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CAPITOLO 2 IL RUOLO DELLE DONNE

3. DIFFERENZA VERSUS UGUAGLIANZA: NUOVE

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Rathbone (1925) riteneva che il percorso del movimento delle donne si stesse avviando verso una riproblematizzazione dei principali temi svincolati dalla semplicistica rivendicazione dell’uguaglianza. Nel primo femminismo i ruoli sociali maschili e femminili erano strettamente vincolati allo status come elemento rappresentante il livello di prestigio sociale. (Guerra, 2008). Nella lotta all’emancipazione tale assunto si dimostrò inefficace poiché il vincolo indissolubile tra i due elementi non permetteva alla donna, in virtù di una sedimentazione culturale che raccoglieva nella biologia femminile la storia della negazione del positivo maschile, di esercitare la propria capacità di essere un agente attivo nella costruzione del suo divenire, rinnovando la costrizione e precludendo il cambiamento. A tal punto apparve ovvio dover riprendere le discussioni teoriche sulla condizione della donna e gli schemi interpretativi assunti nel passato.

De Beauvoir in Secondo sesso (1949), fornisce un’interpretazione sulle motivazioni che hanno portato la donna a essere storicamente subordinata all’uomo in ogni dimensione sociale. Per la filosofa francese la donna assume un duplice ruolo: vittima e complice dell’uomo, come ogni individuo ella è libera e nessuno può

toglierle questo stato. L’autrice sostiene, provocatoriamente, che se la donna per lunghi anni ha mantenuto la sua posizione di subordinazione nei confronti dell’uomo è perché lei stessa ne ha accettato passivamente la condizione. Tuttavia tale stato non è immutabile e di certo non è imputabile alla sua condizione biologica ma è generato dal rapporto tra i due sessi. De Beauvoir anticipa in tal modo le posizioni delle future ricercatrici, rompendo gli schemi interpretativi del passato e spostando l’attenzione dallo stato di natura a quello di cultura. La donna per sottrarsi allo stato di subordinazione deve mediante una lotta collettiva ricontestualizzare il proprio ruolo, contrariamente a ciò che si riteneva sino ad allora, per l’autrice non esiste la neutralità del sesso, questa nuova teorizzazione si connota come rottura degli schemi passati secondo cui le femministe rivendicavano i propri diritti basandosi sul concetto di uguaglianza. Per la de Beauvoir i sessi sono diversi e si deve riconoscere tale differenza, ella sostiene che “ Donna non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna. Unicamente la mediazione altrui può assegnare a un individuo la parte di ciò che è Altro” (2004, p. 325). La donna non è reclusa al suo ruolo tradizionale ma essa si costruisce a partire da una situazione storica e quindi mutabile, in questo modo ella non è una realtà ma un divenire. L’essere della processualità permette alle donne di orientare la propria vita al di là dei confini storici passati e di volgersi verso l’autonomia progettuale per costruire nuovi percorsi

narrativi. L’essere donna, pertanto, non è rappresentabile solo mediante i dati biologici immutabili ma è un processo di libertà un divenire per sé. Il Secondo sesso è stato subito colto con grande interesse dalle attiviste politiche, e si pone come testo ispiratore delle principali pensatrici del secondo femminismo.

Con l’introduzione del tema culturale impostato da Simone de Bouvoir, si chiude lo sviluppo del movimento femminista. I temi che hanno dato avvio alla nascita di questo nuovo oggetto della sociologia con le connesse pratiche trasformative della società hanno esaurito la loro quota di legittimità. Da questo momento in poi la riflessione dei teorici si orienterà alla ricerca di quel fondamento perduto con la caduta del realismo naturalista e deterministico nato con lo spirito dell’Illuminismo.

