Il concetto di fragilità ha fatto la sua comparsa in tempi relativamente recenti, solo a partire dal 1978, quando Charles F. Fahey e il Federal Council on Aging lo utilizzarono per la prima volta per riferirsi alle persone anziane fragili (Hogan et al., 2003).
Da quel momento il tema della fragilità ha cominciato ad ottenere una crescente attenzione arrivando oggi ad essere rilevante nel campo della ricerca sull’invecchiamento, delle politiche sanitarie e dell’assistenza nei confronti delle persone anziane.
Nel campo della ricerca, la concettualizzazione della fragilità si è sviluppata particolarmente in ambito sanitario dove il tema è stato orientato e affrontato principalmente alla luce del dominio fisico del funzionamento umano (Levers, 2006).
Nonostante la centralità guadagnata nel tempo dal tema, il significato del concetto di fragilità è ancora oggi al centro di un acceso dibattito. Attualmente, infatti, non esiste consenso verso un’unica definizione concettuale e operativa di fragilità riconosciuta a livello internazionale (Dent et al., 2016; Rodriguez-Manas et al., 2013;
Gobbens et al., 2010a; Marcon et al., 2010; Karunananthan et al., 2009). È significativo sottolineare come il disaccordo si muova su un doppio binario e riguardi l’assenza di una definizione di fragilità uniformemente condivisa da parte degli studiosi e, parallelamente, la mancanza di criteri operativi univoci e chiari per l’identificazione della stessa da parte di ricercatori e professionisti.
Le motivazioni per cui è complicato definire cos’è la fragilità sono essenzialmente da attribuire al significato ambiguo che connota il termine stesso, alla sua complessa eziologia e a come il lavoro di conoscenza del tema viene condotto da parte dei ricercatori (quest’ultimo punto verrà approfondito nel corso del paragrafo 1.5).
Il fatto che non vi sia accordo su cosa significhi il termine fragilità ha contribuito a renderlo sfuggente (Kaufman, 1994) e a produrre dissonanze semantiche oltre che interpretazioni contraddittorie e fuorvianti di questo concetto (Mudge & Hubbard, 2018).
Questa mancanza di chiarezza riguarda frequentemente i termini di invecchiamento, comorbilità, disabilità e non autosufficienza che vengono accostati o sostituiti a quello di fragilità dai quali, tuttavia, esso è concettualmente distinto (Kojima et al., 2019) se pur strettamente correlato (Dent et al., 2016).
Passando questi concetti brevemente in rassegna, possiamo innanzitutto affermare che, sebbene la fragilità aumenti con il passare degli anni, essa si verifica indipendentemente dall’età cronologica (Clegg et al., 2013). L'età cronologica da sola si dimostra quindi un indicatore approssimativo della fragilità di una persona anziana poiché il processo di invecchiamento cambia da persona a persona e non implica
necessariamente la presenza di condizioni di salute negative. La fragilità, al contrario, rappresenta un indice della gravità del processo di invecchiamento in corso in una persona (Gobbens, 2010).
La comorbilità è intesa come presenza in una persona anziana, durante il processo d’invecchiamento, di due o più patologie e può essere considerata antecedente alla fragilità (Kojima et al., 2019; Fried et al., 2004).
Per quanto concerne la distinzione con il concetto di disabilità, la fragilità si riferisce a una situazione caratterizzata da instabilità e rischio per la perdita di una o più delle proprie funzioni mentre la disabilità rimanda a una condizione di conclamata dipendenza, evidente nell’impossibilità di svolgere le attività di base necessarie per la vita quotidiana (descritte dagli indicatori di Basic Activites of Daily Living, BADL) o le attività strumentali della vita quotidiana che garantiscono la completa e autonoma gestione delle proprie esigenze (descritte dagli indicatori di Instrumental Activites of Daily Living, IADL).
La fragilità per queste ragioni è riconosciuta come una fase preliminare, di pre-disabilità e la disabilità una sua diretta conseguenza (Kojima et al., 2019). La difficoltà a svolgere le azioni ricorrenti della vita quotiana e la necessità di ricevere assistenza sono i tratti che accomunano anche le definizioni attualmente esistenti di non autosufficienza che tuttavia attribuiscono a questo termine una valenza prevalentemente statistica (Giarelli, 2019).
