman religious paintings, Michigan, Argos, 2001, pp. 230-235.

51 Queste rappresentazioni sono terribili ed angoscianti, sfiorano quasi il patologico. Egli sostiene che “identico è il modo in cui si chiude attorno al Santo accasciato a terra il cerchio dei carnefici minacciosi, che dopo poco lo colpiscono con delle pietre. Uguale è la maniera con cui il cielo si squarcia per partecipare inorridito a quella scena crudele”92.

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2.4.2. Il viaggio dell’opera al Museo Napoléon

Durante l’età napoleonica, precisamente nell’aprile del 1812, il dipinto viene trafugato dalla chiesa di Santo Stefano e viene portato in Francia per essere esposto al museo voluto da Napoleone93.

In questi anni Baratta è nominato conservatore del museo ed è incaricato di eseguire delle indagini su alcuni dipinti conservati nei palazzi di famiglie aristocratiche di Genova. Nel 1811 compare sulla scena genovese Dominique- Vivant Denon, che dal novembre 1803 è direttore del museo di Parigi94. Egli appoggia la nomina di Baratta a “conservatore” e vuole che la collezione si arricchisca di opere d’arte. Egli, per esempio, ordina il trasferimento di alcuni dipinti dagli uffici pubblici al deposito dell’ex convento di San Filippo e fa redigere un inventario per registrare tutti i quadri appartenuti agli oratori soppressi. Denon ha concentrato l’attenzione sulla pittura genovese del Seicento ma il primato lo aveva per le opere di scuola toscana come la pala di Lippi nella Cappella Lomellini con San Sebastiano, Giovanni Battista e Francesco del 1503. L’interesse è anche per le statue e i bassorilievi. Tra le opere portate in Francia possiamo ricordare i Quattro Dottori della Chiesa di Pier Francesco Sacchi, il Compianto sul Cristo morto e l’Ultima cena del fiammingo Joos van Cleve95.

La ricerca di Denon continua ed egli recupera anche l’Adorazione dei Pastori di Bernardo Fasolo e il San Giorgio e il Drago del Sacchi. Denon fa acquistare inoltre il Trittico della Rovere di Giovanni Mazone, dal prefetto di Savona Chabrol de Volvie presso i fratelli Niccolò e Domenico Grillo Cattaneo. Egli acquista anche il Trittico con l’Annnunciazione e i santi attribuito a Carlo Braccesco.

La Lapidazione di Santo Stefano non manca a questo appello.

93 Dapprima il museo di chiama Musée Central des arts, successivamente, nel 1802 viene ribattezzato Musée Napoléon.

94 Dominique de Vivant Denon è un diplomatico, incisore, scrittore, vissuto a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento. Compie missioni a Pietroburgo, in Svizzera, in Italia, aderì alla Rivoluzione. Diventa barone e dal 1804 alla Restaurazione è direttore generale dei Musei; come tale fu il primo organizzatore del Louvre. Notevole la sua raccolta di opere d'arte, poi dispersa, di cui si ha il catalogo illustrato pubblicato postumo (Monuments des arts du

dessin chez les peuples tant anciens que modernes, 1829). Fa anche disegni per monete e medaglie ed segue

numerose incisioni e litografie, specialmente di riproduzione, raccolte nel 1873. (http://www.treccani.it/enciclopedia/dominique-vivant-de-denon/ ).