• Non ci sono risultati.

UN CASO DI RAFFAELLISMO A GENOVA: LA LAPIDAZIONE DI SANTO STEFANO DI GIULIO

2.4.3. Vicende relative alla cornice

Come già detto nei paragrafi precedenti, la cornice viene perduta durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale [vedi Fig. 48,49]. Originariamente l’opera è collocata nell’abside della chiesa e deve decorare l’altare maggiore. Questa è inserita all’interno di una cornice monumentale in legno, intagliata e dorata. A questo proposito è utile rivedere un passo di Carlo Giuseppe Ratti, presente nella sua guida del 1768.

Descrivendo le pitture della chiesa di Santo Stefano egli afferma che:

Più di tutte merita di essere ossevata quella dell’altar maggiore locata entro un nobile ornato […] sopra tal quadro si vede lo stemma de’ Medici col triregno, e le chiavi, e sotto questa iscrizione: Leonis X P. M. Fratisque Julj Cars. Medices beneficio templo Praef.98.

Nel 1812 il dipinto viene trasferito a Parigi nelle collezioni del Museo Napoléon. Ne vengono tratte una serie di incisioni destinate a far parte della biblioteca imperiale. Ne Le Osservazioni storiche sul quadro di Giulio Romano rappresentante la lapidazione del Protomartire di Santo Stefano, queste incisioni vengono pubblicate a margine dell’opera e si dice che il dipinto è “situato […] all’altar maggiore fra de eleganti colonne dorate, ed intagliate alla raffaellesca”99.

Caduto l’impero napoleonico, la tavola rientra a Genova nel 1816 e viene ricollocata nella sua cornice originaria. Federico Alizeri, infatti, nella sua Guida artistica del 1846 la descrive così: gli ornamenti originali ch’essa conserva, ideati a decorazione del quadro sul bello stile bramantesco […] dacchè la cupidigia delle novità seppur tiene conto de’ dipinti, rare volte rispetta le cose accessorie100.

Come sostiene la studiosa Maddalena Vazzoler, questi testi erano le uniche testimonianze dell’esistenza della cornice. La precisa fisionomia è pervenuta grazie ad un disegno ottocentesco che raffigura come doveva essere la cornice che inquadrava la Lapidazione.

98 Carlo Giuseppe Ratti, Instruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova in pittura, scultura ed

architettura, Genova, Ivone Gravier Editore, 1780, p. 76.

99 Il fascicolo è redatto da Domenico Delpino e Giuseppe Piaggio. Datato 1813 è composto da tre tavole di incisioni, la prima rappresenta Il padre e il San Salvatore, la seconda Saulo e la terza Teste di lapidatori e angeli. Da Maddalena Vazzoler, Locata entro sodo e maestoso ornamento. Un disegno ottocentesco per la cornice della

lapidazione di Santo Stefano di Giulio Romano, <<Studi di storia delle arti>>, Genova, De Ferrari Editore, 2003,

pp. 251-257. 100 Alizeri, cit.,

55 Questo è stato eseguito con inchiostro nero, acquarello su carta azzurrognola sottilissima101

[Fig. 70].

Tre relazioni redatte nell’aprile del 1812, al momento del trasferimento della tavola a Parigi, affermano che l’opera del Pippi, composta da diverse tavole, è attaccata dalla presenza di insetti e presenta visibili sollevamenti dello strato pittorico102. Questa è incastonata all’interno di una cornice in legno che misura circa nove metri di altezza e cinque di larghezza103.

C’è una possibilità che durante la separazione del dipinto dalla cornice sia avvenuto lo smembramento delle diverse tavole che componevano l’opera e la conseguente distruzione della cornice.

La Vazzoler sostiene che il disegno ottocentesco possa essere di mano di Carlo Baratta per il fatto che anch’egli era solito utilizzare la carta azzurrognola. Il carattere documentario del disegno fa pensare però, che sia difficile la paternità del Baratta104.

Osservando il disegno si può dedurre che l’opera era abbellita da una preziosa cornice a motivi decorativi, la quale era inserita tra due colonne tortili monumentali, terminanti in capitelli corinzi. Ciascuna poggiava su un piedistallo e sorreggeva un architrave all’interno del quale vi stava l’iscrizione “LEONIS X. P. M. FRATISQUE JULII CARD. MEDICES BENEFICIO TEMPLO PRAEF.”.

Al di sopra vi era un’altra iscrizione, la quale diceva “ ECCE VIDEO COELOS APERTOS”, che stava all’interno di un cartiglio ovale sorretto da due angeli105.