Nella seconda metà del Novecento le donne assumono maggiori ruoli in ambito pubblico, declinando le proprie considerazioni e interventi in uno scenario fortemente parcellizzato. Le donne sono consapevoli del fatto che nelle argomentazioni sociali non si possa più separare la problematizzazione del cambiamento all’interno dell’istituzione famiglia, dalla gestione della casa e del privato e dal problema del lavoro. Secondo Saraceno (2001) “La partecipazione al mercato del lavoro da parte dei vari membri della famiglia è condizionata quindi non solo dalla qualità della domanda di lavoro, ma anche dalla divisione del lavoro familiare e dai rapporti entro la famiglia, in termini sia di responsabilità allocate che di potere e di definizione degli spazi di autonomia dei singoli. Mutamenti interni alle relazioni familiari possono provocare mutamenti nell'offerta di lavoro. Mutamenti nella domanda di lavoro

possono a loro volta produrre cambiamenti nell'offerta e nella stessa organizzazione familiare; la crescita di domanda di lavoro femminile nei servizi, negli anni '70 e '80, ad esempio, ha prodotto profonde trasformazioni nei comportamenti femminili, in termini se non altro di ridistribuzione del tempo, ma anche delle aspettative.”

Se si considera la differenza sessuale come un dato della natura, ad essa non si può applicare nessuna subordinazione in quanto ai dati della natura non appartengono strutturazioni gerarchiche. Secondo Cavarero (2002) solo la potenza generatrice del corpo femminile, ovvero la sua capacità di generare la vita, è l’unico elemento gerarchizzante di questa differenza. Cavarero dichiara che la tradizione patriarcale, affermando la superiorità del maschile sul femminile, ha inteso così reagire alla potenza materna, traducendo la differenza sessuale in una gerarchia di preminenza maschile in cui il femminile si limita a un ruolo secondario, ovvero di servizio. A questo stato di cose subentra, nella modernità, il principio di uguaglianza. Prima della modernità i ruoli sociali attribuiti agli uomini e alle donne erano fortemente connotati da considerazioni di status. Nella post modernità la rappresentazione del femminile continua a essere strutturato dall’essere naturalmente legata al ruolo domestico, materno, di servizio, mentre il maschile come naturalmente competente, intelligente, razionale, politico. Seppur nulla sembra essere cambiato e la persistenza degli stereotipi dimostra che le lotte del movimento femminista non hanno sortito gli effetti desiderati, tuttavia alcuni meccanismi tradizionali si sono incrinati lasciando la possibilità alle donne di potersi inserire in alcune dimensioni simboliche che in passato erano una prerogativa

maschile. Appare significativo notare che i sistemi di riferimento non si sono modificati e lo si può verificare dal fatto che le donne che riescono ad inserirsi in contesti sociali propri dell’uomo riescono a mantenere tale ruolo solo se assumono la posizione di uomo. Pertanto non è il sesso biologico a determinarne la posizione ma gli assunti di genere. Il ruolo è maschile e le coordinate di riferimento sono stabilite: ancora una volta, il riferimento su cui orientare l’ordine sociale è l’uomo. Cavarero definisce questo processo il paradosso dell’uguaglianza, non è solo l’uomo che esercita la sua prepotenza ma anche la donna che si adatta agli schemi proposti.

L’introduzione del concetto di gender diede alle donne la speranza che si potesse costituire un comune denominatore in grado di rappresentare la pluralità delle donne. Le donne infatti ritenevano che la femminilità andasse ben al di là della loro struttura anatomo- biologica e che nell’approcciarsi alla dimensione femminile fosse necessario considerare una molteplicità di fattori. Il movimento femminista si rendeva conto infatti che non si poteva più parlare della donna utilizzando gli stessi schemi del primo femminismo, l’utilizzo della categoria gender permise di riunire mediante un unico lessema aspetti connessi al sociale, in particolar modo in esso si assunsero come implicite le problematizzazioni derivate dall’arbitrarietà con cui le diverse società attribuivano dimensioni di significato alle differenze tra i sessi. In secondo luogo si sottendevano gli aspetti relazionali delle forme sociali e il rapporto tra i sessi, partendo dal presupposto della logica binaria che non si potesse studiare la donna senza di riflesso considerare anche l’uomo. Infine esprimeva una critica all’utilizzo dello status come categoria

