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Il difficile bilanciamento tra repressione dei reati di opinione e libertà di espressione

Scriveva il filosofo ed economista britannico John Stuart Mill nella seconda metà del XIX secolo in riferimento ai reati di opinione: <<è vero che non condanniamo più a morte gli eretici, e che l’insieme delle sanzioni penali, che la sensibilità moderna probabilmente sarebbe in grado di tollerare anche contro le opinioni più pericolose, non è sufficiente ad estirpare queste ultime. Ma non rallegriamoci di essere ormai liberi anche dalla macchia della persecuzione legale. Esistono ancora sanzioni penali contro le opinioni, o perlomeno contro l’espressione di opinioni, e la loro applicazione, anche al

nostro tempo, non è così priva di esempi da rendere del tutto impensabile che un giorno tali sanzioni possano essere ripristinate in tutta la loro forza.>>49.

I problemi che ci troviamo ad affrontare quando decidiamo di trattare il tema del reati di opinione sono risalenti nel tempo, come ben dimostrano le parole di Stuart Mill, e riguardano tutte le società nelle quali la libertà di espressione è stata riconosciuta come diritto. La difficoltà è quella di individuare il giusto punto di equilibrio tra il diritto di comunicare liberamente il proprio pensiero e la necessità di ostacolare, spesso proprio facendo leva sulla capacità deterrente della sanzione, coloro che intendano abusare dello stesso per divulgare contenuti illeciti.

Realizzare un giusto bilanciamento non è però affatto facile, poiché troppo permissivismo finirebbe per andare a decremento della salvaguardia di quei beni giuridici di cui intendiamo garantire tutela e che potrebbero ricevere pregiudizi, anche gravi, per effetto di tali comportamenti. Dall’altro lato però, troppo rigore rischierebbe di porsi in contrasto con la libertà riconosciuta, con il rischio di veder così concretizzate nuove forme di censura.

Nel nostro ordinamento la libertà di manifestazione del pensiero deve essere letta in stretta connessione con l’art. 2 Cost., con il quale il costituente attribuisce alla Repubblica il compito di garantire il pieno sviluppo della persona umana <<sia come singolo che nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità>>. È fuor di dubbio difatti, che le opinioni un soggetto si forma sui fatti del mondo, nel corso della vita, costituiscono parte integrante del suo modo di essere, della sua individualità, e che la realizzazione del pieno sviluppo della persona umana è, sotto tale aspetto, strettamente legata alla concreta possibilità per questi, di mettere gli altri a parte dei suoi pensieri. Solo per tale via infatti, può concretizzarsi quel confronto tra i diversi modi di concepire l’esistenza che è elemento basilare nella formazione e nell’evoluzione della personalità di ciascuno e che, a ben guardare, costituisce anche linfa vitale della democrazia.

Prima di affrontare il tema più da vicino è necessario fare subito una precisazione: ciò che il legislatore ha inteso sanzionare con l'introduzione dei <<reati di opinione>>, è la manifestazione, la divulgazione di un certo contenuto di pensiero50. Da questo punto di

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J. STUART MILLER (1869), Sulla libertà, trad. it. 4° ed. a cura di G. MOLLICA, Milano, 2006. 50

Non è infatti chiaro come si possa sanzionare taluno per il solo fatto di aver pensato qualcosa senza però aver concretizzato quel pensiero al di fuori del mondo delle idee, vale a dire senza averlo espresso in alcun modo. Stimolanti sul punto sono le osservazioni di M. DAN-

vista, quindi, sembra quindi essere più appropriato l’uso della locuzione <<reati di espressione>>. D'altronde il nostro sistema penale, che è informato al principio della materialità del reato, non riconosce come incriminabili i semplici “atti del pensiero” che non si traducano in un agire concreto.

Non però tutte quelle figure criminose che vanno a colpire la manifestazione di un contenuto di pensiero rientrano nella categoria dei reati di opinione (non vi ricadono ad esempio la diffamazione o l’ingiuria nelle quali tuttavia il reato si consuma pur sempre nella espressione di un certo contenuto e che quindi ben potrebbero essere commessi anche a mezzo delle nuove tecnologie), che altrimenti finirebbe per essere troppo ampia e indefinita.

Le figure criminose prese in considerazione sono caratterizzate, come vedremo meglio nel seguito, non solo dal disvalore del contenuto di pensiero espresso, ma anche dal fatto che queste vanno ad offendere la sensibilità collettiva di un gruppo, ponendosi in contrasto con principi e valori che sono generalmente accolti dalla società nella sua interezza o anche limitatamente diversi gruppi etnici, religiosi, politici, sociali di cui la stessa si compone. Il vilipendio, l’apologia di delitto, l’istigazione a delinquere, la propaganda di idee razziste e xenofobe, determinano un’aggressione immediata nei confronti di una collettività che si riconosce nei valori mortificati dai reati di opinione, laddove, invece, delitti quali l’ingiuria e la diffamazione offendono una sensibilità individuale in quanto sono perpetrati ai danni di persone fisiche o giuridiche singolarmente individuate o individuabili.