La data della realizzazione della cornice è incerta ma si suppone che corrisponda a quella della tavola, cioè intorno al 1520-21. La cornice sembra lontana dallo stile tradizionale ligure, essa sembra quasi rinascimentale. L’ideazione di uno spazio architettonico unitariamente concepito è ben lontano dai canoni stilistici degli artisti presenti in Liguria in questo periodo. La cornice rivela il fatto che ci sono dei richiami con l’arte romana, classicheggiante, e, probabilmente, questa può essere stata fatta in ambiente di cultura raffaellesca.

101 Il disegno è conservato nel fondo napoleonico dell’Archivio Storico del Comune di Genova, all’interno di un fascicolo intitolato Documenti relativi al quadro di Santo Stefano del pittore Giulio Romano trasportato a Parigi, conservati in A.S.C.G. Amministrazione decurionale, Impero francese, 311.

102 Le relazioni erano redatte da Carlo Alberto Baratta, responsabile del museo municipale e incaricato dell’invio delle opere genovesi a Parigi, Santino Tagliafichi, direttore uscente della scuola di pittura dell’Accademia Ligustica e Michele Cerruti, il quale lo aveva appena sostituito.

103 La cornice misurava trentasei palmi genovesi di altezza e venti di larghezza. Da Pietro Rocca, Pesi e misure

antiche di Genova e del Genovesato, Genova,Topografia istituto sordo muti, 1871, p. 106. 104 Maddalena Vazzoler, cit., p. 252.

105 Quest’iscrizione si riferisce alla frase che Stefano dice poco prima del martirio, la quale è presente negli Atti

56 Si può ipotizzare che il disegno della cornice sia stato fatto da un artista che si è ispirato a Giulio Romano, guardando le opere prodotte a Roma o ,addirittura, che sia dello stesso artista che ha prodotto la tavola. Si ricordi, ad esempio, il dipinto della Circoncisione, attribuito proprio al Pippi da Tommaso Vincidor e datato al 1518 [Fig.71]. L’impianto architettonico entro cui è rappresentato l’evento sacro è studiato come un atrio in cui sono protagoniste le enormi colonne tortili, le quali sembrano anticipare quasi le opere prodotte nel periodo barocco.

Come mostra il disegno della cornice, le colonne somigliano molto a quelle raffigurate da Giulio nel dipinto della Circoncisione, oggi conservato al Louvre: sono spiraliformi e presentano sulla cima dei capitelli corinzi molto simili a quelli del disegno ottocentesco. Questo motivo è tratto dalle colonne tortili tardo antiche di San Pietro e dalla reinterpretazione raffaellesca della Guarigione dello Storpio del 1515-16106[Fig.73]. In particolar modo il cartone con il medesimo soggetto per l’arazzo per la Cappella Sistina potrebbe essere una fonte a cui ha attinto l’artista.

Giulio Romano o un artista minore della stessa cerchia potrebbe aver visto il cartone ed aver preso spunto proprio da quest’ultimo: infatti nella Guarigione due colonne, al centro della composizione, inquadrano la scena e questo stesso inquadramento ricorda quello del disegno ottocentesco. Non si esclude l’ipotesi che il disegno sia stato fatto da un artista locale che ha visto il cartone, o la sua copia, anche se molti elementi fanno pensare che sia stato fatto da un artista a Roma e non a Genova.

Altro esempio può essere la Donazione di Costantino, un affresco facente parte della Sala di Costantino in Vaticano [Fig. 74].

L’opera è attribuita a Giulio e forse fu aiutato dal Penni e da Raffaellino dal Colle. La scena è ambientata all'interno di un edificio che ricorda l'antica basilica di San Pietro, con la lunga navata paleocristiana in prospettiva, l'abside decorata da mosaici e la tomba dell'apostolo Pietro con quattro colonne tortili in fondo davanti l'altare. In secondo piano, dietro una serie di personaggi che hanno il compito di dirigere l'occhio dello spettatore in profondità, si svolge la scena della donazione. Il papa, seduto sulla cattedra, riceve dall'imperatore una statua dorata della dea Roma.