Un ultimo termine frequentemente affiancato al concetto di fragilità è quello di vulnerabilità. La vulnerabilità è più facilmente sovrapponibile al concetto di fragilità sociale intesa come una perdita di relazioni sociali (mancanza di un partner o di un confidente fidato, mancanza di sostegno, scarso coinvolgimento nella propria famiglia, nel vicinato e nelle reti sociali) che potenzialmente conducono all'isolamento (Van Campen, 2011) o a difficoltà nello svolgere attività sociali (Bunt et al., 2017). In questo senso la fragilità porta quindi a una situazione di marginalità e impotenza sociale (Giarelli, 2019).
La fragilità in questo senso può essere letta come assenza di benessere relazionale, laddove la relazione costituisce un peculiare modo di intendere la pluralità di componenti che contribuiscono a realizzare la condizione di fragilità (Bramanti, 2022b).
Accanto all’elaborazione di differenti definizioni di fragilità, gli studi e le ricerche hanno articolato la propria riflessione sul tema prendendo in considerazione i fattori predittori, ovvero quegli elementi che preludono e sono determinanti per l’insorgenza di una fragilità futura (Ding, et al., 2017). Come premesso, anche per quanto riguarda i fattori di rischio che influenzano lo sviluppo di una condizione di fragilità si riscontra un’assenza di consenso in letteratura; gli studi che sono stati condotti nel tempo hanno evidenziato un’associazione tra fragilità e fattori sia fisici che psicologici e sociali. Rispetto ai primi, i fattori che è stato dimostrato influenzino la fragilità sono: l’età avanzata (Fallah et al., 2011), il genere femminile (Etman et al., 2012), la presenza di malattie croniche (Strawbridge et al., 1998), sottopeso, sovrappeso o obesità (Woods et al., 2005), fumo (Woods et al., 2005) e forte consumo di alcol (Strawbridge et al., 1998). Tra i fattori psicologici e sociali connessi alla fragilità si possono invece riscontrare depressione
(Ottenbacher et al. 2009) e bassi livelli di reddito e istruzione (Etman et al., 2012; Syddall et al., 2010).
Accanto alle cause, nel tempo le ricerche condotte hanno inoltre messo in evidenza le conseguenze attribuibili a una condizione di fragilità. Nello specifico, la fragilità implica una progressiva perdita delle proprie funzioni che aumenta per le persone anziane il rischio di incorrere in esiti avversi per la propria salute quali: le cadute (Bilotta et al., 2012), il deterioramento cognitivo e la demenza (Auyeung et al., 2011), l’ospedalizzazione (Bilotta, et al., 2012; Boyd et al., 2005; Fried, et al., 2001), un maggiore utilizzo dei servizi sanitari (Rockwood, 2011), la disabilità (Romero-Ortuno, 2011), il rischio di istituzionalizzazione in strutture residenziali (Jones et al., 2005) e infine la morte (Shamliyan et al., 2013).
Nel dibattito internazionale la fragilità pur non presentando una lettura univoca, si dispone ad essere intesa come una condizione di maggiore vulnerabilità dell’individuo agli stress. L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la fragilità nei termini di un’estrema vulnerabilità a fattori di stress endogeni ed esogeni che espone un individuo a un rischio maggiore di esiti negativi per la salute (WHO, 2015, p. 227). Anche il Ministero della Salute del nostro Paese nella monografia “Criteri di appropriatezza clinica, tecnologica e strutturale nell’assistenza all’anziano” (2010) riconosce che la fragilità, comunque definita, è di gran lunga il fattore di rischio più importante per il decadimento funzionale sia fisico che cognitivo. Essere fragili significa dunque essere maggiormente a rischio di incorrere in una perdita funzionale e/o di autonomia (Monteduro et al. 2021).
Accanto a una visione della fragilità che pone l’accento sui rischi in cui incorrono le persone anziane fragili e che in inglese è resa con il termine fragility ve ne è tuttavia una che rimanda anche alla loro “preziosa debolezza”, alle risorse da esse possedute e che è espressa con il termine anglosassone frailty (Bramanti & Nanetti, 2022). Nel guardare a questa condizione non va quindi trascurato di promuovere una visione polisemica di fragilità in cui i due significati del termine vengono intesi in maniera complementare e delineano un’idea di fragilità non del tutto negativa (ibidem).