Il problema di fondo è quindi quello di capire fino a che punto è possibile tutelare la libertà di manifestazione del pensiero e quali sono, laddove presenti, i limiti che non possono essere superati nell’esercizio di tale diritto, pena la compressione di altri rilevanti beni giuridici che l’ordinamento intende salvaguardare.

Come visto, l’art. 21 della Costituzione garantisce ai consociati la possibilità esprimersi con qualsiasi mezzo, non ultimo dei quali, secondo l’interpretazione estensiva accolta da dottrina e giurisprudenza, la rete. Ora se è vero che le opinioni personali sui fatti del mondo costituiscono parte integrante della personalità di ciascuno, queste, a rigore, dovrebbero essere coperte dalla tutela costituzionale e quindi potrebbe sembrare contrario alla Norma Fondamentale prevedere la possibilità di sanzionare taluno proprio per il fatto di aver dato diffusione al proprio pensiero.

COHEN, Harmful Thoughts, in Boalt Working Papers in Public Low, 1999, consultabile su: http://repositories.edlih.org/boaltwp/100.

Ad un esame più approfondito dell’art. 21, è agevole però rendersi conto di come il Costituente non abbia affatto inteso garantire un diritto incomprimibile, assoluto, all’esercizio di tale libertà, ma come questo possa essere limitato e non solo per garantire la tutela del buon costume, al quale si fa espresso riferimento nel dettato costituzionale, ma in vista della tutela di ogni altro diritto che possa ritenersi prevalente rispetto a quello che subisce la restrizione. È insomma necessario effettuare un bilanciamento tra i diritti in gioco per verificare se la limitazione che è imposta dal legislatore alla libertà di manifestazione del pensiero, con l’introduzione dei reati di espressione, possa dirsi giustificata e quindi conforme a Costituzione. Dovrà essere accertato, in altre parole, che la compressione alla libertà garantita non sia superiore rispetto a quella necessaria per assicurare la tutela di altri diritti di pari rango.

Proprio a tale proposito l’interprete si trova però di fronte ad un problema di particolare rilevanza: l’indeterminatezza della fattispecie. Il legislatore, in verità, con l'introduzione del d.lgs. 85/200651 ha cercato, sia pure con esiti non sempre soddisfacenti, di porre rimedio a tale problema; ma ancora oggi la formulazione delle disposizioni che si riferiscono ai reati di opinione risulta talora troppo vaga nei suoi contenuti, in quanto la descrizione della condotta illecita è realizzata impiegando locuzioni spesso laconiche (fare propaganda, vilipendere) che non riescono a circoscrivere in modo preciso la portata della fattispecie..

Non a caso la Corte Costituzionale52, in relazione al reato di vilipendio, nega che possa essere incriminata <<qualsiasi espressione di personale dissenso, avversione o

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Con tale d. lgs., il legislatore ha in alcuni casi provveduto a depenalizzare alcune fattispecie di delitti che non risultavano più rispondenti alle mutate esigenze di tutela (è il caso della disciplina di cui agli artt. 269, 272, 279, 292-bis, 293, 406 c.p.), in altre ipotesi la pena detentiva è stata sostituita con quella pecuniaria (ne sono un esempio gli art. 290, 291, 292, 299, 342, 403 e 404 c.p.), oppure tali reati sono stati riformulati in modo da presentare una connotazione maggiormente specifica rispetto alla dizione precedente, integrando la condotta perseguita non più meri “fatti diretti”, bensì “atti violenti diretti ed idonei” (così il nuovo testo degli artt. 241,283, 289 c.p.). Per approfondimenti sul tema v. FIORE, I reati di opinione, Padova 1972, o sullo stesso tema M. PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche, in Dir. pen. proc., 2006; D. NOTARO, Modifiche al codice penale in materia di reati di opinione, in Leg. pen., 2006; C. VISCONTI, Il legislatore azzeccagarbugli: <<le modifiche in materia di reati di opinione introdotti dalla l. 24 febbraio 2006 n. 85, in Foro it., 2006.

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Corte Cost. sentenza n. 531, depositata in data 23 novembre 2000. La pronuncia è reperibile sul sito: http://www.giurcost.org/decisioni/2000/0531s-00.html

disdegno, priva di concreta idoneità offensiva, spettando al giudice impedire con un prudente apprezzamento della lesività in concreto, un’arbitraria ed illegittima dilatazione della sfera dei fatti da ricondurre al modello legale.>>.