d’indagine nella differenza tra i sessi un esempio dell’inadeguatezza del costrutto nell’analisi si può ritrovare nello studio dell’asimmetria nella divisione del lavoro, in tale contesto i criteri naturali non riescono ad interpretare le diversità di attribuzione di ruolo presenti nelle varie società. La donna pertanto non era solo la donna, le rappresentazioni simboliche connaturate alla sua individualità non potevano più essere espresse mediante questa tautologia ma, la sua essenza si declinava sulla base di molteplici variabili quali: la preferenza sessuale, la razza, l’etnia, la classe, l’età, la religione. Il movimento delle donne e i gender studies iniziano quindi a porre attenzione alla molteplicità dei fattori coinvolti nel processo di generazione della conoscenza, si studiano i contesti, i repertori narrativi e le circostanze in cui vengono prodotti i discorsi. Quella concezione che fondava la disparità di status su una differenza di natura connotata in termini gerarchizzati viene ribaltata radicalmente: è quindi la cultura a generare una distinzione appoggiata retoricamente sull’evidenza anatomo-biologica.

Nel rivedere agli assunti passati e l’introduzione di nuovi costrutti che fossero maggiormente in grado di esprimere lo spirito del tempo l’utilizzo del termine gender, sollevò tra gli specialisti internazionali alcune perplessità, in quanto lo stesso lessema nelle lingue neolatine è connotato da più dimensioni di significato e pertanto la sua fruizione avrebbe potuto comportare una distorsione teorica poggiante sull’ambiguità, per tali motivi solitamente gli studi di genere vengono chiamati gender studies. Il termine genere deriva dal termine latino genus e il greco genos, che significano razza, famiglia, parente o specie: il genere è quindi intriso di implicazioni

biologiche (Collins, 1992), tuttavia è utile ricordare l’evoluzione dei significati di tale termine per comprendere meglio le argomentazioni che indussero i ricercatori ad avanzare delle perplessità. Nella tradizione filosofica a partire da Platone e Aristotele il genere era legato a un aspetto ontologico e stava ad indicare una categoria di oggetti che hanno in comune proprietà essenziali e differiscono per proprietà non essenziali. Platone considerava i generi come note del reale, e ne distingueva i cinque generi più importanti: essere, movimento, quiete, identità e diversità. Per Aristotele il genere non si doveva intendere come una sostanza nel senso più proprio ma come l’espressione necessaria e per questo motivo egli la chiama sostanza seconda. La discussione sulla natura dei generi nel Medioevo si orientò alla disanima della natura degli universali. Si può affermare che nella logica contemporanea il concetto di genere ha perduto ogni connotazione ontologica e sta unicamente a indicare una classe la cui estensione comprende una molteplicità di classi meno estese. Secondo l’uso corrente della lingua il termine genere in Italia assume almeno cinque declinazioni diverse: 1- insieme di persone o di cose con caratteristiche comuni, 2- in botanica e in zoologia, unità di classificazione superiore alla specie, 3- merce, prodotto, 4- categoria distintiva del maschile, del femminile e, nelle lingue in cui esiste, del neutro, 5- raggruppamento di opere letterarie, artistiche, musicali operato in base a caratteri comuni. Secondo Busoni (2000), difficilmente un ricercatore non anglofono avrebbe potuto affidare un concetto così rilevante a un termine che lascia spazio all’indeterminatezza e all’ambiguità.

dei sessi socialmente imposta, un prodotto delle relazioni sociali; l’autrice termina il suo saggio con la richiesta di un impegno da parte del mondo scientifico e politico a eliminare le differenze di genere. (Piccone Stella, Saraceno, 1996)