Oggi, in assenza di una definizione di fragilità ampiamente riconosciuta, coesistono diversi modelli concettuali di fragilità insieme ad un ampio numero di strumenti di misurazione della stessa.
Per quanto riguarda i primi, il dibattito oggi si divide tra l’adozione di un approccio biomedico alla fragilità, nel quale si colloca chi considera la fragilità come una perdita dal punto di vista del funzionamento fisico e un approccio bio-psico-sociale alla fragilità al quale fa riferimento chi considera la fragilità come una perdita oltre che nel funzionamento fisico, anche in quelli psicologico e sociale.
1.1.1 L’approccio biomedico
Come anticipato, la concettualizzazione di fragilità è stata affrontata prevalentemente da un punto di vista sanitario e i contributi scientifici qui sviluppati si sono focalizzati esclusivamente sullo studio delle determinanti fisiche di fragilità attraverso il ricorso a un approccio unidimensionale1 alla stessa.
Nell’ambito dell’approccio biomedico alla fragilità, il dibattito contemporaneo si è concentrato su due differenti interpretazioni concettuali di fragilità (Clegg et al., 2013):
il phenotype model e il cumulative deficit model.
Nel modello fenotipico (Fried et al., 2001) la fragilità è concepita come una sindrome fisiopatologica che viene definita a partire dalla presenza nell’individuo di alcune caratteristiche biologico funzionali che identificano un fenotipo specifico di fragilità. Quest’ultimo è caratterizzato da cinque variabili: lenta velocità nell'andatura, basso livello di attività fisica, perdita involontaria di peso, astenia e facile faticabilità, ridotta forza muscolare. In questo modello la fragilità è tale in presenza di tre o più dei cinque fattori precedentemente elencati mentre la pre-fragilità si ha in presenza di due degli stessi. Questo modello inoltre considera la fragilità separata dalla disabilità e dalla comorbilità.
Nel modello cumulativo (Mitnitski et al., 2001), la fragilità è definita come uno stato di rischio dato dal progressivo accumulo di deficit di natura funzionale e clinica che si verifica nel corso della vita. In questo modello, a differenza di quello precedente, la definizione di fragilità include disabilità e comorbilità. Nel modello cumulativo il numero dei deficit viene enfatizzato più della loro natura e da ciò ne consegue il fatto che la fragilità viene misurata attraverso un Frailty Index calcolato dalla somma di deficit accumulati dalla persona anziana e mediante l’utilizzo di scale che possono comprendere 70 items (Rockwood et al., 2005), 48 items (Kulminski et al., 2008) o anche 32 items (Kulminski et al., 2007).
Entrambi i modelli, fenotipico e cumulativo, con i relativi meccanismi di misurazione della fragilità, pur essendo diffusamente citati in letteratura sono ancora molto discussi (Clegg et al., 2013). Entrambe le misure da essi proposte sembrano infatti essere insufficienti per il loro utilizzo da parte dei professionisti: il modello fenotipico non copre tutte le dimensioni della fragilità e, di conseguenza, non fornisce indicazioni utili per la scelta e la pianificazione delle cure mentre il modello cumulativo propone uno strumento di misurazione della fragilità dispendioso in termini di tempo e per questo difficilmente integrabile nella pratica quotidiana (Apostolo et al., 2017). Oltre a queste specifiche criticità, più in generale, l’adozione di un approccio biomedico per affrontare la fragilità presenta importanti limiti. La principale critica che viene mossa a questo
1 I termini unidimensionale e biomedico utilizzati in queste pagine sono da considerarsi come sinonimi.
approccio riguarda il fatto di, concentrandosi esclusivamente sul dominio fisico di fragilità e sul concetto di patologia, perdere di vista l’individuo nel suo insieme (Gobbens et al., 2010a; Haealy, 2014). L’utilizzo di un approccio unidimensionale, infatti, non considera l’individuo come entità integrata (Folgheraiter, 1998), rinuncia a una visione olistica della persona e trascura che il suo benessere è determinato da altre dimensioni oltre a quella fisica e non necessariamente coincidente con l’assenza di malattia (Haealy, 2014). Da questa prima critica discendono numerose altre obiezioni: l’utilizzo di un approccio bio-medico alla fragilità espone la persona ad una frammentazione delle cure (Gobbens et al., 2010a); porta con sé il rischio di una medicalizzazione dei problemi con il ricorso inappropriato a giustificazioni mediche per ogni tipologia di problema emergente (Haealy, 2014); determina una distanza tra i professionisti e le persone attribuendo ai primi il ruolo di esperti (Fogheraiter, 2016; Haealy, 2014; Fogheraiter 1998); infine, può portare ad azioni discriminatorie e oppressive nei confronti delle persone fragili proprio a partire dagli aspetti connessi alle loro condizioni di salute (Haealy, 2014).