Dovrà essere quindi l'autorità giudiziaria a valutare volta per volta la concreta lesività della condotta incriminata, al fine di evitare che siano censurati anche quei comportamenti privi di concreta capacità lesiva.

Accanto a ciò si pone poi un altro problema, ancora legato all’indeterminatezza dei reati di opinione e riconducibile stavolta alla non sempre agevole individuazione del bene giuridico tutelato dalla norma. L’individuazione della condotta sanzionata dai reati di cui si tratta è in genere affidata, come detto ad espressioni di sintesi. Tali espressioni, nonostante i loro profili di incertezza, presentano però un nucleo centrale di sicura ed incontroversa applicazione, rispetto ai quali l’interprete non avrà dubbi.

Accanto a tali casi “facili”, troviamo però anche delle “zone d’ombra”, vale a dire casi dei quali è più difficile dire se siano o meno riconducibili al concetto (di propaganda, di vilipendio) e quindi in ultimo se ricadano nella fattispecie. Rispetto a tali casi, il giudizio di tipicità della condotta dipende in gran parte dalla possibilità di individuare il bene giuridico tutelato. Tuttavia, nei reati di espressione, non sempre è agevole capire quale sia il bene che il legislatore ha inteso salvaguardare, e quindi è difficile praticare quel tipo di interpretazione teleologica che spesso permette di far fronte all’indeterminatezza delle fattispecie descritte dalle norme giuridiche.

Per cercare di capire qual è il tipo di tutela che il legislatore ha inteso garantire con l’introduzione dei reati di espressione e verificare quindi se tale limitazione alla libertà di manifestazione del pensiero possa dirsi giustificata dall’importanza dei beni giuridici salvaguardati, è allora utile, a questo punto, guardare agli stessi come categoria al fine di rinvenirne i caratteri comuni. Questi possono essere schematizzati in quattro punti:

a) ci troviamo sempre di fronte a forme di manifestazione del pensiero di tipo recettivo, nel senso che per la loro concretizzazione è necessaria l’esternazione, in qualsiasi modo, del contenuto offensivo, senza che sia richiesta per la punibilità della condotta, l’intenzione dell’agente di provocare nel mondo esterno qualcosa di diverso dalla mera ricezione del messaggio valutativo espresso;

b) il contenuto del pensiero espresso non è semplicemente informativo o narrativo, ma più propriamente di tipo valutativo. Il soggetto agente esprime la propria opinione dando dei giudizi di valore, in genere di tipo critico, su diverse questioni strettamente legate a valori e principi diffusi nella società e spesso di rango costituzionale, quali l’importanza ed il rispetto dovuto alle istituzioni e ad ogni credo religioso (vilipendio), il principio di uguaglianza (reati di odio a sfondo razzista) ecc;

c) ad essere incriminata in ciascun caso è una condotta meramente comunicativa, il fatto di aver divulgato un contenuto di tipo offensivo. Sebbene infatti, in alcuni casi la norma incriminatrice tipizzi la condotta illecita con riferimento all’uso di certi strumenti di divulgazione, affinché si possa parlare di reato di opinione, non è necessario che l’agente si sia affidato ad una specifica modalità espressiva, contando in genere solo il fatto della diffusione in qualsiasi modo del pensiero;

d) la condotta espressiva è sanzionata in quanto il contenuto offensivo, che si pone in contrasto con i valori super-individuali su cui si fonda la società (il principio di solidarietà, il dovere di obbedire alle leggi, la pari dignità sociale), è potenzialmente idoneo a indurre i destinatari dello stesso a tenere delle condotte non necessariamente violente, ma comunque in contrasto con la legge.

Ciò che si sanziona nei reati di espressione non è quindi il contenuto di pensiero in sé, per quanto deplorevole possa essere, quanto piuttosto il fatto che questo sia pubblicamente espresso - <<chiunque offende pubblicamente(...)>> recitano gli art. 290, 291 c.p. - evenienza che potrebbe indurre i terzi a porre in atto condotte volte proprio a ledere quei beni giuridici così mortificati. Nella stessa direzione si è mossa la Corte Costituzionale la quale, con la sentenza sopra citata, in riferimento al delitto di vilipendio, ha affermato che la punibilità non si estende alle espressioni di critica, anche aspra, ma solo a quei contenuti di pensiero la cui manifestazione, possa indurre i destinatari alla disobbedienza e finanche al disprezzo delle istituzioni poiché travalicano i confini della libertà di espressione, negando qualsiasi valore e dovere di rispetto al bene giuridico oggetto di protezione.

