CAPITOLO 2 IL RUOLO DELLE DONNE
1. UGUALI O DIVERSE
Nel 1784 Kant E., nel suo saggio Risposta alla domanda: che cos'è l'Illuminismo? definì l’illuminismo come:
“[…] l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso.
Tab 6. Notizie riguardanti donne per regione:1995-2010
1995 2000 2005 2010 Africa 22% 11% 19% 19% Asia 14% 17% 19% 20% Caraibi 22% 22% 25% 25% Europa 16% 19% 21% 26% America Latina 16 20% 23% 29% Medio Oriente 14% 15% 15% 16
America del nord 27% 25% 26% 28%
Minorità è l'incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza essere guidati da un altro. Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! – è dunque il motto dell'illuminismo.”(1784 in Di Chio, 2010 p. 177)
La frase di Kant, citata per la rilevanza che ha assunto nel descrivere i fenomeni che hanno interessato il 1700 e il 1800, riassume con grande efficacia le vicende del femminismo e le questioni a esso connesse. Ripercorrendo questa storia possiamo rintracciare segni tangibili delle lotte effettuate dalle donne per uscire dal loro stato di minorità, una lotta che individuava nella condizione economica e giuridica gli ambiti su cui agire per conquistare la libertà, svincolandosi dalle imposizioni volute direttamente o indirettamente dall’uomo. Non si tratta di ricostruire una genealogia del femminismo, ma di problematizzare la complessità del processo emancipativo delle donne e di comprenderne anche le contraddizioni. Riprendendo l’assunto sopra citato possiamo, pertanto, dire che non è la mancanza d’intelletto a ostacolare le donne nel loro essere soggetti attivi della storia della civiltà, ma la mancanza di coraggio e perseveranza ed è proprio sulla scia di tale argomentazione che esse
si organizzeranno per ripensare il loro essere nel mondo e predisporre le condizioni più opportune per concretizzare il percorso di autonomia.
Non sorprende, pertanto, che la presa di coscienza delle donne, di essere individui con gli stessi diritti e doveri degli uomini, scaturisca dai fermenti intellettuali dell’illuminismo. Non a caso, vi è una grande concordanza nella comunità scientifica nell’affermare che le due grandi anime del movimento femminista sono rappresentate dalle riflessioni di pensatrici americane e francesi. Sullo scenario storico-sociale queste due nazioni si distinguono per essere state le prime che si sono interrogate sul rapporto tra l’amministrazione del potere e i bisogni del popolo. In seguito anche ai moti rivoluzionari avuti luogo nella seconda metà del XVIII secolo, l’individuo si pone come soggetto politico avente diritti riconosciuti e tutelati dallo Stato. Nel 1776, in linea con lo spirito del tempo e lo sviluppo del concetto di diritti umani si formalizzò, negli Stati Uniti, con la Dichiarazione dei Diritti della Virginia, il ruolo della cittadinanza come elemento di equità tra tutti gli individui. Tale documento si può ritenere la prima dichiarazione dei diritti dell’uomo dell’epoca Moderna. E’, infatti, la prima volta che diritti definiti fondamentali, naturali, inalienabili e imprescrittibili per l’uomo, si svincolano dall’appartenenza a una qualsivoglia realtà politica e si approssimano a prefigurarsi come universali. Anche nella della Dichiarazione dei Diritti degli Uomini e del Cittadino del 1789 si sostiene che la salvaguardia dei diritti dell’uomo e della sua felicità siano essenziali nella gestione della vita sociale, “l’ignoranza, l’oblio o il disprezzo dei diritti dell’uomo sono le uniche cause delle sciagure pubbliche e
della corruzione dei governi […]”. Le rivoluzioni che investirono gli Stati-Nazione allora in nuce, pur portando a una trasformazione della struttura sociale nei termini di una riappropriazione, da parte del suddito divenuto cittadino, della vita politica e più in generale pubblica, sembrano non considerare a pieno titolo il ruolo delle donne che in virtù del loro essere cittadine iniziano a percepirsi come aventi gli stessi diritti degli uomini. Sin dai tempi di Aristotele alla donna veniva negato l’accesso alla sfera pubblica e ancor più alle pratiche politiche, l’esclusione delle donne dalla sfera pubblica era legata intrinsecamente alla loro soggezione alla vita privata. Fin dalla divisione antica tra pòlis e òikos, e con una rinnovata chiarezza nei teorici moderni del giusnaturalismo e della democrazia, i due aspetti erano infatti strettamente intrecciati. (Rossi Doria, 1990). Le prime tracce di una coscienza di genere che problematizza quelle tematiche che si consolideranno solo nel Novecento inoltrato e che contribuiranno a definire il profilo della donna come soggettività e agente politico, si erano delineate a partire dalla Rivoluzione francese e hanno contribuito a creare un’opinione pubblica e condivisa sulle questioni che le mantengono ancorate ai ruoli tradizionali.
La rivendicazione femminile all’uguaglianza non si riferiva solo alla esplicita richiesta che venisse loro riconosciuto il diritto di cittadinanza mediante l’estensione del suffragio ma, la lotta contro l’oppressione si diramava in molti terreni della vita sociale (Mitchell, 1966). Le donne storicamente avevano esperito solamente agli aspetti connessi ai doveri della vita comunitaria, nella concezione di diritti e doveri dei cittadini, propria dello Stato moderno, le donne venivano giuridicamente e culturalmente escluse dalla possibilità di godere di
diritti ufficialmente riconosciuti dagli organi di governo. Proprio in virtù di tale diversità molte donne si associarono per ribellarsi dallo stato di minorità a cui erano assoggettate. Come abbiamo accennato precedentemente l’esclusione dalla partecipazione attiva alla vita pubblica si può rintracciare ancora nell’antichità delle civiltà greche e romane, “malgrado tutte le differenze tra filosofi, da Platone a Habermas, la tradizione del pensiero politico occidentale si fonda su un concetto di ciò che è politico costruito attraverso la esclusione delle donne e di tutto ciò che è rappresentato dalla femminilità e dal corpo femminile” (Lyndon Shanley, Pateman, 1991, p.3). Appare significativo ricordare che secondo la tradizione classica l’uomo derivava dall’individuo mentre la donna viene fatta risalire al génos, nato dalla rottura del vaso di Pandorra portatore di tutti i mali sulla terra, tale rappresentazione basata sulla differenza anatomo-biologica delle persone appare singolare e indicativa nella comprensione storica dell’evoluzione femminile. Aristotele argomentava la sua interpretazione sulla differenza tra gli uomini e le donne utilizzando il concetto di natura umana e pertanto facendo risalire a una differenza anatomo-biologica, che per lungo tempo è stata una condizione immodificabile dell’individuo, a cui l’individuo si trova assegnato dalla nascita la disuguaglianza innata tra i due generi. Tale posizione trovò per circa due millenni un largo consenso negli organi di scienza e di amministrazione del potere. Nella seconda metà del Novecento la filosofa Arendt incarnando lo spirito del tempo inizia a proporre una chiave interpretativa della condizione umana che si discostava dagli schemi classici.