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Negli anni settanta gli architetti italiani vivono una condizione diversa rispetto a quella dell’e- poca precedente. Sono cambiati i temi del dibat- tito ma sono cambiate soprattutto le condizioni che rendono l’attività dell’architetto sempre più legata a fenomeni da lui non controllabili. All’ini- zio degli anni ottanta Franco Purini descrive con queste parole la situazione del decennio appena trascorso: “Tutti noi quarantenni, compiuti od im-

minenti, abbiamo disegnato per tutto il decennio passato parlando anche moltissimo ma senza co- struire.

Quel poco che qualcuno ha fatto è stato accurata- mente nascosto.

Abbiamo preferito tutto sommato la soluzione mo- ralistica del rifi uto del compromesso, dell’esser fuo- ri, dell’osservare accigliati.

Certo, tutto ciò si può capire.

All’inizio degli anni 70 ci si presentavano almeno tre scelte, la cui notevole divergenza implicava pro- getti di vita fortemente alternativi.

Da qui una grande incertezza, da qui infi nite di- scussioni nei nostri studi da studenti.

Si poteva praticare l’architettura disegnata facendo spesso progetti autocommessi, tracciando tavole di un «tracciato» che si è rivelato alla prova del decennio meno evasivo di quanto molti temesse- ro, partecipando ai concorsi con risultati che hanno

alimentato per anni le pagine delle riviste. Ed è la scelta di chi scrive.

Si poteva insegnare e lo si è fatto, costringendo spesso lo studente a farsi mezzo dell’espressione del docente, a diventare oggetto di prove

di laboratorio, queste, si, lievemente compensative. E allora parlare molto era necessario per motivare il progettare «attraverso» l’esperienza didattica di un altro o di altri.

Ed è stata soprattutto la scelta di coloro che non hanno ritenuto necessario interporre tra l‘essere stati studenti e l’insegnare un tempo per la verifi - ca di sé oltre la scuola e, perché no, anche contro questa.

L’ultima scelta, la più diffi cile, consisteva nel co- struire.

Costruire per i privati, però, dal momento che la committenza pubblica, già per suo conto di diffi cile accesso, era orientata, per una serie numerosa di ragioni, verso gli studi più organizzati, collaudati da verifi che precedenti.

Questi privati dettavano ogni regola del gioco, circoscrivevano con sospetta esattezza i margini dell’operazione.

Non vantando tradizioni di particolare lungimiranza questi committenti riducevano un tema progettuale ai soli connotati di superfi ci e cubature consideran- do la qualità, anche quella che non ha un costo per- ché deriva da un attento coordinamento di misure e proporzioni, un elemento stravagante, capace di inquietare il cliente, allarmato dall’eccezione.”2

Purini in questo scritto mette in evidenza una condizione di diffi coltà causata da un sistema edilizio che si basa sulla speculazione ma pur-

2 PURINI, Franco, Presentazione in “137,03 L’architet- tura di Giovanni Rebecchini”, Roma, Kappa, 1982, pp. 5-6

troppo questo non è l’unico problema che affl ig- ge questo periodo storico.

In aggiunta alla questione della speculazione, di cui parla Purini, va considerata la cattiva gestio- ne del problema abitativo da parte degli enti pubblici. Tra la fi ne degli anni sessanta e l’inizio dei settanta in Italia l’attenzione verso il proble- ma dell’edilizia popolare è fortissima e vengo- no costruiti molti progetti frutto di importanti sperimentazioni dei quali i più importanti sono Corviale (1973) di Mario Fiorentino a Roma op- pure il quartiere Zen (1969)di Vittorio Gregotti e Franco Purini a Palermo.