1.1.2 L’approccio bio-psico-sociale
Il progressivo riconoscimento da parte di alcuni studiosi che anche altre dimensioni della vita oltre a quella fisica influenzano in maniera significativa la condizione di fragilità, ha dato impulso per una comprensione della stessa secondo un paradigma integrato e multidimensionale2, comprensivo delle dimensioni fisica, psicologica e sociale di fragilità.
Nell’ambito dell’approccio bio-psico-sociale alla fragilità lo studioso della Tilburg University, Robbert Gobbens, è uno dei principali esponenti.
In questo paradigma la fragilità è definita come “uno stato dinamico che colpisce l’individuo che sperimenta perdite in uno o più domini del funzionamento umano (fisico, psicologico e sociale) che è causato dall’influenza di una serie di variabili e che aumenta il rischio di esiti avversi per la sua salute” (Gobbens, 2010). Qui la fragilità è un concetto multidimensionale, integrato e dinamico. In essa vengono infatti incluse tutte le dimensioni fisica, psicologica e sociale del funzionamento umano le quali, attraverso una complessa interazione tra di loro, influenzano e determinano il livello di fragilità. In questa definizione viene inoltre sottolineato l’andamento dinamico della fragilità che si sviluppa su un continuum compreso tra uno stato di fragilità e uno di non fragilità. Il posizionamento su di esso da parte della persona anziana fragile può essere modificato così come invertito mediante la sua transizione tra stati fragili. Questo aspetto riflette la mutevolezza della fragilità nel tempo e sottolinea come i fattori interagenti nel dominio fisico, psicologico e sociale siano parte, appunto, di un sistema dinamico complesso (De Vries et al., 2011). Rispetto al paradigma biomedico quindi, il paradigma bio-psico-sociale
2 I termini bio-psico-sociale e multidimensionale utilizzati in queste pagine sono da considerarsi come sinonimi.
utilizza un’accezione di fragilità più ampia e comprendente (Gobbens et al., 2012b) che guarda alla persona anziana nella sua interezza, nel suo funzionamento integrale.
In linea con una concezione multidimensionale, secondo Giarelli (Giarelli, 2019) la fragilità oltre ad una condizione fisica patologica, si caratterizza per una situazione di marginalità e impotenza sociale. Lo studioso applicando il processo di resilienza di Richardson (2002) al processo d’invecchiamento, mette infatti in luce come la fragilità implichi una riorganizzazione complessiva del rapporto fra la vita del soggetto e la propria condizione di salute che ruota attorno alla sua ridotta capacità di agency. In questo modello un evento stressante può portare a diversi esiti: una “reintegrazione resiliente”
quando l’individuo, attivando le sue capacità di coping, riesce ad accrescere le proprie qualità resilienti; una “reintegrazione con perdita” quando le strategie necessarie per far fronte all’evento stressante sono al di sopra delle possibilità di gestione del soggetto; una
“reintegrazione disfunzionale” quando si sviluppano comportamenti non adattativi, auto e/o etero-distruttivi; infine, un “ritorno allo stato di omeostasi” quando viene persa l'opportunità di crescita, con un rapido ritorno alla condizione iniziale senza che vi sia stato per l’individuo un rafforzamento della capacità di coping e delle proprie qualità resilienti. Nei casi di “ritorno all’omeostasi”, “reintegrazione con perdita” o
“reintegrazione disfunzionale” si determina una situazione di fragilità poiché il soggetto perde completamente o in parte la propria capacità di coping in virtù delle capabilities disponibili ed il suo livello di empowerment si riduce significativamente. Ciò provoca anche un effetto stigmatizzante dovuto al fatto che tale condizione è definita più che dal soggetto, dai suoi osservatori esterni (Giarelli 2019; Grenier, 2007) i quali possono contribuire a comprometterne il potenziale residuo di volontà di autonomia e indipendenza (aspetto che verrà ripreso e ulteriormente sviluppato nel corso del paragrafo 1.4).