106 La colonna tortile è una colonna ritorta, cioè attorcigliata in spire lungo l’asse verticale. Costantino fa collocare questi elementi nella basilica della sepoltura di Pietro. Da quel momento le colonne diventano protagoniste dell’architettura moderna con una funzione commemorativa. Il modello simbolico originario risale al tempio di Gerusalemme, eretto dal re Salomone. Dopo una breve ricomparsa nel periodo del romanico, questo tipo di colonna ricompare nel Cinquecento con Raffaello e Giulio Romano. Da Francesco Moschini, Le colonne tortili in San

Pietro, da Antonio Labalestra (a cura di), in <<Singularis in singulis. Collana di architettura>>, Taranto, Antonio

57 Ai lati si trovano i papi Gregorio Magno e Silvestro I. Lo spazio ridotto, legato alla presenza delle finestre, non consentì l'inserimento di figure allegoriche. Sopra le finestre si trovano putti che reggono anelli di diamante, emblema araldico dei Medici. Proprio le colonne tortili sono le protagoniste dell’architettura entro cui è inserita la scena.

E’ ipotizzabile il fatto che Giulio Romano, mentre stava lavorando a questo affresco, abbia anche ideato la cornice per la pala: se si osserva l’opera, sullo sfondo si possono vedere due colonne che incorniciano l’altare, proprio come fanno quelle nel disegno ottocentesco con la tavola di Genova [Fig.75].

Sulla base di queste osservazione si può ipotizzare che il disegno della cornice sia stato ideato da Giulio Romano o da un suo allievo in un periodo compreso tra il 1521 e il 1522107. Si può inoltre ipotizzare che il disegno della cornice, così come quello della scena rappresentata all’interno, sia dello stesso Raffaello. Per questo è da notare l’estrema somiglianza del particolare della cornice interna dal disegno ottocentesco con quella dell’Estasi di Santa Cecilia, di cui si sa con certezza che l’autore sia proprio Raffaello.

Si tratta di una cornice lignea dorata, “fioritissima”. E’ sorprendente la somiglianza dei racemi e dei motivi vegetali. Si può ipotizzare, perciò, che il disegno della cornice per la pala di Santo Stefano sia stato fatto dal maestro urbinate negli ultimi anni della sua vita, dopo la commissione da parte del Giberti.

L’arrivo della tavola, come già detto in precedenza, avvia l’elaborazione di un nuovo linguaggio pittorico, anche se alcuni artisti rimangono tradizionalisti (questo tema verrà ripreso nel terzo capitolo). La cornice viene presa a modello per i lavori dei secoli successivi. Un esempio possono essere gli altari all’interno della Chiesa del Gesù a Genova, per le colonne tortili e lo stile romano, tendente al barocco108.

107 Queste ipotesi sono fatte da me sulla base della lettura degli scritti a proposito della cornice e delle osservazioni sulle opere e i disegni di Raffaello e, in particolare, di Giulio Romano.

58

2.5. Il ruolo di Raffaello nell’esecuzione dell’opera

Autore e committente dell’opera si confondono nel tempo, soprattutto nelle cronache locali o negli scritti del Cinquecento. Quando l’opera arriva a Genova viene attribuita a Raffaello, anche se con la collaborazione di Giulio Romano, come nel caso delle descrizione del Rainaldi e di Federici.

Bartolomeo Rainaldi la descrive così:

Vi è la mano sinistra di S. Stefano Protomartire, donatale insieme con l’ancona dell’altare maggiore, che è parte di Giulio Roman, e parte di Raffaele d’Urbino, dal predetto Gio: Matteo Giberti, che l’aveva avuta da Leone X e da Giulio Cardinale de Medici.

Federico Federici fu Cristoforo afferma, invece, che:

L’Ancona maggiore è Opera di Raffael e da Urbino, cominciata, e finita da Giulio Romano ad istanza del Card(inal) e de Medici, e di Gio. Matteo Giberti di cui era quest’Abbazia.

Come detto in precedenza, è il Vasari ad attribuire per primo la tavola proprio a Giulio Romano. Federico Alizeri nella sua Guida illustrata per il cittadino della città di Genova parla della tavola:

[…] se prima non si discopra al nostro avido sguardo l’insigne tavola di Giulio R omano che sorge isolata in sé sull’altare, superba e magnifica […] Già morto Raffaello l’elezione non poteva esser dubbia; ed è noto in qual grazia fosse Giulio e presso il Datario e presso la Santità di Clemente. [..] intanto è noto che la gran tavolo non fu regalata che intorno al 1530 e sappiam dal Vasari che il Pippi s’affaticò intorno ad essa quanto forse non fece in altra opera. Al qual giudizio echeggiò in certa guisa un errore di volgo, che ascrive niente men che a Raffaello questa parte del quadro, con aperta mentita alla ragione negli anni. D’altro canto chi è punto sottile a conoscer nell’arte, non mette divario fra quel ch’è sommo della mirabile istoria, e quel che mostrasi in basso, ove il volto ed ogni atto del Protomartire han tanto di soavità da ricordar quel divino, e ‘l feroce agitarsi dè lapidatori è un compendio della dottrina onde salì quella scuola al primato della pittura italiana109.