Questi progetti sono tra loro molto diversi sot- to il profi lo architettonico eppure subiscono la stessa sorte. Per anni le cause sono state ricer- cate nel problema tipologico e questo sicura- mente può motivare alcuni fenomeni negativi però il vero problema è che questi complessi edilizi, di notevoli dimensioni, sono stati gestiti dagli enti politici senza una attenzione adeguata. Il problema si è rivelato di natura principalmente sociale: infatti collocare migliaia di persone tut- te appartenenti ai ceti poveri in grandi aggregati edilizi, lontani dalla città e quindi dai servizi ha innescato un fenomeno di ghettizzazione sociale che si è rivelato molto problematico.

In questi casi è mancata un’adeguata gestione politica dei fenomeni sociali ma anche di quelli economici e infrastrutturali dato che tali quar- tieri avrebbero dovuto ospitare negozi e avere le infrastrutture necessarie per un buon collega- mento con la città ma questo non è stato fatto e ciò ricadeva nell’ambito di competenza del sog- getto politico-istituzionale.

contribuito con forza ad ostacolare il percorso verso una nuova architettura e tra questi vi è il fatto che l’Italia non è stata capace di elaborare una poetica post-industriale. Se dagli anni trenta agli anni sessanta le infrastrutture ferroviarie , le autostrade e le industrie erano state progettate con l’intenzione di costruire architetture infra- strutturali e produttive che non avessero paura di affermare la propria identità, fi no ad arrivare ad un concorso per il ponte di Messina, che è forse uno dei momenti più straordinari di tale fenomeno, dagli anni settanta la progettazione di queste tipologie viene ritenuto un problema escusivamente tecnico e, in quanto tale, affi da- to a professionisti di settori specifi ci ma facendo ciò si rinuncia alla possibilità di disegnare e defi - nire il paesaggio.

Un altro problema di questo periodo è dovuto

alla defi nitiva affermazione dell’automobile che causa l’abbandono dei centri storici e la rinuncia all’infrastrutturazione del territorio italiano con adeguati mezzi per il trasporto pubblico infatti l’automazione, nei trasporti come negli altri set- tori, continua ad essere considerata un feno- meno negativo: progetti come quello di Gregot- ti e Purini per l’Università di Firenze in cui viene previsto un collegamento con le reti ferroviare che diventano a tutti gli effetti parte dell’edifi cio non vengono metabolizzati e il rapporto con il paesaggio continua a svilupparsi secondo il crite- rio del minimo intervento e della rinuncia al dia- logo tra architettura, territorio e infrastrutture. Questo fenomeno porta all’inevitabile fallimen- to di un’architettura che ambisce ad una nuova defi nizione non soltanto della disciplina ma an- che di un modo di vivere gli spazi che avrebbe riguardato tutta la società.

Nel 1974 nascono anche le Soprintendenze e questo è un altro elemento che presenta aspetti negativi per l’architettura italiana dato che ri- manda il problema dell’intervento nei contesti storici ad una serie di normative che derespon- sabilizzano l’architetto dal porsi di fronte alla questione storica con consapevolezza.

Il problema della storia inizia ad essere conside- rato anch’esso come un problema escusivamen- te tecnico e questo non permette di rileggere la questione dei centri storici per poterla ridefi nire ma ne causa la musealizzazione, a volte con la presenza di spiccati fenomeni speculativi.

La città dunque si divide tra centro storico e zona di espansione e queste due realtà non sono messe in condizione di poter dialogare tra loro, a causa di una serie di aspetti normativi, socia-

Nelle pagine precedenti: Roma Est dello Studio Asse; Dormitori dell’Università di Chieti di Giorgio Grassi In Alto: disegno di Aldo Rossi in cui si nota la fi gura del Santo

li ed economici che la politica asseconda senza mettere in discussione. Le zone di espansione diventano sempre più ampie e si perde il con- cetto di scala urbana, per cui prende vita un’i- dea di città la cui dimensione è quella territoriale che, come si diceva sopra, viene accettata di per sé ma non viene pianifi cata.

LE NUOVE QUESTIONI DELL’AR-