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CAPITOLO 2 IL RUOLO DELLE DONNE

4. IL FEMMINISMO DELLA DIFFERENZA

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La differenza sessuale per Irigary (1974) deve essere intesa come una sorta di accoppiamento strutturale tra gli elementi di natura e quelli di cultura o per meglio dire una “specifica articolazione fra corpo e parola”, (p. 117). Secondo la filosofa nella tradizione Occidentale la realtà viene generata mediante la messa in opera di un processo di confronto tra un elemento e tutti gli altri. Nella fattispecie del rapporto uomo donna, si può attingere a numerosi casi in cui il profilo della donna è costruito sulla base del suo grado di vicinanza o lontananza con l’oggetto principe: l’uomo. Come si ricorderà da quanto detto in precedenza il primo femminismo si qualifica soprattutto per la sua tensione all’uguaglianza, le donne attingevano nel concetto di uguaglianza la speranza della rottura degli schemi oppressivi attuati, consapevolmente o inconsapevolmente, dagli uomini. Seguendo tale ragionamento logico, se le donne fossero state considerate uguali agli uomini si sarebbe assistito all’annullamento della diversità sessuale, ovvero l’universo generato sarebbe stato caratterizzato da tanti cittadini uguali, il ricorso a definizioni quali maschio e femmina avrebbe

perso la sua capacità denotativa: il genere neutro avrebbe dominato. Tale condizione, per ovvi motivi, è stata ripensata dalle stesse femministe le quali hanno orientato maggiormente la loro attenzione alla lotta all’oppressione secondo schemi interpretativi che si svincolavano totalmente dal sesso biologico e trovavano la loro forza nell’interpretazione culturale .

E’ innegabile che i maschi e le femmine siano diversi ma tale diversità secondo l’autrice rappresenta una ricchezza conoscitiva. Irigaray non mette in discussione il diritto all’uguaglianza e al riconoscimento dello stesso grado di opportunità per ciascun individuo, segnala semplicemente che non si può prescindere dal dato della natura, e sarebbe un grave torto all’umanità non distinguere gli individui in base alle loro differenze, nello specifico i maschi e le femmine. Nei testi di Irigaray si ritrova spesso l’espressione “differenza sessuata” e non “differenza sessuale”, tale distinzione parte dal presupposto che è necessario privilegiare ciò che accomuna tutte le donne, appare pertanto più rilevante concentrarsi sulla differenza femminile invece che sulla divisione basata sugli orientamenti sessuali.

Irigaray ritiene che non si tratta di prendere una posizione su ciò che sia più rilevante nella costruzione e sviluppo della donna, l’autrice non orienta il suo sapere sulla base di una costruzione gerarchica tra dati della natura e della cultura nell’analisi della donna. La costruzione della donna, così come quella dell’uomo si basa sulla commistione dei dati di natura e di cultura. In questi anni l’orientamento alla generalizzazione del genere umano inizia a perdere la sua forza e s’instaura nel pensiero collettivo l’idea che in

ciò che era definito identità, o carattere secondo l’accezione del senso comune, come un blocco monolitico e immutabile sia in realtà composto da una pluralità di elementi. La prima distinzione che si esprime anche mediante il corpo è data dalla distinzione di due sessi biologici, ciò però non rappresenta più una causa necessaria e sufficiente per determinare lo sviluppo delle relazioni future, riprendendo la lezione di de Beauvorir secondo cui donne non si nasce ma si diventa, si sottolinea che la variabile culturale veicola le diverse declinazioni del concetto di maschio e femmina. Irigaray reputa che le identità sessuate si costruiscano per mezzo delle relazioni, e che la messa in gioco delle differenze permetta all’individuo di non vincolarsi alla staticità di un ruolo. Per l’autrice, non è possibile un Noi senza che vi sia un’irriducibile differenza tra l’Io e il Tu. “L’uguaglianza fra uomini e donne non può realizzarsi senza un pensiero del genere in quanto sessuato e senza una riscrittura dei diritti e dei doveri di ciascun sesso, in quanto differente, nei diritti e nei doveri sociali.” (1974, p.12). E’ in Speculum che Irigaray indica con maggior precisione che il rapporto con l’alterità se lo si considera solo secondo l’ottica psicoanalitica è intrinsecamente corrotto dalla predominanza maschile che si propone come riferimento universale. “Sembra che l’uomo abbia voluto, direttamente o indirettamente, dare il proprio genere all’universo, così come ha voluto dare il proprio nome ai figli, a sua moglie, ai suoi beni. Questo incide pesantemente sui rapporti dei sessi con il mondo, con le cose, con gli oggetti. Infatti ciò che è considerato di valore appartiene agli uomini ed è contrassegnato dal loro genere.”(1974, p.29). Secondo Irigaray è importante ricordare che le