Quando la tavola arriva a Genova inizialmente viene attribuita a Raffaello, solo successivamente l’opera è considerata frutto del lavoro di Giulio Romano.

109 Federico Alizeri, cit., pp. 306-307.

59 Come già accennato prima, l’opera di Giulio riporta continui rimandi alla Trasfigurazione raffaellesca, ma già il soggetto della Lapidazione di Santo Stefano aveva impegnato il maestro urbinate.

Nel 1515 Leone X incarica Raffaello di dipingere una serie di dieci cartoni per la realizzazione degli arazzi che avrebbero decorato la Cappella Sistina durante le cerimonie solenni. Tra questi soggetti vi è anche una Lapidazione di Santo Stefano.

L’urbinate li realizza e in poco tempo vengono spediti nelle Fiandre nella bottega di Pieter van Aeslt. Uno è già pronto nel 1517, altri arrivano nel 1519 e due anni dopo arrivano quelli mancanti. I cartoni rimangono a Bruxelles e vengono utilizzati per svariate serie di arazzi che vengono vendute in tutta Europa. Confrontando l’arazzo con la Lapidazione [Fig. 75] e la tavola di Giulio Romano, si può notare che la posizione di Saul, così particolare nel divaricarsi delle membra, e la relazione tra questa e il Santo sono uguali, anche se ribaltate. È diversa, invece, la distribuzione dei lapidatori che nella tavola di Giulio è circolare con le già notate assonanze rispetto alla Trasfigurazione.

Ci sono punti di contatto anche con un disegno della Lapidazione di Raffaello conservato all’Albertina di Vienna [Fig.76]. La soluzione in esso proposta, scartata per la versione definitiva dell’arazzo, sembra recuperata nella tavola di Giulio che conferisce, però, delle fisionomie aggressive alle figure che circondano il santo, come possiamo notare dal cartone preparatorio, ora alla Pinacoteca Vaticana. Qui il tratto non è appesantito da quelle “ombre nere” tipiche del pittore, ma il suo stile si coglie in tutta la sua drammatica e sfrenata carica che già si coglie nella Sala di Costantino. Secondo lo studioso Konrad Oberhuber in questo disegno le nuove proporzioni e i movimenti ampi e misurati sono ben evidenti e Raffaello studia attentamente dal vero tutte le sequenze motorie. Da una parte la deposizione delle vesti, dall’altra il lancio delle pietre. Si può notare nel disegno l’atteggiamento umile di preghiera di Stefano che, con lo sguardo rivolto verso Dio, si sottopone al martirio. Raffaello delinea nettamente i contorni, accentua il fluire dei movimenti, ma ogni lapidatore resta saldamente ancorato al terreno e agisce di propria volontà. In questo disegno la composizione non convince del tutto l’artista: si contrappongono i lapidatori a destra ad un gruppo che sta fermo, a cui piedi è seduto Saul. Sicuramente questo studio anticipa alcuni elementi essenziali della composizione finale in Santo Stefano110.

110 Konrad Oberhuber, Lo stile classico di Raffaello e la sua evoluzione a Roma fino al 1527, in Roma e lo stile

60 Secondo Zur Capellen un’altra fonte molto importante per capire il ruolo assunto da Raffaello nella tavola di Genova è una copia seicentesca di un anonimo di un bozzetto di Raffaello [Fig. 77] che riprende il soggetto del cartone preparatorio. La studiosa Sylvia Ferino Pagden sostiene che questo studio apparteneva in origine alla composizione, ma che il primo abbozzo è da attribuire a Raffaello.

Un confronto con la Trasfigurazione dimostra un rapporto molto simile tra spazio e personaggi, ma nella tavola di Giulio viene modificato quasi completamente111.

Rispetto al bozzetto di Raffaello, il dipinto dell’allievo è più ambizioso, quasi “irrequieto”, nervoso e frammentario.