Grenier amplia ulteriormente il discorso suggerendo di guardare alla fragilità attraverso la lente della precarietà (Grenier, 2020). Il concetto di precarietà, che ha cominciato ad essere utilizzato nel campo dell’invecchiamento solo in tempi recenti (Grenier et al., 2020) consente di rileggere il significato di fragilità spostando il discorso da una concezione individualizzata del rischio, inteso in termini biomedici e funzionali, a un riconoscimento della fragilità come esperienza umana. Il concetto di precarietà chiama dunque in causa forme inclusive di cittadinanza e corresponsabilità verso una comune vulnerabilità che può sostenere anche coloro che si trovano ad affrontare la quarta età e una demenza (Lloyd et al., 2017). Così intese precarietà e comune vulnerabilità si oppongono ad una interpretazione binaria di invecchiamento divisa tra esperienza di crescente fragilità da una parte e di invecchiamento produttivo e di successo dall’altra sventando peraltro il pericolo di un’attribuzione di colpe individuali e familiari di fronte a situazioni di dipendenza e bisogno.
L’adozione del filtro della precarietà attira l'attenzione anche su come condizioni sociali e sistemi politici alterati possono favorire risposte che approfondiscono le insicurezze, i rischi e le vulnerabilità tra gli anziani; i rischi associati al bisogno di cure
secondo Grenier sono infatti socialmente, culturalmente, economicamente e politicamente situati (Grenier, 2020; Grenier, 2005) e come tali accrescono la disuguaglianza tra persone anziane, con alcune maggiormente a rischio di insicurezze e bisogni insoddisfatti rispetto ad altre. In questo senso, le risposte dominanti alla fragilità diventano di fatto complici nel creare e sostenere condizioni di rischio e di insicurezza;
secondo la studiosa, nello specifico, mentre l'attenzione sugli aspetti strutturali della precarietà rivela le lacune assistenziali create da politiche neoliberiste e l'allontanamento da una responsabilità collettiva condivisa nei confronti dell’invecchiamento, l'attenzione sugli aspetti culturali evidenzia come tali risposte siano rafforzate da processi di svalutazione dell'età e alimentati dall'immaginario sociale della quarta età spesso rappresentata come età infruttuosa o fallita (Grenier, 2020).
L’utilizzo di un approccio olistico all’invecchiamento e alla cura delle persone anziane fragili viene raccomandato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (WHO, 2015) e anche fra gli studiosi c’è un consenso diffuso sul fatto che la fragilità debba essere osservata e compresa secondo un’ottica multidimensionale piuttosto che biomedica (Zhang, et al., 2020; Gobbens et al., 2017; Mulasso et al., 2016b; Sutton et al., 2016;
Marcon et al., 2010). Secondo numerosi autori, infatti, una definizione di fragilità bio-psico-sociale sarebbe molto più utile nella comprensione del declino dell’autonomia nelle persone anziane e nell’identificare quelle a rischio di eventi avversi per la propria salute;
essa, essendo più informativa di una limitata ai soli fattori fisici, è potenzialmente più efficace nella realizzazione di interventi di prevenzione della fragilità centrati sulla persona, in cui bisogni sanitari e sociali vengono affrontati in modo integrato (Liotta, et al., 2017; Collard et al., 2012). Una valutazione multidimensionale non solo permette di considerare la situazione in maniera olistica ma anche di svolgere un intervento più accurato a partire dai singoli domini funzionali in cui la fragilità si presenta (Mulasso et al., 2016b; Collard et al., 2012).
I limiti nell’utilizzo di un approccio bio-medico alla fragilità evidenziati nel paragrafo precedente e le osservazioni qui esposte a supporto dell’approccio bio-psico-sociale, fungono da base teorica per la scelta di quest’ultimo quale paradigma di riferimento per affrontare il tema della fragilità nelle persone anziane e individuare lo strumento di valutazione della stessa nella realizzazione della ricerca empirica (il cui impianto verrà presentato nel corso del terzo capitolo).