rappresentazioni simboliche a cui si fa riferimento per connotare la donna non traggono la loro origine dal concetto negativo di non uomo, e pertanto con tale posizione si considera che la donna e l’uomo sono diversi ma la loro esistenza e relazione non è vincolata da rapporti gerarchici in cui, come avveniva nel primo femminismo, l’uomo rappresenta il riferimento con cui confrontare la donna. L’autrice sostiene che il rimanere ancorati alla posizione di uguaglianza tra i sessi tipica del primo femminismo determini un fallimento nel processo di sviluppo delle donne. Come già detto il riferirsi all’uguaglianza implica un’operazione di paragone, in cui si individua un elemento e se ne confrontano altri, il grado di similitudine ne determina l’esistenza. La filosofa infatti sostiene che “le difficoltà che le donne incontrano per entrare nel mondo culturale maschile hanno come conseguenza che quasi tutte, comprese quelle che si dicono femministe, rinunciano alla loro soggettività femminile e ai rapporti con le altre donne, e ciò le conduce in un vicolo cieco, individuale e collettivo, dal punto di vista della comunicazione. Ne risulta un notevole impoverimento della cultura, ridotta ad un unico polo d’identità sessuata.” (1974, p.19). Per Irigaray le donne non si devono confrontare con gli uomini ma relazionare con essi esprimendo le proprie differenze. La filosofa infine sostiene l’importanza nel ritrovare una spinta di cambiamento per la soggettività della donna, un dirigersi verso le pratiche politiche e inconsce che permettono il divenire della soggettività a partire dalla differenza incarnata nella sessualità. Secondo l’autrice la lotta di liberazione è stata troppo a lungo legata a “una cultura senza opportunità soggettive per le donne e che molte donne, in mancanza

di un’identità propria, si cercano oscuramente un posticino all’interno di un’epoca tecnologica che ha bisogno delle loro risorse di energia per darsi qualche illusione di avvenire.” (1974, p.112)

Mediante il concetto di essenzialismo1 strategico la Spivak, In The Post-Colonial Critic (1990), individua un possibile riavvicinamento tra pratiche politiche e riflessioni identitarie secondo le logiche della postmodernità. Il concetto di essenzialismo presuppone che ogni gruppo di individui sia connotato da caratteristiche proprie e uniche e sulla base dell’esistenza di tali peculiarità si possa parlare di identità collettive, alla stessa stregua con cui si utilizza il concetto di identità individuale. In tal modo si interromperebbe il perpetuarsi nei secoli della logica binaria, secondo cui le donne sono tutto ciò che gli uomini non sono, e si introdurrebbero categorie univoche. La Spivak crede che l'essenzialismo sia un “errore necessario”: per ottenere concreti

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La stessa politica dell’identità diventa sempre più il frutto di un «essenzialismo strategico» (la cella stessa politica dell’identità diventa sempre più il frutto di un «essenzialismo strategico» (la celebre definizione è di Spivak: si veda G.C. Spivak,

Subaltern Studies: decostruire la storiografia, in R. Guha, G.C. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Verona, ombre corte, 2002), ovvero il

frutto di accentuazioni strategiche (se vogliamo, performance) dei caratteri di un’identità di per sé irriducibile ai singoli assi della sua subordinazione (ancora classe, razza, genere); e alla menzogna della sorellanza si sostituisce la promessa di solidarietà e alleanze a loro volta contingenti (non perché deboli, ma perché prive di garanzie) e tutte da costruire ( ebre definizione è di Spivak: si veda G.C. Spivak,

Subaltern Studies: decostruire la storiografia, in R. Guha, G.C. Spivak, Subaltern Studies. Modernità e (post)colonialismo, Verona, ombre corte, 2002), ovvero il

frutto di accentuazioni strategiche (se vogliamo, performance) dei caratteri di un’identità di per sé irriducibile ai singoli assi della sua subordinazione (ancora classe, razza, genere); e alla menzogna della sorellanza si sostituisce la promessa di solidarietà e alleanze a loro volta contingenti (non perché deboli, ma perché prive di garanzie) e tutte da costruire ( in S. De Petris, Il femminismo postcoloniale.

Una bibliografia, «Storicamente», 3 (2007),

risultati sociali dovremmo utilizzare un’immagine semplificata dei soggetti per cui si lotta, rimandando il dibattito teorico alle discussione interne ai singoli gruppi minoritari. Il concetto di essenzialismo, nonostante i limiti concettuali, per l’autrice rappresenta una forma di strategia politica per attuare pratiche di progresso sociale.

La critica all’autoritarismo e ai ruoli sociali alla fine degli anni settanta divenne una profonda critica alla società occidentale, i temi del primo femminismo avevano subito profonde modifiche di senso, l’uguaglianza assumeva connotazioni di tutela delle opportunità e di lotta alle dinamiche di oppressione. Questi studi non si declinano più come un campo di sapere a sé stante con un nuovo e definito oggetto di indagine rispetto al periodo precedente, ma rappresentano innanzitutto una questione di metodo, un modo di