Un altro disegno attribuito a Raffaello può essere fondamentale per capire il contributo del maestro urbinate alla Lapidazione: lo studio di nudo maschile, detto anche il Tormentatore, conservato a Windsor [Fig.78]. Quest’ultimo ricorda un Marsia contenuto all’interno del Libretto di disegni di Raffaello per la somiglianza nella visione tergale e nella posizione delle gambe[Fig.79]. Quindi Giulio riprende lo stesso schema di Raffaello ma, a differenza di quest’ultimo, i tormentatori nel quadro di Giulio, isolano Santo Stefano, e sono disposti a semicerchio alle sue spalle. Sicuramente vi è più drammaticità rispetto al bozzetto di Raffaello. Ha molta importanza anche il cartone preparatorio della Lapidazione [Fig.80]: secondo recenti studi di Capellen e Fritz si è notato che il cartone è composto da due fogli diversi. Sembra che il cartone sia stato iniziato quando Raffaello era ancora vivo e che Giulio abbia lavorato alla parte inferiore dello stesso.

Un documento del marzo 1544 attesta che un anonimo ha visto un cartone con la Lapidazione di Santo Stefano112. Sherman sostiene che la commissione del quadro, infatti, sia avvenuta nel 1519 e proprio a Raffaello. Facendo riferimento anche allo studio di nudo con una pietra in mano conservato a Windsor si può pensare che Raffaello possa essere davvero un precursore per la realizzazione della tavola di Giulio Romano e che quest’ultimo abbia ripreso la figura tergale proprio dagli studi del maestro.

Si può ipotizzare che un disegno per la Strage degli Innocenti, appartenente al periodo romano 1509-10, sia un’anticipazione dei movimenti e della drammaticità delle figure dipinte dal Pippi: il personaggio in primo piano ricorda Saul per la posizione e il gesto della figura all’estrema sinistra ricorda quello del lapidatore all’estrema destra [Fig. 81].

111 Hartt, cit., p.94.

112 “In bottega d’uno pittore vidì di mano di Rafaelo da Urbino uno charttone, che è la lapidazione di Santo Sttefano, e di sopra una aparigione d’uno Dio Padre e Iesu; e la ttavola d’eso dichano esere a Genova […]”. J. Sherman, Raphael in early modern sources, vol. II, pp. 933-934.

61 I riferimenti al maestro nella tavola genovese culminano grazie a una delle ultime opere realizzate da Raffaello: la Trasfigurazione, considerata una sorta di testamento del maestro[Fig.82, 83]. Oltre all’impostazione bipartita, che troviamo in entrambe le tavole, con una parte divina in alto ed una terrena in basso, si può notare studiando le singole figure, un cambiamento nello stile raffaellesco, meno aulico e più aggressivo, ed un avvio verso il protobarocco per quanto riguarda lo stile di Giulio Romano.

Numerosi sono i disegni e i particolari della Trasfigurazione che rimandano alle espressioni così piene di forza della Lapidazione. Oltre al già accennato rimando ai movimenti del lapidatore di destra con quelli dell’indemoniato dell’opera raffaellesca, si può notare una similitudine evidente tra la posizione del Saul e quella dell’evangelista Matteo: entrambi stanno seduti nella medesima posizione e hanno il braccio destro alzato [Fig. 84,85]. Per quanto riguarda le espressioni dei personaggi, si possono mettere a paragone quelle del lapidatore sulla destra, il quale sta scagliando con l’aiuto delle braccia una pietra su Stefano, e quella del padre e dell’indemoniato [Fig. 86,87]. Il primo è la figura più caricaturale di tutta la composizione: il personaggio con gli occhi sbarrati, fissi sul martire e la bocca aperta, lo fanno sembrare quasi un indemoniato. Anche il padre ha gli occhi fissi sul gruppo di personaggi che sta davanti a lui, mentre il figlio ha la bocca aperta. Il lapidatore sembra una sorta di fusione tra le due figure della Trasfigurazione.

La posizione di Stefano, inoltre, ricorda quella di Mosè inginocchiato con le braccia aperte che guarda Cristo [Fig.88,89]. Nella tavola di Giulio il martire è più drammatico e quasi teatrale: è il protagonista della scena. Un disegno appartenente al Libretto veneziano, una raccolta molto importante di disegni di Raffaello, raffigura una testa di uomo che guarda all’insù [Fig.90]. Si potrebbe ipotizzare che sia uno studio per il Mosè o, addirittura, per il martire, che successivamente Giulio rielabora rendendolo più drammatico.

Nella Lapidazione il Pippi raggiunge straordinari risultati cromatici. Da notare sono, ad esempio, passaggi sfumati fino al bianco, forti cangiantismi, come nella veste di Saul e accostamenti violenti. La studiosa Farida Simonetti sostiene che il modo di usare il colore può