Mentre l’ingiuria o la diffamazione rappresentano così delle vere e proprie forme di aggressione diretta alla dignità, all’onore, alla rispettabilità, di una persona determinata, i reati di espressione offendono invece una sensibilità collettiva, o meglio il senso di una dignità che è da ciascuno sentita in quanto appartenente ad un gruppo. Ci troviamo,

quindi, davanti a un fenomeno molto più sfuggente e indefinito in cui ad essere colpita non è una sensibilità individuale (come appunto nel caso della diffamazione o dell’ingiuria), ma è la somma di tutte quelle sensibilità individuali che formano nel loro complesso la collettività offesa. Perché il reato di espressione si configuri e quindi la restrizione della libertà di cui all’art. 21 Cost. sia giustificata, è però necessario che tra la manifestazione del pensiero ed il pregiudizio (o il pericolo di un pregiudizio) esista una connessione casuale effettiva53.

I reati di espressione sarebbero quindi da tale angolatura dei reati di pericolo54 posti, non tanto a tutela di valori morali sovra-individuali, ma di beni giuridici concreti che potrebbero subire un pregiudizio proprio in ragione degli effetti che tali esternazioni sarebbero in grado di determinare nella società. Così, ad esempio, l’originaria fattispecie di apologia di reato55 (oggi art. 414, comma 3° c.p.), con la quale si s anzionava la semplice esaltazione pubblica di fatti delittuosi, è stata riletta in chiave costituzionalmente orientata da parte dei giudici della Consulta56, escludendo

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Si tratta di considerazioni affatto nuove se teniamo presente che lo stesso Jean-Paul Sartre, polemizzando contro gli antisemiti che in nome della libertà di opinione reclamavano il diritto a predicare la crociata antiebraica, commentò: <<Ammetterei a rigore che si abbia un'opinione sulla politica vinicola del governo [...]. Ma mi rifiuto di chiamare opinione una dottrina che prende di mira espressamente persone determinate, che tende a sopprimere i loro diritti e a sterminarle>> (corsivi miei). Jan-Paul Sartre, L’antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Edizioni di Comunità, Milano, 1964.

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Interessante a tale proposito, ma non qui riportabile per la non stretta attinenza al tema trattato, è la discussione sorta tanto in dottrina quanto in giurisprudenza, circa la descrizione di queste figure criminose nei termini di reati di pericolo concreto implicito o di pericolo astratto.

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Significativa è a tale proposito l’evoluzione subita da questa fattispecie penale. Difatti

l’originaria disposizione con cui si sanzionava l’apologia di reato statuiva: <<Salvo che il fatto costituisca più grave reato (…) è punito: a) con la reclusione sino a tre anni chi diffonde in qualsiasi modo idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale o etnico, ovvero incita a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, incita a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi; >>.

Oggi invece come si può ben vedere confrontando tale disposizione con l’art. 414 c.p. è venuto meno ogni riferimento alle attività di pura propaganda che non si sostanzino nella vera e propria istigazione alla commissione di reati.

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La Corte Costituzionale con sentenza 23 aprile 1970, n. 65 ha dichiarato che <<l’apologia punibile ai sensi dell’art. 414 c.p., è quella che per le sue modalità, integra un comportamento

l’incriminabilità di tutto ciò che potrebbe rientrare nella pura propaganda di pensiero e limitando l’ambito di applicazione della fattispecie alle ipotesi in cui sia difesa o giustificata pubblicamente la commissione di delitti. Il rischio che si corre a perdere di vista le peculiarità della fattispecie è quello di svuotare l'apologia di delitto di ogni significato, facendone sostanzialmente un doppione dell'istigazione a delinquere in cui le condotte criminose non sono solo approvate, bensì incoraggiate ed auspicate.

Quanto detto ci permette di capire l’importanza che questo tipo di figure criminose assumono proprio con l’avvento delle nuove tecnologie. Non sono rari infatti i casi in cui i reati di espressione sono commessi proprio mediante l’utilizzo di internet, in quanto strumento in grado di garantire una più rapida ed efficace diffusione del contenuto comunicativo. Ora, fermo restando che tutto ciò che è illecito nel mondo materiale, non può non esserlo anche in quello virtuale, è evidente la necessità di garantire la persecuzione di tali reati a prescindere dal mezzo utilizzato per perpetrarli. Sarebbe infatti paradossale se il legislatore pretendesse di sanzionare i reati di espressione quando fossero realizzati mediante mezzi i diffusione classici, magari anche di modesta portata, e ne negasse la sanzionabilità quando fossero commessi a mezzo delle nuove tecnologie vista la potenziale capacità divulgativa delle stesse.

7. La regolamentazione di internet e la sanzione penale dei reati di espressione

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